IL MASNADIERO
A novant’anni suonati Gualtiero Jacopetti si era guadagnato una serenità cerulea da esule nazista.
Era facile immaginarlo avvolto dalla frescura di un patio, nella quiete della pampa, con il conforto di un passaporto ben falsificato. Intento a rimuginare senza troppi sensi di colpa sulle imprese belliche del passato.
Eppure la sua arma prediletta è stata la macchina da presa, battute di caccia escluse. Un’Arriflex imbracciata con abilità canagliesca, da testimone in prima linea dell’intero secolo breve, diventando il trait d’union concettuale tra l’estetismo kitsch di Gabriele d’Annunzio e le grevità dell’infotainment di Striscia la notizia.
Manipolatore spregiudicato di parole e immagini, si costruirà una biografia composita, sempre sospesa tra il rotocalco, il romanzo colonialista e i periodici sconfinamenti nel codice penale.
Antiumanista programmatico, ostentava il cinismo meditato di chi sente di appartenere a una classe eletta, per censo, per cultura, per physique du rôle da masnadiero fatale, e per abilità narrativa. Non rinuncia mai a esibire senza filtri la propria seducente impresentabilità, in un’Italia già dedita a rivestire di sentimentalismo peloso la propria ferocia.
Lucchese di Barga, «cantuccio d’ombra romita» per Giovanni Pascoli, era nato il 4 settembre del 1919.
Naturalmente vocato all’azione, da esteta armato in pectore, allo scoppio della seconda guerra mondiale abbandona gli studi e si arruola volontario, contro il parere paterno. Lo eccita la prospettiva di finire nell’Africa salgariana, fantasticata a lungo. «Ero stato figlio della lupa e poi avanguardista, sempre felicemente intriso dell’atmosfera fascista del mio tempo. Smaniavo per difendere la mia patria».
Viene spedito a Roma, nominato caporale. Bardato come un esploratore equatoriale, con tanto di casco di sughero, viene trasferito a Bari, in attesa di partire per la Libia. All’ultimo momento la sua nave viene dirottata, per ordini superiori, verso la più vicina Albania. Il continente nero tanto favoleggiato, delle appetitose faccette dalla pelle d’ebano, si dissolve di colpo, cedendo il passo alla cruda realtà di una gelida Durazzo, coperta di neve, con il barometro precipitato sotto zero.
Per il giovane Gualtiero è la prima, formativa, delusione: gli eroici furori cominciano a sbollentarsi, cedendo il passo a un disincanto che diventerà il suo tratto distintivo.
Abbandonata la terra delle aquile e i suoi ghiacci, si ritrova in Grecia con il grado di sergente. Lontano dai grandi avvenimenti, comincia a fremere di noia. Alza la posta e chiede di partire per la Russia. Lo accontentano: «Giunsi in tempo per godermi la grande ritirata sul Don, sorbendomi cinquemila chilometri a piedi, abbarbicato alla bandiera del reggimento».
La lunga, massacrante marcia è foriera di ulteriori riflessioni. Utili ad affrontare con opportunismo il marasma ambiguo dell’8 settembre. D’improvviso, inaugurando un trasformismo pirotecnico da arcitaliano, l’avanguardista Jacopetti si ritrova ufficiale di collegamento presso la Quinta armata americana, la Buffalo Division. Gli viene subito affidata una missione di prestigio: rintracciare lo scottante carteggio tra Mussolini e Churchill. O, almeno, così racconterà, tessendo la propria autobiografia con piglio beffardo e musicalità lucchese: «Paracadutato a Milano, all’alba, mi ritrovai a passare in rassegna i cadaveri allineati nel cimitero milanese di Musocco. Cercavo di riconoscere i volti di quelli che gli americani avevano individuato come possibili custodi del prezioso epistolario».
Tra tanti morti anonimi il giovane Gualtiero riconosce i petti impiombati e i volti tumefatti di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, fosche star dei telefoni bianchi e dell’abortito tentativo di cinema repubblichino, dipinti dalle cronache come personaggi sopra le righe, intasati di cocaina, fiancheggiatori del torturatore di partigiani Pietro Koch, nelle segrete di Villa Triste.
«Mi assalì la pietà umana per quei resti oltraggiati. Vidi sfregiato, vilipeso, il ricordo adolescente che avevo dei miei due attori preferiti. Da ragazzo avrei dato qualsiasi cosa, per incontrare i miei due miti. In particolare Luisa Ferida, che popolava prepotentemente i miei sogni notturni. Vederla ammassata tra tanti cadaveri, con il bel viso rinascimentale che cominciava a decomporsi, fu uno shock tremendo».
Uno spettacolo doloroso, come quello che gli si presenta il 25 aprile del 1945, a piazzale Loreto.
In divisa da ufficiale, sul sedile di una camionetta militare americana, Jacopetti osserva meditabondo l’oscillazione del corpo rovesciato del Duce. «Ero lì con il mio amico Fedele Toscani, padre di Oliviero. Fotografò i corpi martoriati di Mussolini e di Claretta Petacci, appesi sulla pensilina. Gli americani volevano sequestrargli il rullino: lo consideravano uno spettacolo macabro, da Grand Guignol: non volevano che quelle immagini si diffondessero. Intervenni io: ne avevo l’autorità, e gli americani rinunciarono al sequestro, permettendo a quell’immagine di entrare nella Storia».
Tutto rigorosamente falso, secondo Oliviero Toscani. «Mio padre filmò per l’Istituto Luce gli avvenimenti di piazzale Loreto. Le pellicole furono requisite dagli americani tre giorni dopo l’accaduto. Ma riuscì a tenere i negativi fotografici dell’avvenimento, tutto questo senza l’intercessione di Jacopetti, che quel giorno non era nemmeno a Milano».
L’unico dato biografico certo vede Jacopetti congedarsi dall’esercito nel 1947, col grado di sottotenente, per riprendere gli studi universitari a Pavia. In quel periodo il giovane Gualtiero avvia una breve ma intensa attività propagandistica contro il blocco delle sinistre, in vista delle prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Nel 1948 si assesta su una paradossale terza posizione, monarchica e filoamericana. Noleggia aerei scalcinati e lascia piovere sulle città volantini contro comunisti e socialisti, in un pauperistico revival dannunziano, ridimensionato dalle ristrettezze economiche del dopoguerra.
Durante un comizio a piazza del Duomo a Milano nota tra la folla tre personaggi curiosi: «Uno piccolino, uno alto e secco e uno corpulento, che mi guardavano con un certo interesse. Scendo dal palco e il segaligno mi si avvicina e mi chiede, di botto, se fossi toscano come lui». Era Indro Montanelli, affiancato da Leo Longanesi e Giovanni Ansaldo. L’idillio è immediato: Jacopetti accompagnerà quotidianamente l’Indro nazionale a via Solferino, alla sede del Corriere della Sera. Il mondo del giornalismo lo affascina da quando era adolescente. La monumentale sede del Corriere gli appare «come un sacrario inaccessibile, il Vaticano dei giornalisti: mi attirava e mi metteva soggezione». Montanelli intuisce la stoffa del suo nuovo amico e gli fornisce una dritta decisiva: «Se vuoi entrare in questo palazzo, ti devi allenare nel salto in alto, perché questo edificio non ha scale. Devi fare un gran balzo ed entrare dalla finestra». L’allegoria montanelliana, apparentemente oscura, ha un significato preciso: al Corriere non si accede tramite carriera canonica. Bisogna inventarsi un’irruzione spettacolare: «Va’ in un posto pericoloso del mondo, difficile da raggiungere, dove nessuno ha il coraggio di andare. Quando sei lì, scrivimi un bel reportage e portamelo».
Jacopetti accoglie il suggerimento, e rispolvera l’agendina dei preziosi contatti americani. Riesce così a farsi trasportare, nascosto nel bagagliaio di un’auto, in una Vienna assediata dal rigido controllo sovietico. Da lì, ospite di alcune famiglie di immigrati italiani, incomincia la sua collaborazione con il Corriere. I suoi pezzi dell’epoca somigliano già, per stile e temi, ai documentari a venire. Il bersaglio ricorrente della satira jacopettiana è l’occupante sovietico, osservato dalla prospettiva degli emigranti italiani, capaci di risolvere con furbi espedienti situazioni apparentemente insormontabili. Jacopetti predilige eventi a sfondo melodrammatico, affrontati con un mélange di cinismo e senso dell’epica.
L’articolo del 28 dicembre 1948 sembra un addendum tarantiniano, ante litteram, di Bastardi senza gloria. Curiosamente, in un ipotetico biopic dedicato alla figura di Jacopetti, il protagonista più indicato sarebbe proprio il viennese Christoph Waltz.
Il reportage si intitola «Il vecchio fonografo disarma i russi invasori» e narra le vicende di un vecchio emigrante «con baffoni umbertini». Alcuni soldati russi, ebbri di vino e vodka, gli hanno invaso la casa, attirati dalle sue giovani figlie. Lo stupro appare ormai inevitabile, ma il furbo italiano lo sventa accendendo il fonografo. La forza ipnotica degli inni monarchici ottunde la rapacità sessuale dei soldati. «Sembra che i russi apprezzino i canti italiani quando non ne comprendono le parole», si compiace tra sé e sé l’astuto italiano, versando ancora vodka ai suoi molesti ospiti. Badando a coprire, con mirati starnuti, nomi compromettenti, che possano lasciar trapelare i reali contenuti dei canti. Jacopetti sembra così omaggiare Le sottilissime astuzie di Bertoldo, prefigurando l’italiano sagace e vincente di tanta barzellettistica. Sul piano dello stile getta le basi di un’estetica riduzionistica che caratterizzerà tutto il suo cinema: gli oggetti e i personaggi, sbucati dalla penna o inquadrati dalla camera, vengono raccontati in funzione di una tesi pregressa, selezionandone, e a volte inventandone, i dettagli più paradossali ed estremi. La sua prosa è striata di tinte espressioniste e barocche, crudele come una favola di Basile, affollata di ritratti alla Otto Dix.
Concluso il periodo viennese, dopo un breve passaggio da inviato alle Canarie, Jacopetti accede all’edizione pomeridiana del Corriere e, successivamente, alla Settimana Incom. L’intervista esclusiva rilasciata dal rappresentante del Negus d’Etiopia, evento mediatico utile a ripristinare le relazioni fra i due paesi, è il primo grande scoop di Jacopetti, proibitivo per qualsiasi giornalista, ma non per chi vanta rapporti privilegiati con i servizi segreti americani.
Successivamente Jacopetti fonda Cronache della politica e del costume, giornale che annovera tra le sue firme anche Curzio Malaparte. Jacopetti lo aveva avvistato d’estate, a Forte dei Marmi, a metà strada tra il bagnasciuga e la Capannina. Sulle prime, non aveva riconosciuto il celebre scrittore. Era semplicemente rimasto colpito da quest’uomo a testa in giù, lo sguardo tenebroso e le gambe sollevate, impegnato in un’ardita posizione yoga. A causa di un’impudente forza di gravità, dal costume da bagno malapartiano, nero d’organzina, pendeva un testicolo in libertà. Jacopetti si avvicina e fa notare al Malaparte rovesciato l’incresciosa situazione. Curzio torna in posizione eretta, rendendosi riconoscibile. Riveste d’organza le pubenda e gli stringe virilmente la mano: «Grazie, giovanotto. Ricordi, gli uomini d’oggi sono senza coglioni. Chi ne ha, ha il dovere di mostrarli sempre, con orgoglio: sono una rarità. Lei ha l’aria di esserne ben equipaggiato». Si inaugura così una grande amicizia con un’anima affine. I due condivideranno chilometri percorsi a piedi sul bagnasciuga versiliano, ponendo le basi per la caustica linea editoriale di Cronache. Ne verrà fuori un’originale commistione di politica, società, costume, cronaca rosa, con un taglio molto anticonformista per l’epoca. Finiranno nel mirino, in sequenza, ministri grotteschi, divi del cinema colti in piena ubriachezza molesta, ex milionari al tubo del gas, dittatori giunti mestamente all’ultimo atto, madonne apparse a pastorelle in crisi mistica nei recessi della provincia italiana. Refrain immancabile, un’esibizione insistita di procaci pin-up. Autentiche prelibatezze, per la bulimia onirica di Fellini: è questo il brodo primordiale da cui germoglia La dolce vita.
Al punto che il regista riminese vorrebbe ingaggiare Gualtiero come attore protagonista del suo film in costruzione. Il capello ondulato, lucido corvino, lo sguardo di ghiaccio, il ghigno maliardo, l’eleganza innata e l’affabulazione melliflua: Jacopetti è fin troppo aderente al profilo del corruttore gentiluomo. Respinge però al mittente le lusinghe felliniane, forse conscio di quanto il personaggio somigli alla sua realtà. Restio a finire in balìa delle fantasie altrui, lascia che Fellini si crogioli nella lascivia morbida, più passiva, di Mastroianni. Marcello, anche nella perdizione, conserva sotto le occhiaie l’innocenza pigra di figlio di mamma italiana di provincia, traviato da cattive compagnie metropolitane. Jacopetti, invece, ha tutta l’aria del demiurgo, di cattive compagnie. Abile a gestire intrighi, persone, giornali. Cronache, nelle sue mani, diventa il fulcro del costume italiano nell’Italia degli anni Cinquanta. Le fotografie, con il loro potere immaginifico e seduttivo, si rivelano un’arma innovativa e vincente.
Con qualche inconveniente: in una copertina, la Loren solleva leziosamente un lembo della gonna. Quanto basta perché Jacopetti ne ricavi una condanna a un anno e quattro mesi per fabbricazione e spaccio di immagini pornografiche. Ma un’incriminazione ben più grave lo attende dietro l’angolo. Nel 1955, durante una notte di febbraio, una zingara non ancora tredicenne si presenta alla stazione pariolina dei Carabinieri. L’adolescente racconta di essere solita avvicinarsi a macchine lussuose, per leggere la mano agli occupanti e ricavarne qualche spicciolo. Quel giorno si è avvicinata a un’auto americana: al volante c’è Jacopetti, che la soppesa con occhio torbido. Al suo fianco, l’industriale Buzzetti. Dopo una breve contrattazione la invita a salire in macchina «per leggere la mano a un’amica».
La ragazzina racconta di essere stata portata in una casa. I due le hanno chiesto sesso, in cambio di cinquemila lire. Jacopetti nega le accuse, ma sparisce per destinazione ignota. Viene arrestato poco dopo, a Mirandola, nel modenese, mentre sta cercando di convincere il padre della ragazzina a raggiungere un accordo amichevole. Per mettere una definitiva pietra tombale sulla faccenda, il signor Kaldaras, suo futuro suocero, chiede anche la modica cifra di un milione.
Jacopetti paga, ma finisce comunque a Regina Coeli; per uscire dal carcere ha un solo mezzo: sposare la ragazzina, che all’anagrafe è registrata come Jolanda Kaldaras. Il matrimonio viene celebrato in carcere, nell’ufficio del comandante. Gualtiero ha l’occhio torvo e il completo di lino. Non degna di uno sguardo lei, che invece sfodera un sorriso smarrito e un abito lungo di seta, tempestato di gioielli scintillanti. Il matrimonio, che verrà annullato nel 1964, evita a Jacopetti conseguenze penali, ma la sua immagine è compromessa. Deve abbandonare rapidamente Cronache: la sua firma è diventata imbarazzante, sgradita in ogni contesto. È costretto a lavorare da clandestino alla Settimana Incom. All’inizio incontra qualche resistenza. Ma in poco tempo il suo cinismo beffardo finisce col creare una nuova tendenza, squadernando il galateo giornalistico del suo tempo e appagando il sadismo latente del pubblico. Uno stile che fa breccia perfino nella bonarietà austera di Angelo Rizzoli. Sedotto dalla sua aria da filibustiere, il vecchio tycoon vede in Gualtiero quel tombeur de femmes che avrebbe voluto essere. «Rizzoli mi adorava, mi dava del tu, caso raro, mentre alle sue amanti riservava il voi. Mi disse che Nenni gli aveva spiegato la spartizione: ai comunisti il cinema e a noi socialisti i libri».
Il grande produttore è incolto ma intuitivo, come tanti imprenditori abili a farsi strada, con spregiudicata inventiva, tra le macerie del dopoguerra. Intravede per primo il potenziale innovativo del linguaggio jacopettiano. Scrittura Gualtiero prima per L’Europeo Ciac, dal 1956 al 1958, e poi per Ieri, oggi e domani, nel 1959.
Gualtiero ha finalmente tutta la carta bianca che cercava per dare pieno corpo alla propria visione del mondo.
La realtà, per lui, sembra non esistere di per sé. È una materia prima grezza, un magma indistinto da stuprare con voluttà, deformandola e ricreandola a proprio piacimento, libero da ogni zavorra etica. Facendola a pezzi e rimontandola con sapienza, conferendole una patina attraente. Cova, come una chioccia consapevole, il primo embrione di una società fondata sullo spettacolo.
«Io nasco come giornalista, e morirò giornalista, abitato dal demone della curiosità per il mondo. Sono passato dalla macchina da scrivere a quella cinematografica. È solo un passaggio tecnico, che mi ha permesso di catturare testimonianze immediate. Il giornalista classico, fino a quel momento, era uno che si portava dietro un fotografo, con un armamentario ingombrante, per ricavare due immaginette, con cui corredare l’articolo. Nell’immagine in movimento, invece, intuivo un potenziale sconvolgente. Avevo milioni di fotografie, avevo il movimento, la voce da aggiungerci, la musica, il suono ambiente, i silenzi. Tutti mezzi per condurre il fruitore nel mondo che avevo costruito per lui. Con la parola scritta avrei sprecato fiumi di retorica, per non riuscirci».
Negli anni Cinquanta e Sessanta, inocula nel tubo catodico gli stilemi aggressivi e adrenalici della comunicazione postmoderna. In perfetta antitesi con la visione bernabeiana della televisione, Gualtiero non si pone come pedagogo, non vuole redimere né consolare. Trova l’animale umano un’incurabile patologia. Bizzarra, ...