IOWA 2016
LE ELIMINATORIE
1. «Non ha detto chiacchiere»
Hillary se la sta facendo sotto? Inevitabile, con tutti quei flashback del 2008 che le friggono il cervello, quella prima incoronazione mancata, mandata a monte da un novellino ampolloso venuto dal nulla su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo, e che invece l’ha stesa e arrotolata in un vecchio tappeto come un sicario della mafia. Stavolta invece c’è un vecchiastro scorbutico con i capelli bianchi sempre arruffati e i denti misteriosamente perfetti, di quelli che ti metti ogni mattina e poi mordi l’aria allo specchio, clack clack. Mettigli un grembiule arancione e una targhetta sul petto con scritto «Bernie» e potrebbe essere uno di quei vecchi commessi di Home Depot: tu gli fai una domanda del tutto ragionevole, diciamo sulla saldatura o sul galleggiante del water, e lui ti guarda storto e se ne va. E con una carriera da socialista alle spalle, poi. E Hillary in lacrime volse gli occhi al Signore: Perché proprio a me? Sotto di cinquanta punti nei sondaggi un anno fa, quando il gioco ha iniziato a farsi serio Sanders si è quasi rimesso in pari.
Serio come l’Iowa, la neve e il gelo della serata di apertura, la prima scrematura dei contendenti nelle brutali eliminatorie. Percorrendo verso est l’interstatale da Des Moines, con il sole alle nostre spalle, non si parla d’altro che di lui, non di Bernie, di quell’altro: la sua bocca, i suoi capelli, il re di Twitter, la barzelletta che più o meno intorno al Ringraziamento ha smesso di far ridere. All’incirca nello stesso periodo si è iniziato a notare nella stampa una specie di morboso conto alla rovescia. A soli due mesi dai caucus dell’Iowa... sei settimane... un mese... giorni... La possibilità che Trump sconfiggesse le leggi fisiche della politica era accolta da una sorta di tacito scetticismo razionalista, e dalla convinzione, anche quella tacita e via via sempre più sfilacciata, che sarebbe crollato ben prima che si arrivasse al voto. La sua candidatura assomigliava in tutto e per tutto ai suoi capelli: era come un’esplosione di gas o un soufflé al mango, o come un qualsiasi fenomeno altamente transitorio che coinvolge un sacco di aria calda e di volume artificiale. A questo punto i professionisti non dovrebbero ormai aver ripreso il controllo della faccenda? La macchina repubblicana sfornava regolarmente sfilze di affidabili candidati graditi all’establishment: i due Bush, Dole, McCain, Romney, e adesso c’era anche un altro Bush pronto al lancio, «quello intelligente», quello con il super PAC da cento milioni di dollari. Ma è successo – sta succedendo – qualcosa di anomalo. Nelle ultime apparizioni televisive Reince Priebus, presidente dell’RNC (il Comitato nazionale repubblicano) aveva lo sguardo traumatizzato di un vigilante in un centro commerciale che ha lasciato il Segway dal meccanico.
Ma questa sera è tutta di Hillary, che ha in programma un comizio a Davenport. La strada si allunga davanti a noi per miglia e miglia, dritta come un righello. Un’aquila calva taglia la volta di un cielo rigido e limpido, fiocchi di cirri screziano la cupola di un blu cristallino. Piccole cittadine e snodi commerciali si stagliano di tanto in tanto con i loro variegati assortimenti di Subway, Exxon, Starbucks, Denny’s. A quanto pare il porno è rimasto uno dei pochi settori in America a non avere un proprio franchise; fuori Altoona incontriamo il Lion’s Den, un gigantesco sexy shop, uno dei numerosi esercizi sui generis a luci rosse che vedremo oggi. I granai sono immensi – pieni fino a scoppiare, immaginiamo, guardando tutta questa terra color cioccolato – le case grandi, solide, protette dal vento da barriere di alberi, tutto immacolato e tinteggiato di fresco e, cosa rara per un territorio rurale, totale assenza di attrezzi agricoli arrugginiti nei cortili. Mantenere una fattoria così immacolata richiede uno sforzo fisico eroico. È già di per sé abbastanza faticoso coltivare la terra e allevare gli animali, un lavoro che deve essere svolto necessariamente questa settimana, oggi, in questo momento; finezze come le pulizie e la manutenzione strutturale sono di norma tralasciate se non da una esigua minoranza di coltivatori extradisciplinati, ma qui chiunque sembra sentirsi tenuto ai più alti standard di ordine e pulizia. C’è qualcosa dell’etica puritana, un sentore di rigore morale, come se la rigida autodisciplina del primo New England fosse stata trasferita a duemila chilometri e ingigantita per adattarsi alle proporzioni del Midwest. Dà la sensazione di una grazia ricevuta, una grazia duramente meritata. Persone consapevoli di essere approdate in paradiso e determinate a non rovinarlo.
Questo è innegabilmente uno dei suoli più fertili del pianeta. Circa un milione di anni fa i ghiacciai hanno raso al suolo l’intera regione, decapitando le colline e scaricando nelle valli terreno ricco di nutrimento. Eoni di intemperie hanno spazzato e modellato la terra in dolci colline, che oggi sono una tavolozza di caldi colori invernali, marrone e sabbia screziato da residui di neve, e azzurro artico nei punti in cui i ruscelli e i laghetti si sono ghiacciati. Il velluto a coste dei campi arati disegna linee curve così dolci che sembrano essere state concepite in un giardino zen. È una terra bellissima, quasi struggente nella luce dorata del pomeriggio; e, come racconta Richard Manning su Harper’s, altamente tossica. Massicce concentrazioni di nitrati – provenienti dai fertilizzanti chimici e dalla merda dei ventuno milioni di maiali e dei cinquantadue milioni di polli dell’Iowa, la maggior parte dei quali chiusi in allevamenti intensivi – hanno reso buona parte dell’acqua dello stato non potabile per gli esseri umani. Si tratta dello stesso inquinamento da nitrati che nel 2014 ha avvelenato l’acqua di Toledo, nell’Ohio, costringendo il governatore Kasich a chiedere l’aiuto della Guardia Nazionale, e degli stessi nitrati responsabili della vastissima (delle dimensioni del Connecticut) «zona morta» nel Golfo del Messico. I grandi fenomeni si insinuano nella vita quotidiana in modi strani. Un cacciatore dell’Iowa ha raccontato a Manning che adesso i cacciatori devono portarsi dietro l’acqua da bere per i cani durante le uscite, per impedire che si avvelenino con le alghe dei ruscelli inquinati.
Manning sottolinea che gli abitanti dell’Iowa hanno coltivato la terra e allevato maiali «fin dalla Guerra di secessione», ma solo negli ultimi vent’anni le pratiche dell’agricoltura industriale hanno reso velenosa l’acqua dello stato. Quest’arco di tempo coincide in America con un aumento senza precedenti dell’obesità e delle malattie a essa associate, aumento che Manning imputa alle coltivazioni – principalmente mais e soia – incoraggiate dalle multinazionali dell’agricoltura industriale. In altre parole, si tratta di un modello di produzione che ti mette con le spalle al muro, e se si pensa al reportage di Manning il piacere ricavato dalla bellezza del paesaggio dell’Iowa diventa molto conflittuale. E a questo si aggiunge il dato olfattivo... il fatto è che l’Iowa puzza. Una puzza onnipresente, in lungo e largo dall’inizio alla fine dello stato. Io sono cresciuto in campagna e conosco il puzzo di fattoria, ma l’Iowa è un caso a parte. La puzza va ben oltre l’odore localizzato del fienile, il tanfo di ammoniaca della merda in estate nella stalla e nel pollaio. L’Iowa ha lo stesso fetore di una fabbrica di cellulosa, o delle vasche di sedimentazione in un impianto di trattamento delle acque reflue di una metropoli. Ci vogliono sforzi su scala industriale per creare una puzza cosmica di questo tipo.
Cittadini dell’Iowa, vi porgo le mie scuse. Non è mia intenzione offendervi. Il sole si sposta più a ovest e la luce si affievolisce, vira al color lavanda mentre le ombre si allungano dalle colline e dai crinali. Vicino a Iowa City c’è un fienile dipinto interamente a stelle e strisce. Le oche tagliano basse il cielo in asimmetriche formazioni a V, e presto il suolo si appiattisce e la neve sparisce. Superiamo l’Iowa 80, «la più grande stazione di servizio al mondo», e al crepuscolo entriamo a Davenport, con il suo centro cittadino non particolarmente vivace composto di edifici che negli anni Cinquanta erano banche e grandi magazzini. A Davenport si sente lo sferragliare dei treni. Dovremmo avere il Mississippi a due passi. Avvicinandoci alla nostra destinazione gli edifici si fanno più trasandati, una cupa sfilza di vetrine vuote e comunità di recupero che di colpo si animano di persone e macchine, un traffico pop-up. Hillary! Stasera c’è Hillary! Un incrocio vicino al Col ci regala una scena omiletica, potrebbe essere il set di un nuovo morality play americano.
La coda per il Col si allunga per l’intero isolato. Un gruppetto di contestatori imbacuccati è appostato sull’altro lato della strada, presumibilmente sono gli autori dello striscione scarabocchiato a mano che pende dall’edificio alle loro spalle. Hillary Lied Americans Died. All’interno del Col l’atmosfera è vivace, frizzante, un mucchio di ragazzetti raggianti corrono di qua e di là , giovani attivisti elettrizzati per la grande serata. Una band sul palco sta suonando pezzi country, I’m looking for a good time, il deeeeun deeeeun della pedal steel presto lascia il posto alla locomotiva di «Folsom Prison Blues». Il Col, altrimenti conosciuto come Col Ballroom, Coliseum e Saengerfest Halle, è un edificio datato circa 1914 con la sala principale coperta da una volta a botte e le facciate esterne in mattoni a vista dello stesso colore delle gomme da masticare Dentyne: il prodotto dell’orgoglio civico e delle grandi aspirazioni di un’epoca in cui quella locale era l’unica cultura esistente. A portare la musica a Davenport furono gli immigranti tedeschi, esiliati in fuga dalla rivoluzione fallita del 1848, lo stesso tentativo a vuoto di instaurare la democrazia che spinse Karl Marx a fare i bagagli e andarsene a Londra. C’è tutto il vecchio mondo nei dettagli classicheggianti del Col, il proscenio ad arco e i bassorilievi di gesso, le lire di vetro colorato sormontate da vegetali stilizzati. I dettagli moderni comprendono una palla da discoteca sulla pista da ballo e lucine di Natale che decorano la ringhiera in ferro battuto del mezzanino. Locandine incorniciate testimoniano il glorioso passato della sala: qui hanno suonato tutti, da Sinatra a Chuck Berry, Duke Ellington, Glenn Miller, i Beach Boys, Buddy Holly. Jimi Hendrix si è esibito al Col un mese prima di Woodstock. Il festival annuale Bix Lives! celebra Bix Beiderbecke, il ragazzo di Davenport che ce l’ha fatta. È un piacere vedere intrecciarsi tutti questi filoni della tradizione musicale; fanno ciò che fanno tutte le forme di cultura: ci spingono a restare umani.
Il gruppo che suona stasera continua a proporre vecchi classici mentre la sala si riempie, i più anziani in jeans, scarpe da ginnastica e piumini voluminosi, i ragazzini con tatuaggi e piercing, ammantati di una leggera androginia. Due volontarie di mezza età venute qui dal Texas per sostenere Hillary perorano la propria causa davanti a un uomo con un taccuino che sostiene di essere un giornalista. È ora che vinca una donna, dicono. Hillary se l’è guadagnato, noi tutte ce lo siamo guadagnato. Ha girato 18 milioni di dollari della sua campagna ai candidati statali, Bernie nada. La musica si arresta e la folla inizia a scandire Sto con lei! Sto con lei!, tutti sorridenti, le voci rese roche dalla gioia, un disinvolto miscuglio di età , colori e generi, sebbene spicchi la carenza di giovani maschi bianchi. Quando Bill Clinton sale sul palco il pubblico è ormai carico, ci saranno milleduecento anime pigiate sotto la palla da discoteca e altre cinquanta o sessanta su delle alzate montate in fondo al palco, mangime visivo per gli obiettivi dei giornalisti.
Questa sera l’ex presidente entra in scena portandosi dietro una sottotrama tutta sua. Negli ultimi giorni i giornali hanno sostenuto che Bill ha perso lo smalto. È apparso distratto, stanco... vecchio, per farla breve, e, forse, non del tutto lucido? Questa sera si è messo in ghingheri, camicia di flanella verde scuro abbottonata fino al collo, giacca marrone a spina di pesce e pantaloni dello stesso colore: un impeccabile look da gentiluomo di campagna in onore della brava gente di Davenport. I capelli scolpiti – ormai puro argento, più corti e disciplinati rispetto ai vecchi tempi – hanno ancora quella netta riga a destra, il ciuffo scintilla a ogni movimento. Il nuovo Bill in versione magra che abbiamo conosciuto negli ultimi anni ha infine rivelato l’uomo nascosto sotto la paffutezza infantile. Il volto è più affilato, più lungo, la struttura ossea ben definita, la mascella scende ferma e netta fino al mento dalla leggera fossetta, ma ora la sua faccia tradisce un accenno di fragilità , la delicatezza del vetro soffiato propria delle signore anziane e della porcellana. Bill è stato costretto a dimagrire per non affaticare un cuore problematico... possiamo leggerci una metafora, che può essere interpretata in due modi opposti. Il suo cuore amava troppo? Troppo poco? O magari entrambe le cose, un cuore abitato da un mostro bipolare.
Ultimamente risultava difficile guardare Bill senza che si aprisse uno scorcio sulla nostra mortalità , ma stasera è un fuoco di artificio. «Hillary mi ha lasciato a bocca aperta la prima volta che l’ho incontrata, quarantacinque anni fa tra qualche giorno, e mi lascia a bocca aperta ancora adesso», prorompe, fendendo l’aria con il taglio della mano. Cita John Wesley e la dottrina della chiesa metodista in cui Hillary è cresciuta – «Fai tutto il bene che puoi, per tutte le persone che puoi, in tutti i modi che puoi, più a lungo che puoi» – e l’ultimo verso dell’inno preferito di Martin Luther King Jr.: «Se riesco a fare del bene per qualcuno allora non avrò percorso la mia strada invano». Il che ci porta al percorso di Hillary, iniziato quando da studentessa si impegnava nel Texas del Sud per far registrare gli ispanici al voto, poi «l’assistenza legale per i poveri», e così via fino alla politica a livello statale e nazionale e poi nella stratosfera degli affari globali. «LA - PERSONA - PIÙ - CAPACE - DI - CAMBIARE - LE - COSE - CHE - ABBIA - MAI - CONOSCIUTO», incita Bill, scanendo le parole col movimento del braccio e della mano, gli occhi penetranti puntati sul pubblico. Poi un aneddoto: ha salvato la pace nell’Irlanda del Nord («Laggiù vi vogliono bene, ragazzi!»), ed era l’unica - persona - al - MONDO che avrebbe potuto farlo. «Non sempre è d’accordo con noi, ma è sempre diretta». Bill chiude ogni frase alla perfezione, porta a segno ogni colpo grazie a una potente combinazione di gravitas da vecchio statista e sano e gioioso divertimento, è un nonno leone che si rotola con i cuccioli. Stasera ci riserva il trattamento completo, gli occhioni luccicanti, il timido morso alle labbra, la piega diabolica nel sorriso, così da ricordarci che la seduzione è nella sua natura più profonda, ogni interazione nient’altro che una variazione sul tema: una mossa per convincere qualcuno ad abbassarsi i pantaloni. Bisogna ammettere che per lui ha funzionato alla grande, una vita eccezionale secondo ogni metro di giudizio sebbene non priva di qualche incidente di percorso, un impeachment qui, una moglie umiliata lì, per non parlare del violento rinculo dei «valori» che ci ha regalato Ge...