Il giocatore
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Il giocatore

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Giacinta de Dominicis Jorio

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Il giocatore

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Giacinta de Dominicis Jorio

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Informazioni sul libro

Ambientato in Germania, nella fittizia cittadina di Roulettenburg, Il giocatore racconta la storia di Aleksej Ivànovic, precettore col vizio del gioco, che lavora presso una stravagante famiglia composta da un vecchio generale perdutamente innamorato di una giovane francese dal passato turbolento, mademoiselle Blanche, da due bambini dei quali Aleksej è il maestro e dalla figliastra del generale, Polina Aleksàndrovna.
Tutti riuniti intorno al tavolo da gioco, si dipana una vicenda che pone sempre al centro di tutto il demone dell'azzardo e quello della vita.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788897543558
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

1

Finalmente ritornavo dopo un'assenza di due settimane. Già da tre giorni i nostri si trovavano a Roulettenburg. Pensavo di essere atteso con chi sa quale ansia, e invece mi sbagliavo. Il generale mi accolse con una disinvoltura eccessiva, mi parlò squadrandomi dall'alto in basso e mi mandò da sua sorella. Era evidente che da qualche parte erano riusciti a procurarsi del denaro. Ebbi addirittura l'impressione che il generale mi guardasse con un certo imbarazzo. Màrja Filìppovna, indaffaratissima, mi liquidò con poche parole; prese, però, il denaro, lo contò e ascoltò il mio rapporto. A pranzo erano attesi Mezentzòv, il francesino e un inglese; come sempre, quando c'era denaro, subito inviti a pranzo: secondo l'uso moscovita. Polina Aleksàndrovna, vedendomi, mi chiese come mai fossi rimasto assente tanto a lungo. Ma non aspettò nemmeno la risposta e se ne andò. Si capisce, l'aveva fatto apposta. Però dovevo parlarle a ogni costo. Molte cose si erano accumulate.
Mi era stata assegnata una piccola stanza, al quarto piano dell'albergo: si sa qui che io appartengo al «seguito del generale». Da ogni cosa si capisce che essi sono riusciti a dare nell'occhio. Qui il generale è creduto un ricchissimo magnate russo. Ancora prima di pranzo, ha fatto in tempo, tra gli altri incarichi, a darmi due biglietti da mille franchi da cambiare, la qual cosa feci alla segreteria dell'albergo. Ora ci riterranno dei milionari, almeno per una settimana. Volevo prendere Misha e Nàdja e portarli a fare una passeggiata, ma sulla scala mi chiamarono per conto del generale: si degnava di informarsi su dove avrei portato i bambini. Quest'uomo non può assolutamente guardarmi negli occhi: vorrebbe farlo, ma io, ogni volta, gli rispondo con uno sguardo così fisso, vorrei dire irriverente, che egli sembra confondersi. Con un discorso tronfio, legando alla meglio una frase dopo l'altra e, alla fine, impappinandosi completamente, mi fece capire che dovevo passeggiare con i bambini lontano dal Casinò, nel parco. E, irritandosi, concluse bruscamente:
«Se no, a voi salta magari in mente di portarli al Casinò, alla roulette. Mi dovete scusare,» aggiunse, «ma so che siete ancora un po' sventato e capace, Dio sa, di mettervi a giocare. In ogni caso, anche se io non sono il vostro mentore e non ho alcuna intenzione di assumere una simile parte, ho tuttavia il diritto di pretendere che voi, per così dire, non mi compromettiate...» «Ma sapete che non ho denaro,» risposi in tutta calma, «e, per perderlo, bisogna averlo.» «Lo avrete immediatamente» rispose il generale, arrossendo leggermente; poi, rovistato nel suo scrittoio, consultò un libriccino e risultò che mi doveva circa centoventi rubli.
«Per poter fare questi conti» riprese, «serve cambiare i denari in talleri. Prendete per ora cento talleri, cifra tonda; il resto, naturalmente, non andrà perduto.» Presi il denaro in silenzio.
«Per favore, non offendetevi per quanto vi ho detto, siete così permaloso... Se vi ho fatto un'osservazione, l'ho fatto, per così dire, allo scopo di mettervi in guardia e, certamente, con un certo diritto...» Ritornando a casa con i bambini per il pranzo, incontrai un'intera cavalcata: erano i nostri che andavano a visitare non so quali rovine... Due splendide carrozze e dei cavalli superbi!
Mademoiselle Blanche era in carrozza con Màrja Filìppovna e Polina; il francesino, l'inglese e il nostro generale andavano a cavallo. I passanti si fermavano a guardarli: l'effetto era raggiunto... ma il generale finirà male! Ho fatto il conto che, aggiungendo ai quattromila franchi che ho portato io quelli che evidentemente sono riusciti a procurarsi, avranno in tutto sette o ottomila franchi; troppo pochi per mademoiselle Blanche.
Mademoiselle Blanche sta anche lei nel nostro albergo, insieme con la madre; e ci sta anche, non so bene dove, il nostro francesino.
I camerieri lo chiamano «monsieur le comte», la madre di Blanche viene chiamata «madame la comtesse», e magari lo sono veramente «comte» e «comtesse».
Sapevo già che «monsieur le comte» non mi avrebbe riconosciuto quando ci saremmo trovati a tavola per il pranzo. Il generale, naturalmente, non pensò a presentarci o, almeno, a presentare me a lui; ma «monsieur le comte» è stato in Russia e sa benissimo che persona poco importante sia quello che essi chiamano «outchitel»[1]. Egli, d'altra parte, mi conosce molto bene. Ma, se devo essere sincero, anche a pranzo sono capitato senza essere invitato: sembra che il generale si fosse dimenticato di dare disposizioni al riguardo, se no senza dubbio mi avrebbero mandato a pranzare alla «table d'hôte». Mi presentai così, di mia iniziativa, tanto che il generale mi gettò un'occhiata poco soddisfatta. La buona Màrja Filìppovna mi indicò subito un posto, ma l'incontro con mister Astley mi tolse d'impiccio e, senza volerlo, feci la figura di appartenere alla loro società.
Avevo incontrato questo strano inglese per la prima volta in Prussia, in treno, dove sedevamo l'uno di fronte all'altro, quando ero in viaggio per raggiungere i nostri; poi mi ero imbattuto in lui entrando in Francia e, infine, in Svizzera; poi un paio di volte nel corso di quelle due settimane, ed ecco che ora lo avevo incontrato inaspettatamente a Roulettenburg. Non mi è mai capitato in tutta la vita di conoscere un uomo più timido, timido fino alla stupidità e lui, naturalmente, se ne rende conto perché stupido non lo è affatto. Del resto, è molto simpatico e tranquillo. Ero riuscito a farlo parlare durante il nostro primo incontro in Prussia. Mi disse che nell'estate era andato al Capo Nord e che aveva una gran voglia di visitare la fiera di Niginij-Nòvgorod.
Non so come abbia conosciuto il generale: mi sembra che sia innamoratissimo di Polina. Quando lei è entrata, il viso di lui si è fatto di bracie. Era molto contento che a tavola gli sedessi vicino, e mi sembra che mi consideri già come suo intimo amico.
A tavola il francesino si dava molte arie: è superbo e sprezzante con tutti. E a Mosca, mi ricordo, non faceva che bolle di sapone.
Parlò senza posa di finanze e di politica russa. Il generale, ogni tanto, osava contraddirlo ma con molta discrezione, unicamente quel tanto che bastava per non mettere a repentaglio la propria importanza.
Io ero in uno strano stato d'animo; si capisce, prima ancora di essere a metà del pranzo mi ero già posto la solita domanda di tutti i giorni: «Perché continuo a frequentare questo generale e non l'ho piantato da un pezzo?» Di tanto in tanto guardavo Polina Aleksàndrovna, ma lei non badava assolutamente a me. Finii con l'irritarmi e decisi di diventare insolente.
E cominciai così che a un tratto, senza nessun motivo e senza essere interpellato, mi intromisi nella conversazione altrui.
Avevo voglia, soprattutto, di attaccarmi con il francesino. Mi rivolsi al generale e di colpo, a voce alta e mi sembra anche interrompendolo, osservai che quell'estate era diventato quasi impossibile per i russi mangiare alle «tables d'hôte». Il generale mi gettò uno sguardo stupito.
«Se siete uno che appena si rispetti» continuai, «immancabilmente vi sentirete insultare e dovrete sopportare le più umilianti mortificazioni. A Parigi, sul Reno, e persino in Svizzera, ci sono alle «tables d'hôte» tanti di quei polaccuzzi e francesini che simpatizzano tra loro che non è possibile dire una parola, se siete russo.» Dissi questo in francese. Il generale mi guardò, incerto se andare in collera o solo meravigliarsi che io mi fossi lasciato andare fino a quel punto.
«Vuol dire allora che da qualche parte qualcuno vi ha dato una lezione» disse il francesino, con incurante disprezzo.
«Io, a Parigi, prima ho attaccato lite con un polacco,» gli risposi, «poi con un ufficiale francese che aveva preso le parti del polacco. Ma poi una parte dei francesi cominciò a spalleggiare me quando raccontai loro che volevo sputare nel caffè di un monsignore.» «Sputare?» chiese il generale con espressione incredula e guardandosi in giro. Il francesino, mi fissava con diffidenza.
«Proprio così» risposi. «Poiché per due giorni fui convinto che avrei dovuto fare un salto a Roma per le nostre faccende, mi recai negli uffici dell'ambasciata del Santo Padre a Parigi per far vistare il mio passaporto. Là mi ricevette un abatino sui cinquant'anni, secco e dalla fisionomia gelida che, dopo avermi ascoltato con cortesia ma con straordinaria freddezza, mi pregò di aspettare. Nonostante avessi fretta, naturalmente mi sedetti ad aspettare, tirai fuori l'«Opinion Nationale» e cominciai a leggere alcune tremende invettive contro la Russia. Intanto avevo udito che qualcuno, dalla stanza vicina, era entrato dal monsignore e vidi il mio abate inchinarsi. Mi rivolsi a lui con la preghiera di prima: in tono ancora più asciutto, mi pregò nuovamente di attendere. Dopo un po' entrò un altro sconosciuto ma per affari, un austriaco; gli diedero subito ascolto e lo accompagnarono di sopra. Allora cominciai a irritarmi, mi alzai mi avvicinai all'abate e gli dissi in tono deciso che, visto che il monsignore riceveva, poteva sbrigare anche me. D'improvviso l'abate si spostò in preda a un insolito stupore. Non poteva assolutamente capire come mai un russo qualunque avesse l'ardire di paragonarsi ai visitatori di monsignore. Con tono insolente, come se provasse un vero piacere nel potermi offendere, mi squadrò dalla testa ai piedi, esclamando: «Possibile che voi pensiate che monsignore lasci il suo caffè per voi?» Allora presi a gridare, ma ancora più forte di lui: «Sappiate che nel caffè del vostro monsignore io ci sputo! Se non la fate immediatamente finita con il mio passaporto, andrò io stesso da lui...» «Come! proprio mentre c'è da lui un cardinale!» urlò l'abatino, allontandosi da me con orrore: poi si precipitò alla porta e incrociò le braccia facendo vedere che sarebbe morto piuttosto di lasciarmi passare. Allora gli risposi che io ero un eretico e un barbaro, «que je suis herétique et barbare», e che di tutti quei vescovi, arcivescovi, cardinali, monsignori eccetera eccetera, me ne infischiavo altamente. In una parola, gli feci capire che non avrei ceduto. L'abate mi lanciò un'occhiata piena di odio sconfinato, mi strappò di mano il passaporto e lo portò di sopra.
Dopo un minuto era già vistato. Eccolo, signori, volete vederlo?» Tirai fuori di tasca il passaporto e mostrai il visto di Roma.
«Voi però...» cominciò il generale...
«Vi ha salvato il fatto che vi siete dichiarato eretico e barbaro» osservò ridendo il francesino. «Cela n'était pas si bête!»[2] «Così dunque si devono trattare i nostri russi? Loro se ne stanno qui tranquilli, non osano nemmeno fiatare e sono magari anche pronti a negare di essere russi. Per lo meno, a Parigi, nel mio albergo, avevano cominciato a trattarmi con molto più riguardo da quando avevo raccontato a tutti la mia lite con l'abate. Un grosso «pan»[3] polacco, il più ostile verso di me alla «table d'hôte», era passato in seconda linea. I francesi sopportarono addirittura che io raccontassi di aver visto due anni prima un uomo contro il quale un cacciatore francese aveva sparato nel '12, soltanto per scaricare il fucile. Quell'uomo era allora un ragazzino di soli dieci anni e la sua famiglia non aveva fatto in tempo a fuggire da Mosca.» «Questo non è possibile!» esclamò infuriato il francesino. «Un soldato francese non spara contro un ragazzo!» «Però la cosa è successa» ribattei io. «Me l'ha raccontata un rispettabile capitano a riposo, e io stesso ho visto sulla sua guancia la cicatrice lasciata dal proiettile.» Il francesino si mise a parlare in fretta e senza più smetterla.
Il generale stava già per spalleggiarlo, ma io gli raccomandai di leggere, per esempio, qualche brano dalle «Memorie» del generale Perovskij, che nel '12 era stato prigioniero dei francesi. Infine, Màrja Filìppovna si mise a parlare di non so più che cosa per cambiare discorso. Il generale era molto scontento di me, perché io e il francese avevamo già iniziato ad alzare la voce. Ma a mister Astley mi sembrò che fosse molto piaciuta la mia discussione con il francese; alzandosi da tavola mi invitò a bere un bicchiere di vino. La sera mi riuscì, com'era da aspettarsi, di poter parlare per un quarto d'ora con Polina Aleksàndrovna. La nostra conversazione avvenne durante la passeggiata. Tutti erano andati nel parco, verso il Casinò. Polina si era seduta su una panchina, di fronte alla fontana, e aveva lasciato che Nàdenka andasse a giocare non lontano con altri bambini. Anch'io avevo lasciato andare Misha alla fontana e cosi rimanemmo finalmente soli.
Si capisce che iniziammo a parlare di affari. Polina andò addirittura in collera quando le consegnai in tutto settecento «gulden». Era sicura che gliene avrei portati da Parigi, in pegno dei suoi brillanti, almeno duemila e anche di più.
«Ho bisogno di denaro, a ogni costo» mi disse, «e occorre trovarlo. Se no, sono perduta.» Cominciai a interrogarla su quello che era successo durante la mia assenza.
«Nient'altro che questo: abbiamo ricevuto da Pietroburgo due notizie, la prima che la nonna stava molto male e, dopo due giorni, che sembrava fosse già morta. Queste notizie ci sono arrivate da Timoféj Petrovitch» aggiunse Polina, «e lui è un uomo molto preciso. Aspettiamo ora la notizia definitiva.» «Così, qui, sono tutti in attesa?» chiesi.
«Naturalmente, tutto e tutti; da sei mesi sperano soltanto in questo.» «Anche voi ci sperate?» domandai.
«Ma il fatto è che io non le sono affatto parente, poiché sono solo la figliastra del generale. Ma so con certezza che si ricorderà di me nel testamento.» «Credo che anche a voi toccherà moltissimo» risposi confermando.
«Si, mi voleva bene; ma perché voi lo credete?» «Ditemi,» le risposi con un'altra domanda, «il nostro marchese è anche lui dentro a tutti i segreti di famiglia?» «Ma voi perché ve ne interessate?» chiese Polina, lanciandomi uno sguardo duro e severo.
«Sfido io! Se non mi sbaglio, il generale è già riuscito a farsi prestar denaro da lui.» «L'avete indovinata!» «Credete che gli avrebbe dato del denaro, se non avesse saputo della nonna? Avete notato che lui, a tavola, per ben tre volte, parlando della nonna l'ha chiamata 'babùlenka,' la 'baboulinka'[4]? Che razza di rapporti confidenziali e amichevoli!» «Sì, avete ragione. Non appena saprà che mi toccherà qualcosa per testamento, subito chiederà la mia mano. Era questo che volevate sapere?» «Solo adesso chiederà la vostra mano? Credevo che l'avesse fatto da un pezzo...» «Sapete benissimo che non è così!» esclamò con rabbia Polina.
«Dove avete incontrato questo inglese?» aggiunse, dopo un minuto di silenzio.
«Ero certo che ora avreste chiesto di lui.» E le raccontai dei miei precedenti incontri con mister Astley.
«E' timido e si accende facilmente: naturalmente, sarà già innamorato di voi!» «Sì, è innamorato di me» rispose Polina.
«Ed è, senza dubbio, dieci volte più ricco del francese. Ma il francese possiede poi veramente qual...

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