IL REGNO DELLE DONNE
La stradina si inerpicava intorno a una montagna nell’Himalaya tibetano, eppure il nostro autista guidava come su un’autostrada a sei corsie in pianura. Frenò sbandando, per evitare un carro da buoi che proveniva in senso inverso. Ora che gli alberi si facevano sempre più radi non potevamo nemmeno sperare di andare a sbattere contro un pino, unico ostacolo tra noi e il precipizio. Mi voltai verso il mio compagno di viaggio e gli espressi le mie perplessità sull’autista, che stava affrontando gli stretti tornanti di montagna con troppa leggerezza. Mi sporsi verso l’autista per fare altrettanto, ma commisi un grave errore, dato che lo interpretò come un incoraggiamento. Al tornante successivo l’auto scagliò del pietrisco oltre il ciglio del burrone e sia io che Matt afferrammo la maniglia della portiera, con l’illusione di poter schizzare fuori in tempo. Stavo viaggiando nell’estremo sudovest della Cina in compagnia di Matt Eaton, un produttore televisivo del National Geographic. Speravamo di arrivare al lago Lugu, dove viveva il popolo mosuo dello Yunnan.
Prima di metterci in viaggio non avevo mai sentito parlare né del lago Lugu né dei mosuo. Era il 2003 e non era stato pubblicato praticamente nulla che li riguardasse, solo qualche studio di antropologia e, per quanto ne sapessi, non era mai stato realizzato alcun documentario su di loro. Le voci su questo popolo e sulle singolari usanze matrimoniali che praticava stavano cominciando a diffondersi ed erano piene di invenzioni. Avevo incontrato Matt a Lijiang. Arrivavo dall’università di Pechino ed ero rimasto molto deluso dalla città grigia e polverosa in cui ero appena giunto in autobus. Lijiang era stata in passato una tappa obbligata sull’antica via del tè tra Cina e Tibet, sfruttata dagli abitanti dello Yunnan per barattare il tè con i cavalli tibetani. Quel pomeriggio mi sembrò come qualsiasi altra città cinese di provincia. Ecco che ho sprecato le vacanze, pensai. Pechino era in fermento e avrei potuto sfruttare i giorni di pausa dallo studio per lavorare agli sketch surreali che stavo scrivendo e che l’anno successivo sarebbero diventati il mio primo romanzo.
Presi quindi il taxi con un americano tarchiato del quale non conoscevo ancora il nome, ma che mi aveva proposto di condividere il viaggio fino alla città vecchia. Lì Matt conosceva un ottimo ristorantino in cui cenare: l’anno prima aveva trascorso due giorni a Lijiang senza mai cambiare locale.
La polvere del traffico delle sei oscurava il tramonto invernale di Lijiang. Osservai gli hotel cercando di decidere quale potesse essere il meno deprimente, nel caso in cui avessi dovuto ritornare nella parte nuova della città per dormire. Il taxi si fermò. Matt mi condusse fino a una scalinata in pietra insolitamente graziosa; il mio cuore sussultò quando alzai lo sguardo e mi accorsi di trovarmi in una città orientale uscita da una fiaba. Lanterne rosse e blu oscillavano nella brezza dalle grondaie alate delle locande in legno a due piani. Un canale scintillava tra gli edifici trasportando barchette grandi quanto il palmo di una mano, con sopra una candela. Ponti in legno e pietra abbracciavano il torrente. Un ponte a forma di falce di luna, illuminato d’oro, conduceva a un viale in cui andavano e venivano le donne naxi del luogo, ridendo e accalcandosi intorno a bancarelle di granturco essiccato, oggetti in rame e broccati tradizionali. Indossavano cuffie di filato blu, ampie vesti a manica larga, grembiuli a pieghe blu e scarpe ricamate a forma di barca. Sulle spalle portavano stole in pelle di pecora con dischi che rappresentavano la costellazione sacra dei naxi, le Sette sorelle della Cina che mi ero lasciato alle spalle.
Le acque dei canali di Lijiang scorrevano dallo Stagno del Drago Nero ai piedi del Monte dell’Elefante, per poi ramificarsi e sparpagliarsi attraverso la città vecchia. Stradine incantevoli si dipanavano costeggiando l’acqua, proprio come quella in cui ci trovavamo adesso. Una ragazza con le trecce raccolte sulla nuca si inginocchiò su un ponticello di legno per svuotare una bacinella d’acqua. Mi aspettavo che l’acqua fosse sporca come in qualsiasi altra parte della Cina, invece la trovai trasparente e brillante sotto la luce della lanterna, vi si potevano persino vedere le carpe. Le assi gettate a mo’ di ponte attraverso i rigagnoli conducevano alle case naxi, con porte decorate da ricchi bassorilievi, ornamenti in oro e bronzo e grondaie alate. Eravamo diretti al ristorante Sakura.
«Prima non sarebbe meglio trovare dove dormire?».
«È inverno», disse Matt. «Abbiamo l’imbarazzo della scelta».
Pensai che la decisione di Matt di mangiare sempre allo stesso ristorante per due giorni di fila fosse un esempio della tipica riluttanza americana ad abbracciare una cultura straniera. Ancora non sapevo che il mandarino di Matt era molto meglio del mio, che lo aveva imparato da autodidatta viaggiando e che viveva con la moglie giapponese a Hong Kong, dove parlava tranquillamente quattro lingue diverse ogni giorno. Dopo la mia prima cena al Sakura ero deciso anch’io a non mangiare in nessun altro posto. Ci godemmo uno spezzatino di manzo in stile naxi e un’impareggiabile pizza al salamino piccante, cotta in un forno a legna e servita su un asse di cedro. Accompagnammo la pizza e lo spezzatino con della birra artigianale e un caffè di miscela arabica, concludendo con tortini di banana saltati in padella e gelato. Il ristorante, mi disse Matt, accoglieva chef stranieri in una specie di scambio alla pari in cui venivano offerti vitto e lezioni di cucina tradizionale in cambio di ricette straniere. Chef da tutta Europa e dall’Asia avevano scambiato qui i loro segreti. Il nome del locale era dovuto alla moglie del ristoratore. La cucina giapponese, secondo Matt, qui era allo stesso livello di eccellenza dei migliori locali di Tokyo e Osaka.
I prezzi da bassa stagione avevano attirato moltissimi turisti cinesi, ma c’erano pochi occidentali. Uno di questi, l’attuale responsabile del Sakura, venne a sedersi con noi. Era un inglese basso e biondo, che era partito da Chengdu, dove gestiva un night club, alla ricerca della fonte dell’eterna giovinezza dello Yunnan. Si chiamava George.
Ci chiese perché ci trovassimo lì. Matt disse che stava cercando una famiglia del luogo particolarmente ospitale, disposta ad accogliere una famiglia americana per un mese. Il National Geographic avrebbe filmato l’esperimento.
Ebbi la sensazione che Matt si sentisse in imbarazzo a causa di questo incarico. A me l’idea sembrava piuttosto ridicola, anche se non glielo dissi mai: pensavo che neppure gli americani avrebbero voluto vedere altri americani soffrire, piangere e lamentarsi in condizioni così diverse dal loro stile di vita. Tutto ciò succedeva prima dell’avvento del Grande Fratello o dell’Isola dei famosi, e io ero stranamente ignaro della brama dei telespettatori di assistere a crudeltà banali.
Dissi a George che ero uno scrittore. Ero venuto in cerca di esperienze e, forse, storie, anche se non sapevo ancora cosa aspettarmi.
George chiamò un uomo dello Yunnan dall’aspetto piuttosto trasandato seduto a un altro tavolo.
«Andate con lui», disse. «Lui e i suoi fratelli hanno organizzato una specie di festa permanente nel cortile di casa. Troverete tutto quello che vi serve. A meno che non vogliate delle ragazze, in quel caso andate nella città nuova e…».
Non volevo compagnia. Ero innamorato di una ragazza vietnamita, a cui facevo visita tutte le volte che potevo oltre il confine, a...