XII
SOTTO LO SPAVENTAPASSERI
Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, nel nome di Ciccia Jenny e del suo Sacro Bambino. Amen.
Thulin concluse così la sua preghiera in ginocchio davanti allo spaventapasseri e senza alzarsi osservò i campi che lo circondavano stendersi a perdita d’occhio fino alle montagne. Le zolle rugose gli segnavano le ginocchia come ceci. Lo spaventapasseri fissava Thulin con inusuale intensità, ma il Pastore fingeva di non accorgersene e teneva la testa inclinata in basso per paura di non riuscire a sostenerne lo sguardo. Era uno dei pochi spaventapasseri sopravvissuti al diluvio, forse l’unico ancora in piedi, oscillava al vento nel campo di rape abbandonato che una volta era appartenuto a Marz. Era composto da due pezzi di legno montati a croce, stracci di una divisa da postino dei tempi dell’Impero tenuti insieme da stringhe di corda, e la paglia che non era volata via gli era marcita dentro, lasciando un corpo di stecchi e stoffa svolazzante; piantata sull’estremità verticale stava a fargli da capo – insolitamente solido per un torso così cascante – una testa di manichino con la faccia ancora in buona parte verniciata sopra. Quel volto immobile fissava le cose senza batter ciglio, incombeva sui dintorni con misericordiosa noncuranza, ed equo nella sua empatia di plastica riservava quella compassione tanto alle rape dissotterrate quanto al disperato Thulin che stava inginocchiato ai piedi della sua croce.
Come fosse giunto in quel luogo, il Pastore non lo sapeva con precisione. Aveva vagato. Si era alzato per tre notti di seguito in preda a sudori freddi – ciò che era accaduto al bordello non lo lasciava dormire –, così aveva provato a trovare conforto in chiesa ma le pareti di pietra grigia erano gelide, sorde alla sua angoscia. Non era più luogo per lui, lo sentiva, il Cristo Redentore non aveva pietà di fronte ai suoi peccati. Jenny, cosa ti è successo? Come sta la tua povera testa ferita, sanguina ancora? Sei viva Jenny o morta? Non avrei coraggio di farti visita, non voglio trovarti sotto terra. È colpa mia, vero? Ma io volevo… io non potevo, non sapevo, non desideravo che… è colpa mia, sì? Lasciò la sagrestia nel mezzo della notte, camminando alla cieca per le strade buie fino al confine del paese. Non lo fermò il bosco e nemmeno l’alba, camminò fino a che non gli crollarono le gambe e poté dormire.
Al suo risveglio lo spaventapasseri era lì accanto a lui.
Condivideva la sorte di crocifisso del Figlio, ma senza pretendere devozione – non prometteva alcuna salvezza, solo compagnia tra i campi.
Sotto lo spaventapasseri il Pastore si sentiva al sicuro e passava le ore a pregare masticando pezzi avariati di tubero.
Pregava alla maniera dei pazzi, impastando frasi d’ogni provenienza: vangeli, bibbie, romanzi d’avventura, cartoline ricevute quando era ancora bambino, ricordi sbiaditi della moglie morta e memorie vivide di Jenny, oh Jenny – la figura della dolce prostituta tornava insistente, burrosa idée fixe che spezzava i fili del discorso con il suo nome da cabaret.
Qual è il limite tra senso di colpa e amore? Se c’era, lui l’aveva superato da tempo, amando così tanto quella sua innocente vittima da sconfinare nella venerazione. La vedeva in ogni roccia, nuvola, fronda d’albero, nella solitudine di quel luogo l’universo si era fatto Jenny e risplendeva grazie a quell’anima buona e ingenua, profetessa – non poteva essere altrimenti – di un Dio sceso in terra sotto le spoglie di pupazzo per spaventare i corvi.
Non voleva più tornare, quella era la sua nuova casa.
*
In paese la scomparsa della guida spirituale creava trambusto e irrequietezza: per la lotta al nemico era necessario presentarsi benedetti e procedere nella luce del Signore, non era qualcosa che si potesse improvvisare. Si era provato e riprovato ad andare in chiesa ad aspettarlo, a lasciare messaggi inchiodati alla porta, a suonare le campane, ma era diventato presto evidente che non serviva a nulla se non a fomentare Bruck l’Organista che, lasciato solo e senza controllo, suonava ininterrottamente dalle prime ore del mattino a notte fonda.
Come può averci abbandonato? gridava in preda alla disperazione il devotissimo calzolaio Steddig, le mani strette a un martello per suolare e gli occhi umidi di lacrime, È questa l’ora del bisogno! Sono i giorni di Giovanni! Si rompono i sigilli e l’assedio ci strema, come possiamo sopportare tutto questo senza indicazioni? Sventolava l’arnese con veemenza, sperando in cuor suo di colpire qualcuno e rompere la noia.
Non successe. Non succedeva mai nulla e senza sermoni l’attesa sembrava infinita. Molti di loro nemmeno sapevano leggere e dunque i tomi sacri non erano di nessun aiuto, ma non erano stupidi e anche senza versetti numerati a portata di mano si accorgevano che qualcosa non funzionava: il caos che ormai regnava in ogni angolo non potevano accettarlo senza una dovuta spiegazione, erano necessarie motivazioni per poter dare di matto senza temere di essere nel torto. Non erano anarchici, per carità, l’anarchia li spaventava, roba contro natura, loro agivano nel giusto e i tafferugli di quei giorni erano stati perfettamente motivati perché fino a quel momento qualcuno si era preso la briga di provvedere alle didascalie. Senza Thulin chi spiegava la sommossa? I militari, quei pochi che c’erano, certamente no, non erano gente da dar spiegazioni: prima spari, poi chiedi chi va là.
Il famigerato telegramma che aveva aperto il vaso di Pandora veniva letto tutte le mattine da qualche volenteroso per tenere vivi gli animi, ma molti dei paesani che ogni giorno si alzavano pronti a lottare nascosti dietro le loro trincee casalinghe cominciavano a stancarsi della lentezza di quell’invasore che stava prendendo con troppa calma il suo compito di attacco. Loro si erano preparati per tempo, quella era mancanza di rispetto! Le ormai scarsissime provviste e il totale isolamento mettevano a prova sempre più dura i nervi di quella gente e nemmeno la guerra sembrava voler dare loro soddisfazione, rimanendosene nascosta nel suo cantuccio. Non era giusto. La tensione accumulata e mai espressa aveva bisogno di una valvola di sfogo, altrimenti, con molta probabilità, il risultato sarebbe stato un lento incedere verso il cannibalismo o peggio, verso la tanto deprecata anarchia, spettro che incombeva come una spada sulle loro teste, più angosciante di ogni tortura.
Gli anarchici vanno all’Inferno.
Poi la notizia era giunta: Thulin c’era, non li aveva abbandonati! Jon Fischer, a cui la sobrietà imposta sembrava aver giovato trasformandolo in cittadino modello, aiutante volontario della Brigata A, pronto a pattugliare senza sosta anche una notte intera, era arrivato correndo in piazza e aveva urlato a tutti la grande verità: il loro Pastore, alla stregua di un santo o di un profeta, stava ...