«Così uccidemmo il commissario Calabresi»
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«Così uccidemmo il commissario Calabresi»

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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«Così uccidemmo il commissario Calabresi»

Informazioni su questo libro

La prima edizione del libro di memorie di Leonardo Marino venne pubblicata dalle Edizioni Ares nel 1992 con il titolo «La verità di piombo». Il testo, immutato perché la verità non muta, con la prefazione dell'avv. Gianfranco Maris, difensore di Marino, e la toccante testimonianza di Enzo Tortora, è stato in seguito integrato con un capitolo di 66 pagine, in cui l'autore ricostruiva gli avvenimenti giudiziari fino all'ottavo e definitivo processo, rispondendo alla formidabile campagna di aggressione a mezzo stampa di cui era stato oggetto. Il lettore scoprirà la grazia di un pentimento anche religioso, il ruolo determinante dei cosiddetti «grandi intellettuali» nello spingere alla rovina tanti ingenui giovani rivoluzionari, la figura di un martire, Luigi Calabresi, e le parole di perdono di Gemma, la moglie del commissario, che ha scritto la postfazione di questo fondamentale libro di storia.

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1999: DI NUOVO
IN TRIBUNALE









Sono trascorsi quasi sette anni da quando ho chiuso l’ultimo (ora penultimo) capitolo del mio libro. Eravamo nell’autunno 1992, alla vigilia della sentenza della Cassazione che avrebbe dovuto confermare o annullare la condanna pronunciata il 22 luglio 1991 dalla Corte d’Appello di Milano. Mi aspettavo, come quasi tutti, la conferma e stavo preparandomi moralmente ad affrontare un lungo periodo di carcere, gli undici anni che mi erano stati comminati e contro i quali anch’io avevo fatto ricorso: non contro la condanna, però, ovvia nei confronti di un reo confesso, ma solo contro l’entità della pena, che ritenevo erroneamente calcolata in relazione alle attenuanti che mi erano state riconosciute. Passavo notti insonni a contare quanti anni avrei effettivamente dovuto scontare e se la «buona condotta», che certamente avrei tenuto in prigione, mi avrebbe consentito, ogni tanto, di trascorrere qualche periodo di serenità in famiglia, con mia madre, con i miei figli e con Antonia, sulla quale unica ormai facevo conto perché ai ragazzi non mancasse l’indispensabile e potessero continuare i loro studi.
Poi, come tutti sanno, la sentenza del 23 ottobre 1992: la Cassazione, a sezioni unite (massima assise della giustizia nel nostro Paese), annullava la condanna e rinviava gli atti alla Corte d’Appello di Milano perché fosse celebrato un nuovo processo.
Da allora, e fino al momento in cui sto scrivendo queste note, siamo arrivati a sette processi e 14 pronunce. Le ultime cinque dopo che i difensori dei condannati hanno presentato l’istanza di revisione. In un primo tempo, la Corte d’appello di Milano ha respinto l’istanza. La Cassazione le ha dato torto inviando gli atti alla Corte d’appello di Brescia, che ha confermato il verdetto di Milano. A questo punto, la Cassazione ha inviato una nuova richiesta alla Corte d’appello di Venezia, che ha obbedito. I condannati sono usciti martedì 24 agosto 1999, in attesa di essere riprocessati per l’ottava volta insieme a me. A chi, dopo la decisione dei magistrati di sottoporre a processo anche me, benché non avessi chiesto alcuna revisione, mi chiedeva se fossi preoccupato, ho risposto di sentirmi e di essere tranquillo, sereno, per nulla sorpreso, rassegnato — direi — a fare per l’ennesima volta il mio dovere di fronte alla legge, seguendo, naturalmente, i suggerimenti e i consigli del mio avvocato, Gianfranco Maris, che ormai per me è diventato qualcosa di più di un difensore, un grande amico, un amico un po’ più grande di me, che ha combattuto per davvero per la libertà di questo Paese, e per questo è finito in un campo di annientamento della Germania nazista, uno di quelli che noi ragazzotti del ‘68 e anni limitrofi credevamo di scimmiottare, senza renderci conto di recitare una tragicommedia fuori del tempo e fuori della realtà.
Certo, io credevo, pur non sapendo molto di codici e di procedure, ma basandomi sul normale buon senso, che nessuno potesse essere processato due volte per lo stesso reato, a patto, beninteso, di non aver richiesto egli stesso, essendo stato condannato, la revisione del processo portando nuove prove, o comunque prove ritenute tali, così come hanno fatto Sofri, Pietrostefani e Bompressi. Evidentemente mi sbagliavo. I giudici di Venezia devono aver pensato che bisognava ripartire da zero, mettendo anche me, oggetto di sentenza di non luogo a procedere per prescrizione del reato, sul banco degli imputati.
Nel 1997, la Giustizia italiana, con sentenza definitiva sancita dalla Suprema Corte, aveva stabilito infatti, nei miei confronti, il «non luogo a procedere» per intervenuta prescrizione del reato. Cioè, io ho partecipato all’omicidio Calabresi — aveva detto la Giustizia italiana — ma, poiché ho confessato di mia spontanea volontà, ho meritato le attenuanti che hanno fatto diminuire il numero di anni previsti dalla legge per la punibilità del reo.
Io non avevo chiesto la revisione della sentenza, come i miei ex complici. Pertanto — così pensavo — non avrei dovuto essere riprocessato — sia pure con l’esito scontato, in caso di riconoscimento di colpa, di non luogo a procedere per prescrizione — ma semmai ascoltato come testimone d’accusa. Non è stato così. Pazienza. Dopo tutto, continuo a pagare il mio scotto per il male compiuto quel 17 maggio 1972. E non mi lamento. Penso a chi ha sofferto molto più di me: ai genitori, alla moglie e ai figli della nostra vittima innocente. E, ciononostante, continua a sopportare in un dignitoso, esemplare silenzio.
Se ritorno con la memoria a quel 24 agosto 1999, allorché le radio e le televisioni annunciarono che il processo per l’omicidio Calabresi sarebbe ripartito da zero, e al giorno successivo, che, come si può immaginare, furono anche per me due giornate «bollenti» (assedio di fotografi, giornalisti e troupe televisive), di quelle due giornate mi sono rimasti impressi pochi flash: Pietrostefani che, affacciato a una finestra della questura di Pisa, fa il gesto di buttarsi (macabro «replay» della tragedia Pinelli) e poi dichiara: «Questo Stato mi deve delle scuse»; Sofri che, alla domanda se abbia fatto un bilancio del suo passato, risponde: «Tutti noi ci siamo accomiatati dal nostro passato e l’ho fatto anch’io. Ma siamo rimasti in ottimi rapporti». E ancora, due speranzosi brani pubblicati rispettivamente sul quotidiano Il Foglio, che ospita giornalmente una rubrica di Sofri («Sofri e gli altri sono stati aiutati, per quanto possibile, dalla serenità di certi toni, anche da parte dei famigliari del commissario Calabresi») e L'Unità («In questi due anni e mezzo è corso anche un filo sottile di rapporti con la famiglia Calabresi»).
Mi è sembrato di capire che le cose non stiano proprio così. E l’ho capito dalla dichiarazione dell’avvocato della famiglia Calabresi, Luigi Ligotti: «Le nuove quattro “prove” valgono zero», ha detto Ligotti riferendosi alla richiesta di revisione. «Dopo questa pronuncia, tutti i processi già conclusi possono essere riaperti. Basterà che chiunque si presenti e dica: “Quel giorno ero con il presunto assassino”. E subito il condannato uscirà, in attesa del nuovo processo. Quanto al nuovo processo per l’assassinio di Calabresi, se sarà giudiziario, e non politico, gli imputati verranno nuovamente condannati. Altrimenti, vinceranno gli ex di Lotta Continua, soprattutto i colpevoli rimasti fuori dal dibattimento e che danno l’anima per salvare Sofri».
Richiesto di commentare questa dichiarazione, Sofri ha detto: «Non mi interessa quel che dice Ligotti: si tratta di un teppista».
Toni concilianti, come si vede. Ma ne riparleremo. Adesso bisogna che io ricostruisca questi anni trascorsi dal giorno in cui consegnai all’editore la prima edizione del mio libro. Andiamo dunque con ordine, e riprendiamo il filo della narrazione proprio da quella clamorosa sentenza delle Sezioni unite della Cassazione del 23 ottobre 1992. Essa fu accolta con comprensibile giubilo dai miei coimputati e dai tanti loro sostenitori, e non posso negare che, a mia volta, tirai un piccolo, privatissimo sospiro di sollievo, al pensiero che, almeno per il momento, non dovevo lasciare i miei per finire in prigione, nonostante coloro che si erano battuti al mio fianco prendessero duramente le distanze dal verdetto. Così, evitai di confidare i miei segreti pensieri persino al mio editore, che, sulla sua rivista Studi cattolici, faceva commentare con parole severe la motivazione, redatta dal consigliere Umberto Feliciangeli perché il relatore Brunello Della Penna, l’unico che sicuramente aveva studiato a fondo gli atti del processo, si era rifiutato di stenderla.

«Certo», scriveva Studi cattolici, «è stato uno strano processo. Fin dalla vigilia, il primo presidente intrattiene una fitta corrispondenza privata con Sofri arrivando a scrivergli: “Abbia fiducia”. Le lettere finiscono su L’Espresso. E questo, francamente, non si era mai visto né sentito. S’è mai dato che un povero diavolo che abbia rapinato una banca o ammazzato l’amante abbia scritto al dottor Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, ne abbia ricevuto pronto, caloroso e reiterato riscontro manoscritto, abbia passato il tutto a un settimanale e infine abbia vinto la causa? All’udienza, Sofri viene ammesso, nonostante la sua condanna sia “passata in giudicato”, cioè nonostante che, se fosse il povero diavolo di cui sopra, egli dovrebbe trovarsi da tre anni in carcere per scontare la pena irrogatagli in via definitiva quale colpevole dell'assassinio premeditato di Luigi Calabresi. Accanto al suo difensore tradizionale, l’avvocato Gentili, ne compare uno nuovo. È Marcello Gallo, giurista, ex senatore DC che potrebbe sedere al posto del ministro della Giustizia Conso, dato che possiede, a sua volta, tutta la cultura giuridica necessaria per far uscire il regime dal pantano di Tangentopoli. Esulta la Repubblica, giornale anti-Marino quant’altri mai: “La sua è stata un’arringa straordinaria”, s’esalta il cronista domenica 25 ottobre. E si corre a intervistare il vero vincitore della “battaglia della Cassazione”. Scampoli delle dichiarazioni di Marcello Gallo: “Una salutare diffidenza nella valutazione delle parole di chi accusa un coimputato è un grande principio di sicurezza per la società civile. E poi, non voglio essere ingeneroso, ma la storia personale di Marino fornisce un filo d’Arianna, una serie di elementi di dubbio».
«Ma di chi stanno parlando», prosegue Studi cattolici, «il cronista di Repubblica e il professor Gallo? Di un killer mafioso diventato collaboratore di giustizia, di un corruttore di Tangentopoli, oppure di un uomo, Leonardo Marino, che non ha mai voluto difendersi, ma, al contrario, accusarsi quando nessuno lo conosceva, nessuno lo sospettava, nessuno lo aveva mai tirato in ballo? Condizione unica nella storia giudiziaria italiana, che fa di lui un pentito senza virgolette e un testimone infinitamente più attendibile di tutti i corruttori e i concussori di Tangentopoli e di tutti i picciotti della mafia».
La rivista elenca poi «le forzature, quando non, purtroppo, le aperte immutazioni della verità storica, che denotano un grave difetto di lettura degli atti». Marino — ha scritto il giudice estensore — odia Sofri a tal punto che, pur di perderlo, non esita ad accusare sé stesso. E Studi cattolici: «Tale “odio” è tratto non dagli atti processuali, dai quali non risulta assolutamente, bensì dalla letteratura anti-Marino prodotta in quattro anni di intensa attività dalla lobby di Lotta Continua. Che la Suprema Corte si sia rifatta a tale produzione giornalistico-letteraria, peraltro ampiamente echeggiata nelle memorie difensive, è dimostrato da due macroscopiche inesattezze riportate a pag. 18, laddove si afferma che “più volte Marino si era rivolto al Sofri per parlagli delle sue difficoltà psicologiche e materiali ” (ma non è assolutamente vero: mai Marino si era rivolto a Sofri per parlargli di difficoltà psicologiche, ma soltanto per chiedergli una fideiussione bancaria), e a pag. 48, laddove si afferma che la compagna di Marino “era animata da profondi risentimenti verso Sofri” (dove hanno letto tali affermazioni, i supremi giudici, se non negli articoli e nei libri degli amici di Sofri e nel libercolo intitolato Il doloroso mistero.?)».
Ma ecco gli altri principali errori materiali.
«Marino non ha mai dichiarato di aver prelevato dal deposito di Torino il revolver poi usato da Bompressi per uccidere il commissario Calabresi (pag. 13 della motivazione); Marino non ha mai dichiarato di aver ricevuto in consegna da Bompressi l’arma del delitto (pag. 15 della motivazione); Marino non ha mai dichiarato di “essere stato istigato a compiere delle rapine da un vecchio commilitone di LC so-prannominato ‘Straccio’, identificato con il giornalista Paolo Liguori; ma la sua affermazione è rimasta non solo del tutto generica e priva di qualsiasi riscontro, ma anche inverosimile, stante la nota personalità del giornalista ” (pag. 56 della motivazione). Al contrario, Marino scagionò Liguori, precisando che lo “Straccio” da lui conosciuto era persona diversa dal giornalista».
«Quasi a ogni pagina», continua la rivista, «il dottor Feliciangeli trasfonde nella motivazione elementi e concetti contenuti nelle memorie difensive, talora accentuandoli. Per esempio, nella foga di pervenire all’assunto, che è quello di proclamare l’innocenza degli imputati, non esita a sfiorare il ridicolo, che è insito in ogni assurdo eufemismo, come a pag. 97, laddove è tale lo sforzo di affermare che Bompressi svolgeva soltanto attività “prettamente politica”, che le sue rapine vengono definite non “espropri proletari", che sarebbe già imperdonabile, ma addirittura “acquisizioni di finanziamenti”! A pag. 27 e seguenti la Corte d'assise d'appello di Milano viene duramente criticata per essersi permessa di sostenere (come peraltro già aveva fatto la Corte d'assise) che, anche a prescindere dalle dichiarazioni di Marino, non c'è dubbio che sia esistita una struttura clandestina armata nell’àmbito di Lotta Continua, e che a tale struttura debba farsi risalire il delitto Calabresi. Più avanti (pag. 48), la motivazione riprende la critica ammonendo non soltanto i giudici milanesi, ma evidentemente tutti i giudici d'Italia: attenti a sostenere che un delitto compiuto da membri di un'organizzazione debba per forza farsi risalire ai capi di detta organizzazione: bisogna provarlo, cari miei! I capi possono benissimo esserne all’oscuro, e comunque, senza prove oggettive e schiaccianti, devono essere ritenuti innocenti. Con il che le Sezioni Unite insegnano che ovunque (uffici, banche, giornali, aziende) nulla si fa che i capi non vogliano, meno che nel crimine (ergo: meno che nei partiti e nella mafia). Laddove, cioè, semmai, la disciplina, e il timore di conseguenze se uno sgarra, sono ben maggiori che nella vita comune.
«Perché non rimanga il minimo dubbio sull’obbligo dei tribunali di assolvere, in mancanza di prove oggettive, i capi delle organizzazioni delinquenziali, a pag. 74 si ribadisce il concetto:
«1) non vi sono prove per far risalire il delitto Calabresi all'esecutivo nazionale e alla struttura illegale di Lotta Continua;
«2) se anche tali prove vi fossero, il delitto non potrebbe assolutamente essere fatto risalire alle persone di Sofri, Pietrostefani e Bompressi.
«Perché no? Disturbando Kafka, l’ostacolo insormontabile rappresentato dall’art. 27 comma 2° della Costituzione (pag. 74, riga 16 della motivazione Feliciangeli). Il quale articolo recita: “L’imputato non è considerato colpevole fino a condanna definitiva". E ognuno comprende che non c’entra assolutamente niente con la questione di cui si discute.
«Se tuttavia qualcuno, particolarmente ottuso, si ostinasse a non capire, ecco che la motivazione Feliciangeli chiarisce definitivamente, con una frase lineare e semplicissima, che non può prestarsi a equivoci di sorta, il pensiero delle sezioni unite della Cassazione, Anno Domini 1993: "Gli stessi princìpi che regolano il concorso ex art. 110 c.p. ne rimangono incisi, restando indimostrati il collegamento causale della condotta dell’agente con il fatto, e il suo contributo, sia pur solamente morale, al reato specifico (aspetto oggettivo del concorso); e il consapevole legame di un apporto finalistico alla realizzazione di esso, che da tutti i concorrenti deve essere oggetto di rappresentazione e volizione (aspetto psicologico)” (pag. 75, righe da 4 a 13). Con il che è confermato un vecchio principio curiale: che laddove difettano gli argomenti, può soccorrere il latinorum. Che fare? Continuare? Non si finirebbe più. Ma, poiché questo è un articolo e gli articoli vanno conclusi, ecco un'ultima perla (pag. 54 della motivazione): la circostanza che Marino abbia confessato 16 anni dopo il delitto, è un fatto che ha “in sé considerato, risvolti ambigui e inquietanti”. La Cassazione insegna dunque che, come per le mele, c'è un tempo preciso anche per il pentimento. Quale?».

Considerazioni alle quali si potrebbe aggiungere l’enormità della contraddizione in cui era caduta Laura Buffo Vigliardi Paravia, l’amica di Torino che mi aveva portato con la sua macchina a Pisa perché io potessi parlare col «capo», ma aveva negato tutto, salvo poi venire smascherata perché la targa della sua vettura era stata rilevata dall’ufficio politico della Questura pisana, e lei, rinviata a giudizio per falsa testimonianza, se l’era poi cavata grazie a un’amnistia. Nulla di tutto ciò era stato rilevato dai giudici della Cassazione.


La «sentenza suicida»


La sentenza della Cassazione ha dunque rimesso le carte in tavola. Ci si prepara a un nuovo processo, il terzo. Nella sua imminenza, solita cascata di libri, trasmissioni televisive e interviste a Sofri. Conservo ancora il ritaglio di una intervista fatta da Repubblica a Renato Curcio il 9 novembre 1993, mentre ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione, di Gianfranco Maris
  2. Premessa
  3. La mia infanzia
  4. Alla Fiat
  5. Lotta Continua
  6. L’attentato
  7. Ii pentimento
  8. La confessione
  9. L’istruttoria
  10. In corte d'assise
  11. Mobilitazione generale
  12. In corte d'assise d'appello
  13. Così ebbe inizio il gioco dell'oca
  14. 1999: di nuovo in tribunale
  15. Il mio amico Calabresi, di Enzo Tortora
  16. Offri il perdono, ricevi la pace
  17. Elenco dei nomi e delle testate