Le parole chiave
Abbandoni
di Francesco Curci e Federico Zanfi
L’abbandono di parti del territorio italiano non è una questione nuova. Le prime indagini sullo spopolamento montano risalgono agli anni trenta del Novecento (Istituto nazionale di economia agraria - Comitato nazionale per la geografia del Cnr 1932), e dalla seconda metà del secolo ai processi di esodo rurale si aggiungono altre e più episodiche dinamiche di abbandono. Potere attrattivo delle città, catastrofi naturali e repentini cambiamenti nella struttura economica e sociale di molte comunità locali, oltre a favorire abbandoni spontanei, hanno provocato – segnatamente nel Mezzogiorno – evacuazioni e talvolta ricostruzioni di interi abitati con compromesse condizioni di salubrità, sicurezza e accessibilità. Ogni elenco risulterebbe incompleto, qui basti richiamare le vicende dei Sassi di Matera, di Gibellina, della città vecchia di Taranto, del Rione Terra di Pozzuoli, o i borghi di Craco, di Africo e Roghudi (→ Paese).
Dalla fine degli anni ottanta, tuttavia, qualcosa di nuovo si aggiunge al quadro. L’abbandono inizia a manifestarsi in forme diverse, investendo altri tipi di territori e manufatti: non più solo centri storici, edifici rurali e «terre alte» coltivate – rovine dei mondi tradizionali e non privi di fascino raccontati da Vito Teti e Antonella Tarpino – o impianti produttivi, attrezzature e infrastrutture della modernità nel frattempo svuotati dai processi di deindustrializzazione (Secchi - Boeri 1990), ma anche depositi di più recenti stagioni di sviluppo distrettuale e turistico. Un vasto e diffuso capitale fisso di spazi del lavoro, dell’abitare e del welfare materiale che ora va in crisi per nuovi e diversi fattori. Diventano progressivamente evidenti sia l’intrinseca deperibilità e la rapida obsolescenza di immobili realizzati da una società industriale consumistica, sia l’eccesso di patrimonio e l’accumulo di scarti prodotti da un’ultratrentennale stagione di crescita economica, demografica ed edilizia le cui dinamiche propulsive iniziano a rallentare. Fenomeni a cui si aggiunge il deficit di urbanità e qualità paesaggistica dei territori in cui tali manufatti frequentemente sono collocati. Mentre resta prassi consolidata il recupero di centri ed edifici «storici» (→ Patrimonio), nella disordinata urbanizzazione diffusa lombarda e veneta, nei distretti industriali in crisi friulani e marchigiani, lungo le coste consumate dal turismo di massa e dall’abusivismo edilizio nel Mezzogiorno – ma anche laddove il nuovo si è affiancato al vecchio in scomposti tentativi di rinnovamento in loco – il recupero di immobili ordinari intrinsecamente fragili e ubicati in contesti squalificati si fa sempre meno scontato (Curci - Zanfi 2018).
In questa nuova e diversa fase cambiano anche i modi di rapportarsi a ciò che è abbandonato o rischia di esserlo, sia da parte dei soggetti direttamente interessati a questi patrimoni immobiliari, sia da parte della ricerca scientifica e delle politiche pubbliche. Da un lato aumenta il coinvolgimento dell’ampio ceto proprietario e delle imprese, soggetti che si trovano a far fronte a svalutazioni e rendite negative di beni immobili in cui si erano depositati risparmi e investimenti nei decenni precedenti, e questo impone un non semplice riorientamento delle strategie familiari e imprenditoriali a essi legate. Dall’altro lato cresce la consapevolezza di una crisi sistemica che sta investendo interi tratti di urbanizzazione italiana recente, dove l’abbandono e il sottoutilizzo diffusi sono segnali di un precoce processo di declassamento e svalutazione. All’annoso problema delle migliaia di borghi abbandonati si aggiunge quello degli edifici inutilizzati e delle abitazioni vuote (o non occupate da residenti), che all’ultima rilevazione censuaria rappresentano rispettivamente il 5,1% e il 22,7% degli stock nazionali (Istat 2011). A preoccupare ulteriormente è poi il dato secondo cui tra 2011 e 2018, in Italia, i fabbricati collabenti, ossia i ruderi e gli immobili diroccati o altamente degradati, sono aumentati del 94% (Agenzia delle Entrate 2019).
Tutto ciò ci offre elementi per intuire che la politica «giusta» da perseguire in futuro difficilmente potrà consistere nella rivitalizzazione di tutti i luoghi abbandonati. Tale prospettiva non sembra coerente con l’assetto demografico che verosimilmente ci attende (Associazione Neodemos 2018), né sembra compatibile con la disponibilità di risorse pubbliche che eventualmente implicherebbe. E va aggiunto che il generalizzato recupero dei patrimoni edilizi in abbandono non è neppure auspicabile in un paese ove troppe urbanizzazioni mal fatte compromettono il valore dei paesaggi in cui sono inseriti, o sono esposte a rischi mitigabili solo mediante investimenti irragionevoli in relazione al numero di abitanti interessati, o sono cariche di inquinanti la cui bonifica non è plausibile entro le attuali condizioni del mercato immobiliare, o ancora comportano insostenibili costi pubblici di infrastrutturazione.
In questo quadro dovremmo (ri)cominciare a pensare l’abbandono diversamente: meno come un fenomeno «che accade»; più come un’azione consapevole e selettiva, da indirizzarsi entro un più generale disegno di riorganizzazione insediativa e infrastrutturale del paese. Non solo, allora, un contrasto dell’abbandono con politiche attive, ma anche un progetto e un accompagnamento dell’abbandono in determinate situazioni di particolare rischio, declino, crisi ambientale. Situazioni nelle quali sarebbe opportuno – da subito – non incentivare più interventi di riqualificazione edilizia, né finanziare misure per la messa in sicurezza degli insediamenti, né stimolare processi di riabitazione (e questo porta con sé una riflessione necessariamente critica verso alcuni recenti investimenti pubblici per la messa in sicurezza dei territori a rischio e incentivi per la riqualificazione del patrimonio edilizio privato, che si sono invece distribuiti a pioggia).
Come iniziare a percorrere tale prospettiva? Anzitutto – cogliendo il buono delle esperienze maturate nelle shrinking cities and regions di molti paesi – dobbiamo lasciarci alle spalle l’atteggiamento luttuoso che accompagna l’abbandono nel senso comune e far nostra l’idea che il ritrarsi delle attività residenziali in un territorio non per forza ne implica l’abbandono totale. L’alleggerimento del carico di abitanti stanziali e la rimozione selettiva di edifici e infrastrutture possono, al contrario, costituire le premesse per riconvertire urbanizzazioni costiere, porzioni di campagna urbanizzata e insediamenti pedemontani a nuovi usi ed economie: avamposti per la frequentazione ricreativa e temporanea di aree disabitate, alla ricerca di tracce storico-culturali o di paesaggi più naturali e salubri; supporti per economie produttive rinnovabili legate al bosco, all’energia idraulica ed eolica; ambiti prioritari per lo sviluppo di funzioni ecosistemiche prodotte dalla rinaturalizzazione e dall’accrescimento delle riserve naturali (→ Boschi; Risorse), i «rifugi per la diversità» di cui ci parla Gilles Clément nel Manifesto del Terzo paesaggio (2005).
Tutto ciò richiede anzitutto pensieri attivi e costruzione di senso positivo sulle cose e gli spazi che si abbandonano, come già Kevin Lynch ci invitava a fare trent’anni fa nel suo Wasting away (1990). E, in seconda battuta, investimenti per l’adeguamento infrastrutturale e la riorganizzazione insediativa di quelle parti del nostro paese che avranno sempre meno abitanti, o che si attesteranno su numeri molto più bassi di residenti e addetti rispetto al passato. Opere che saranno necessarie sia per rilanciare il valore d’uso – culturale, ricreativo, turistico – di certi patrimoni pubblici e privati, sia per rendere possibili le economie dei soggetti che sceglieranno di frequentare, manutenere e rendere produttivi quei territori (→ Fragilità territoriali) senza necessariamente risiedervi stabilmente. In altre parole, che sceglieranno di «riabitarli» in modo nuovo.
Accessibilità
di Andrea Debernardi
«Il compito di ottenere la massima soddisfazione mediante l’impiego di mezzi insufficienti non è […] in alcun modo limitato all’economia umana. Esso deve essere affrontato ogniqualvolta un generale dispone le sue truppe per la battaglia, un giocatore di scacchi considera il sacrificio di un pedone, un avvocato predispone le prove per difendere un cliente, un artista dosa i suoi effetti, un credente destina preghiere e buone azioni al conseguimento della massima redenzione possibile o, per avvicinarsi al nostro punto, una massaia parsimoniosa programma gli acquisti della settimana. Che si tratti di truppe, pedoni, prove, effetti artistici, buone azioni, o dei soldi della settimana, i mezzi insufficienti possono essere impiegati in diversi modi, ma una volta impiegati in un modo, non possono esserlo in un altro; anche chi sceglie ha in vista più fini e deve impiegare i mezzi in modo da raggiungere quelli che preferisce», così Karl Polanyi in La sussistenza dell’uomo (1983).
Al nostro punto, conviene forse fare un breve riassunto delle puntate precedenti. Nel 301 d.C. l’imperatore Diocleziano vincolò i coloni, già soggetti a una pesante fiscalità, alle terre da loro coltivate, aprendo una stagione che si sarebbe conclusa soltanto quattordici secoli dopo. Per questo lunghissimo periodo, il solo accesso realmente richiesto dalla gran parte della popolazione europea, nell’occasionale ricerca di protezione da una carestia, o dalle devastazioni indotte dal transito di un esercito, era quello al borgo fortificato più vicino. La quotidianità immobile del corpo sociale veniva per il resto interrotta unicamente dagli spostamenti dell’emigrazione, permanente o stagionale, svolti quasi sempre al passo lento del pedone; e in questo mondo di aspettative molto limitate la sola idea di aver diritto di accedere a un qualunque luogo, per un qualsivoglia motivo, sarebbe stata probabilmente giudicata dai più priva di senso.
Non si tratta poi di un tempo molto lontano: gli annuari statistici dell’ultimo dopoguerra riportano ancora, fra le caratteristiche delle singole località abitate, quella di essere raggiunte, o meno, da una strada carrozzabile. Non erano pochi, infatti, gli insediamenti accessibili soltanto a dorso di mulo. E ancora il 13 giugno 2017 «La Stampa» pubblicava una bella intervista alla signora Paolina, rimasta a 91 anni l’ultima residente di Socraggio in Val Cannobina, dalla quale raccontava di essere uscita, in tutta la sua vita, solo due volte.
In effetti, solo con la Rivoluzione industriale la mobilità personale diventa una necessità quotidiana. In Inghilterra, il potente fattore di espulsione dalle campagne, rappresentato dalle enclosures, e il contestuale effetto attrattivo dei nuovi opifici, concentrano gruppi umani che, sulle prime, sono comunque soggetti a limitazioni di movimento non inferiori a quelle conosciute dai contadini loro antenati. Ma con il tempo l’urbanesimo conduce anche a una sorta di disclosure, perché – mano a mano che la quotidianità esce dai ristretti limiti dell’autosussistenza – si accresce la sua dipendenza da beni e servizi dislocati rispetto al proprio domicilio. Il resto lo fa il socialismo municipale, che, ampliando l’accesso all’istruzione, alle cure mediche, e via via a una platea sempre più ampia di prestazioni, finisce per generare problemi generalizzati di spostamento, che eccedono largamente le distanze percorribili a piedi.
La soluzione tecnica, anch’essa sviluppata dal capitalismo industriale, consiste nella meccanizzazione del trasporto, dapprima garantita dalla forza del vapore applicata ai mezzi navali o ferroviari, e quindi declinata nella forma del veicolo privato. In un saggio bello e divertente Stefano Pivato (2019) racconta dei primi velocipedi, entrati nell’uso a fine Ottocento come mezzi di svago per ricchi e stravaganti borghesi, e anche per questo soppiantati, in breve, dall’automobile. I nuovi veicoli rendono possibile a chiunque possa permettersene l’acquisto di recarsi ovunque desideri; beninteso appoggiandosi al fondamentale fattore abilitante costituito dalla manutenzione e dalla progressiva estensione della rete stradale, assicurate dallo Stato. A questa soluzione, profondamente selettiva in base al reddito e dunque foriera di generare notevoli disuguaglianze, quel medesimo socialismo municipale risponde attraverso lo sviluppo di servizi di trasporto pubblico, dapprima limitati ai contesti urbani, ma in breve tempo estesi anche alle località più remote.
Il grande sviluppo economico dell’ultimo dopoguerra rende praticabile, come soluzione ulteriore, la motorizzazione di massa, che si associa alle grandi promesse del welfare state, in Italia assurte al rango di diritti costituzionali: contrariamente a quanto verificatosi per l’intera precedente storia dell’umanità, la possibilità di accedere a basso costo ovunque deve essere concessa a tutti. Ne conseguono profondissime trasformazioni territoriali, con lo sviluppo di intere «regioni urbane», cui si associa, però, la marginalizzazione di ampie aree del paese, rapidamente divenute «deboli», quanto meno in termini di domanda di trasporto.
Con un grande paradosso, l’esplosione della domanda di mobilità, stimolata dalla disponibilità del mezzo individuale, si accompagna così a crescenti deficit del trasporto collettivo, sempre più in difficoltà a garantire, soprattutto nelle aree marginali, un servizio adeguato alle necessità e/o alle aspettative di abitanti residui, sempre meno numerosi. Quanto meno in Italia, il problema viene aggravato da rigidità burocratiche (che ad esempio impediscono tuttora di effettuare servizi scuolabus o postali aperti ad altri utenti) e da una limitata produttività dei fattori, a sua volta generata dalle politiche gestionali di aziende inefficienti, non di rado pubbliche. A parità di ogni altra condizione, l’eccessiva specializzazione dei servizi innalza i costi di produzione e riduce la platea degli utenti potenziali, deprimendo livelli di autofinanziamento già molto ridotti, ed accentuando la dipendenza dalla fiscalità generale. Certo, in questo processo la finanziarizzazione dell’economia ha il suo peso, ed è chiaro che, a fronte di un’equazione sempre più difficile da risolvere, le grandi aspettative possono trasformarsi in altrettanto grandi risentimenti. Ma nel nostro caso nessuna narrazione responsabile dovrebbe discostarsi troppo dalle questioni relative all’efficacia dei servizi, a loro volta connesse ai livelli di cura garantiti dai singoli soggetti che, nel loro insieme, li erogano.
E non è ancora tutto: a ben vedere, in un contesto sempre più dominato dalla logica edoni(sti)ca del consumo, possono forse tornare buone le riflessioni avanzate da John Michael Thomson (1974), quando, un attimo prima della grande crisi energetica, si interrogava sulle possibili conseguenze di una domanda di mobilità infinita. Non si tratta affatto di un ragionamento teorico: negli ultimi due decenni, l’enorme sviluppo dei voli low cost e di altri servizi analoghi ha finito per determinare una vera e propria esplosione dell’accessibilità a livello globale, trasformando gli spostamenti in «esperienze di viaggio», con tutto quel che ne consegue in termini di impatto sull’ambiente e sugli equilibri, spesso delicati, di molte aree marginali (→ Fragilità territoriali). Il fatto elementare è che, se le aspettative si fanno sufficientemente elevate, qualunque mezzo disponibile diventa per ciò stesso scarso. Ed è forse il caso di riconoscere chiaramente che garantire a tutti la parità d’accesso ai servizi necessari non può significare che tutti i luoghi debbano essere egualmente raggiungibili, ma che anzi esistano buone ragioni di salvaguarda idraulica, paesaggistica o naturale, per assicurare, ad alcuni di essi, una relativa inaccessibilità.
Giunti a questo punto, il tema diventa allora quello di cercare un nuovo equilibrio, che sappia regolare i rapporti di sussistenza tra l’uomo e la natura senza gravare sulle generazioni future, e le relazioni sociali garantendo ad ognuno condizioni di vita adeguate, senza prescindere da misura e responsabilità, anche individuale. È un punto di vista prima di tutto etico, dal quale non potremo continuare indefinitamente a scappare.
Acqua
di Gianfranco Becciu
L’acqua, fondamentale per la vita, è stato l’elemento cardine della costruzione delle prime comunità umane stanziali e il suo ruolo nello sviluppo territoriale, economico e sociale è di primaria importanza. Nel tempo il rapporto tra l’uomo e l’acqua è cambiato, principalmente a causa della sempre maggiore pressione degli interventi antropici nei processi di trasformazione del territorio. Oggi questo rapporto è caratterizzato da conflitti e criticità che necessitano di una riflessione e di un percorso di revisione. A tale scopo è utile partire da tre parole chiave: equilibrio, cambiamento, fragilità.
Equilibrio. La natura tende all’equilibrio dinamico: gli elementi naturali modificano nel tempo e nello spazio sia le loro manifestazioni che le loro interrelazioni, con processi che possono anche avere fluttuazioni marcate, ma che tendono sempre a equilibrarsi tra loro. I processi di trasformazione e movimento dell’acqua non fanno eccezione. Le criticità possono nascere quando questo equilibrio viene a mancare, per esempio a causa di fattori esterni come l’intervento umano. Il risultato di questa perdita è l’accentuazione delle fluttuazioni nella dinamica dei processi naturali, che noi percepiamo come cambiamento.
Cambiamento. L’acqua è per sua stessa natura un elemento variabile nel tempo e nello spazio, in ragione delle leggi fisiche che ne regolano i cicli di trasformazione e movimento. Non solo questi cicli si esprimono in stagioni con caratteristiche climatiche diverse, ma anche nell’alternarsi di periodi di lunghezza variabile di abbondanza e di scarsità. Nel cambiamento sono incluse anche le fluttuazioni marcate rispetto alla media, che generano eventi estremi come le piene fluviali e le siccità. In questo quadro di processi regolati dalla natura, l’uomo si è inserito con la sua capacità di trasformare il territorio e quindi di modificare i suoi elementi. Per quasi tutta la storia dell’umanità questo è avvenuto con effetti quasi impercettibili rispetto alla grande capacità della natura di trovare nuovi equilibri. Nell’ultimo secolo, però, l’impatto delle attività umane è cresciuto, fino a interferire significativamente anche nei delicati processi globali che governano il clima sul nostro pianeta, con effetti anche sul ciclo dell’acqua. Gli effetti di queste interferenze non si limitano a un’accentuazione delle sopra citate fluttuazioni nelle dinamiche naturali, cioè a piene e siccità più frequenti e severe, ma si esplicitano anche con cambiamenti radicali di ecosistemi quali ghiacciai, laghi, fiumi, coste (→ Cambiamento climatico). A questi effetti globali indiretti, tuttavia, si affiancano anche effetti diretti delle attività umane di trasformazione del territorio a scala locale. In particolare, la trasformazione dei suoli ha un impatto che può essere quantitativamente anche molto più significativo di quello del cambiamento climatico. Si parla di processi antropici ormai noti, quali, per fare alcuni esempi, l’impermeabilizzazione di porzioni sempre più vaste delle aree urbane, la costruzione di edifici e infrastrutture in aree necessarie alla funzionalità fluviale, la copertura o l’alterazione di corsi d’acqua, le variazioni della copertura vegetale derivanti dall’abbandono delle aree montane e rurali, oltre che dall’evoluzione dei processi agricoli. L’impatto è particolarmente evidente non solo nelle aree urbane, ma anche nelle aree interne e più marginali, dove i...