Dino Buzzati. Bricoleur & cronista visionario
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Dino Buzzati. Bricoleur & cronista visionario

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Dino Buzzati. Bricoleur & cronista visionario

Informazioni su questo libro

«Tantissimi anni fa, per una collana chiamata "Invito alla lettura di...", fra tanti autori del nostro Novecento scelsi di scrivere su Dino Buzzati. Il clima culturale era ancora così pesantemente influenzato dalle mode neorealistiche, che lo stesso direttore della collana, poco amante delle atmosfere e dello stile buzzatiani, tentò di modificare il mio testo in senso molto negativo verso l'autore, direi addirittura sprezzante. Non ci riuscì. Buzzati è un grande, ed è ormai un classico. Il deserto dei Tartari continua ad affascinare i lettori ed è diventato proverbiale; le novelle dei primi libri hanno spesso una perfezione incantata, sembrano scolpite nel cristallo. E il mio piccolo libro mi pare ancora la chiave giusta per entrare nel suo mondo».

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
eBook ISBN
9788881559534

Prefazione

Ho incontrato Buzzati solo una volta in vita mia, pur essendo la Val Belluna il mio luogo del cuore; e non fu a Belluno, né nella villa dei Buzzati Traverso a San Pellegrino. Fu a Venezia, in un pomeriggio di tanti anni fa, visitando una mostra di pittura alla Fondazione Bevilacqua La Masa.
Io avevo letto e amato i suoi tre libri di racconti, I sette messaggeri, Paura alla Scala e Il crollo della Baliverna, che mio padre – medico di gran fiuto e passione letteraria – aveva a suo tempo comprato appena usciti; e alcune di quelle novelle straordinarie (come Le buone figlie, Una cosa che comincia per elle, I ricci crescenti) perfettamente costruite nel solco della grande tradizione novellistica italiana, mi avevano colpito in un modo fortissimo e un po’ segreto, quasi costringendomi a rileggerle ogni tanto per impararle più a fondo.
Ne fu anche profondamente influenzata la mia visione del bellunese, come offrendomi una chiave di lettura che mi rivelava la natura profonda delle sue montagne, delle sue ville, delle «vallette amene» coi ruscelli mormoranti – e dei misteri che esse celavano: dov’era la valle remota dove si svolge l’angosciante storia dell’Uccisione del drago? E la villa dei nobili signori Gron, con la terribile padrona di casa che rifiuta di salvarsi pur di non rinunciare al decoro e alla buona creanza? O l’altra villa, di cui Buzzati ci fornisce anche un plausibile nome veneziano, La Doganella, in cui ambienta la cupa tragedia de I topi? E il protagonista del Borghese stregato dove muore, se non nella nostra Susin di Sospirolo, all’albergo Doglioni, con i suoi anditi e la sua torretta segreta, il parco con le statue coperte d’edera e il fitto bosco del Comunale dove noi bambini combattevamo ogni giorno?
Ma quel giorno a Venezia l’incontro con Buzzati non fu particolarmente entusiasmante: mi strinse la mano, gli dissi che amavo i suoi racconti e i suoi articoli sul Corriere della Sera e che li leggevo d’un fiato, e lui rispose con un sorrisetto: «Si leggono facilmente, il difficile è scriverli». Pensai che avesse ragione, scrivere chiaro è davvero difficile (ero alle prese in quei giorni con un punto complicato della mia tesi di laurea sui mosaici ellenistici, che non mi riusciva di spiegare bene), ma nel frattempo lui si voltò da un’altra parte e se ne andò con degli amici.
Ci rimasi un po’ male, ma poi finii per andarmene anch’io, in compagnia di un ragazzo che mi piaceva molto. Continuai però ad amare Buzzati e a seguirlo, e mi piacque anche Un amore, il discusso romanzo della sua estrema maturità. E quando – a inizio di carriera – mi arrivò la proposta di scrivere su di lui, accettai con entusiasmo: mi parve un buon segno che il mio primo libro di saggistica fosse su un autore che conoscevo e che amavo, in quella collana della casa editrice Mursia intitolata Invito alla lettura di..., in cui comparivano gli scrittori italiani più importanti del Novecento.
Nel frattempo Buzzati era morto, annientato dal cancro. Non potei chiedergli l’intervista che, dopo aver accettato di scrivere il libro, avevo subito pensato di fargli. Grazie a un amico contattai allora Almerina, che mi invitò ad andare a casa sua a Milano: e là trascorsi una giornata entusiasmante e strana, perché lei, vedova da poco, ancora un po’ frastornata e incerta sul da farsi, mi accolse con straordinaria amabilità, parlando di tante cose, di sé, di lui e del loro matrimonio; mi fece vedere e sfogliare i famosi quaderni, sui quali Buzzati aveva annotato – giorno dopo giorno, anno dopo anno – nella sua scrittura chiara e precisa, idee, impressioni, raccontini, pensieri, quasi sempre completandoli con disegnini a penna. «Qualche volta – mi disse Almerina – prendeva da lì qualche spunto per un pezzo sul Corriere. Allora li spargeva tutti sul divano e li sfogliava per ore».
Il grande soggiorno era molto accogliente e diviso in diverse parti. Sul davanti, di fronte al divano, una splendida vetrata lo illuminava tutto. La zona pranzo era all’interno, divisa da un gradino (così mi pare, dopo tanti anni...), con un tavolo da pranzo allineato al divano; e in mezzo, sopra lo schienale, il lungo ripiano con sopra i quaderni ben allineati. La stanza poi si allargava verso destra in un ambiente rettangolare con una piccola scrivania sul fondo. «È là – continuò Almerina in tono riflessivo – che scriveva. E dietro, vedi la libreria? Ci aveva messo tutte le traduzioni dei suoi libri. Non lo diceva in giro, ma ne era orgogliosissimo, perché nessun collega scrittore era tradotto quanto lui». E io pensai: «Forse Guareschi?», ma mi guardai bene dal dirglielo...
Ripensando a quell’incontro, oggi potrei forse dire che fu un’occasione perduta. Avrei – forse – potuto cercarla di nuovo, la bella Almerina dal veneziano nome settecentesco e dalla treccia viva giù per le spalle, farmi dare i quaderni da leggere, entrare nel mondo che lui aveva lasciato, nell’«officina dello scrittore», come si usa dire. E non avrei avuto problemi neppure per incontrare il fratello, il professor Adriano Buzzati Traverso, collega di mio zio Wart Arslan a Pavia, o per andare a trovare la sorella d’estate, nella villa vicino a Belluno. Ma più che inseguire i frammenti del suo vissuto, o le tracce non elaborate della sua scrittura, avevo in realtà voglia di misurarmi con le sue opere compiute, di analizzarle nella loro verità, di inseguire le forme e le ossessioni figurative e creative di questo autore così importante ma così anomalo nel panorama italiano, affabile orgoglioso e segreto, che non aveva aderito a nessun movimento letterario, né al «realismo magico» di Bontempelli né al neorealismo postbellico, che parlava con nostalgica venerazione di eserciti e fortezze, di boschi animati, di animali antropomorfizzati e dolenti (o giustamente aggressivi) e di montagne percorse da occulte presenze: uno scrittore del nord che non amava raccontarsi, ma raccontare. Soprattutto, raccontare storie.
Mi tuffai così dentro il mondo pieno di sorprese della scrittura di Buzzati, un mondo illusorio e reale insieme, che lui raffigurava con strani colori allusivi e simbolici (ogni variazione di giallo va letta sempre come maligna, per esempio), e mi accorsi ben presto che non di «brividi borghesi» (celebre definizione di un critico ostile) o di nebulose suggestioni tardoromantiche immerse in atmosfere fantastiche si trattava con lui, ma di mondi straordinari costruiti con materiali del tutto realistici: Buzzati è un accanito sperimentatore di forme diverse che affronta con inesausta curiosità, dal romanzo al racconto alla poesia al teatro alla pittura, con tutto l’indaffarato eclettismo di un vero bricoleur della letteratura.
E le sue storie le prende dalla cronaca e dalla realtà, ma trasfigurandola: nei suoi quaderni, nei suoi articoli, nelle sue lettere – con meticoloso realismo da giornalista di razza – Buzzati appunta tutto il mondo che lo circonda, con la sua infinita varietà di personaggi, avvenimenti, emozioni, conflitti, esperienze; poi, al momento di scrivere, lo scompone e ricompone assemblando i materiali che ha raccolto, con un continuo allargamento della percezione di essi, spostandoli e aprendoli verso un mondo sopra-reale altrettanto naturale (e non conflittuale), col quale comporre inedite, bizzarre ma estremamente coerenti unità di racconto.
Le due realtà appaiono, così, contigue e in continuo contatto, e fluiscono l’una nell’altra con una naturalezza che sembra semplice e quasi spontanea, mentre invece è abile opera del demiurgo-bricoleur: coi suoi materiali egli sa costruire macchine narrative formidabili e assolutamente verosimili, in cui il lettore si addentra come incantato da un pifferaio sapiente. Il tessuto della storia narrata passa senza soluzione di continuità dall’ordinario allo straordinario, ma resta saldissimo: il racconto Il borghese stregato ne è un esempio perfetto.
Fu per me un lungo percorso. Oltre ai suoi libri più noti, trovai una quantità di materiale allora poco conosciuto: tanti articoli del Corriere della Sera che mio padre aveva raccolto (sequenze soprattutto: quando gli capitò di seguire un processo celebre, o di percorrere l’Italia alla ricerca di misteri), prefazioni, novellette sparse, e mi dedicai con passione a inserirli nel quadro che mi si veniva svelando. All’epoca, era ancora molto diffuso, parlando di Buzzati, il facile paragone contenutistico con gli «scrittori del mistero» stranieri, e soprattutto con Kafka, che lui negava di conoscere (invece poi, dalle lettere giovanili all’amico Arturo Brambilla pubblicate da Luciano Simonelli parecchi anni dopo la sua morte, nel 1985, risulta chiaramente che lo avevano entrambi letto e discusso: ma devo dire che già allora, partendo dall’analisi delle sue opere, a me sembravano piuttosto ovvie sia la frequentazione di Kafka sia l’appassionata lettura dei grandi narratori della tradizione nordeuropea). D’altronde, a molti critici il successo e l’interesse dei lettori, e la figura stessa di Buzzati, grande borghese e giornalista esemplare, non piacevano anche per motivi prettamente ideologici, e lo collocavano senz’altro sul piano scivoloso della letteratura d’intrattenimento, fra i banali volgarizzatori di «emozioni piccolo-borghesi».
A me pareva invece necessario prestare molta attenzione all’originalità della sua scrittura, al suo essere approdato a un linguaggio piano eppure carico di oscuri presentimenti, abilmente calibrato intorno a certi termini-chiave che riaffiorano con frequenza, evidenti segnali che il lettore coglie immediatamente, come «in quel preciso momento...»; «eppure...» e pochi altri, e vanno di pari passo coll’apparire (altri segnali inconfondibili) dei suoi colori simbolici, piccole inquietanti bandiere di luce che fluttuano sulla pagina a colorare il testo con preziosi arabeschi goticheggianti. Certe pagine di Buzzati, devo dire, mi hanno sempre fatto venire in mente i fogli miniati dei manoscritti medievali, coi loro ghirigori pazienti e le lettere illuminate di colori e di capricciose abbreviazioni, dei quali più che capire il senso in fondo interessa subire il fascino misterioso.
Il «senso» delle sue storie Buzzati sembrerebbe invece esprimerlo con limpida chiarezza, rispettosa del lettore e dei modi del raccontare: eppure c’è, sparsa dovunque come una polvere dorata, l’ambiguità di un soprasenso simbolico che lo mette in discussione, affrontando in mille modi, con inesausta pazienza, i grandi nodi del vivere umano.
Questo libro è il frutto della mia passione di allora. Molti anni sono passati, per me e per tutti: ma, rileggendolo, mi sono accorta che sono ancora sostanzialmente d’accordo con quello che scrivevo. In tutti questi anni la fama di Buzzati è rimasta solida, le sue opere sono continuamente ristampate, lette e adottate nelle scuole: questo mio piccolo libro vuole tornare a essere un invito alla lettura di uno scrittore fra i più significativi del Novecento. Un invito affabile, che racconta i suoi libri e il suo personaggio, così originale nel panorama letterario italiano; ma anche una riflessione personale, perché mi sono accorta che Buzzati è stato uno degli scrittori che mi ha più sottilmente influenzato, soprattutto nella tecnica narrativa e nell’ansia di raccontare con felicità, cercando sempre di coinvolgere il lettore, l’alter ego di chiunque non scriva soltanto per sé stesso.
A. A.

Capitolo I

La vita

Il mito di Buzzati
«Quando incontrai la prima volta Dino Buzzati, intorno al ’47, avevo già stretto amicizia con la cornacchia di Bàrnabo e col giovane ufficiale Giovanni Drogo, l’antieroico eroe del Deserto dei Tartari. Per questo libro si era speso il nome di Kafka e io ero curioso di vedere quale personaggio-uomo si celasse dietro le spoglie del personaggio-autore. Non fui né deluso né appagato né sorpreso. Nulla di artistico, nulla di eccentrico in lui [...]. Buzzati era un perfetto gentiluomo, affabile ma non troppo espansivo, un giornalista zelante, forse innamorato del suo mestiere, un solitario piacevolissimo, abbastanza d’accordo con sé e con la vita».
Con queste parole inizia Eugenio Montale il suo ricordo di Buzzati, l’indomani della sua morte (Corriere della Sera, 29 gennaio 1972). Ci sembrano frasi giuste, che ben possono servire a introdurre un ritratto di questo scrittore che sia il più possibile reale e plausibile, documentato, senza troppo indulgere a quei toni enfatici che spesso si sono ritenuti obbligatori nel parlare di lui. Obiettivamente, Buzzati non è uno scrittore facile. Il suo isolamento nella società letteraria, la sua fondamentale fedeltà a un modo di raccontare di cui era padrone, ma nei limiti di una tematica piuttosto ristretta, il suo rifiuto – cortese, ma assoluto – di qualsiasi riflessione critica sullo scrivere, sulla natura o sugli scopi del raccontare, sulla funzione dello scrittore in quanto tale, lo rendono un caso atipico e paradossale. Vogliamo dire che, da un lato, Buzzati è sempre stato prodigo di sé: volentieri spiegando la genesi delle sue opere, gentilmente ricevendo gli intervistatori, accondiscendendo di buon grado alle loro domande, come un buon giornalista che sa come mettere un altro giornalista nelle migliori condizioni per svolgere il proprio lavoro. Ha permesso, sorridendo, che gli venissero appiccicate le più svariate etichette, manifestando qualche insofferenza soltanto verso il ricorrente incubo di Kafka (dallo schiacciante, continuo paragone con lo scrittore boemo egli ha scritto di essersi sentito libero solo dopo aver visitato, a Praga, la tomba di Kafka nel cimitero ebraico: se ne può leggere l’ironico reso­conto nell’articolo Le case di Kafka, pubblicato sul Corriere il 31 marzo 1965). Ma per il resto, con buona grazia e istintiva sapienza, ha svalutato la critica non dandole peso e, lasciandosi di volta in volta definire esistenzialista e cristiano (o anche, magari, esistenzialista cristiano), laico e religioso, militarista e borghese, ha nascosto la sua divorante ambizione sotto una svagata apparenza di signorilità (ma era ambizioso: «Aveva ambizione letteraria e pazienza, era ansioso e sapeva attendere, era sicuro che, fra narratori tutti diversi da lui, le sue fantasie lo avrebbero portato dove egli aveva deciso di giungere. In realtà, essendo acritico, considerava cortesie le lodi e piccoli sgarbi da obliare le disapprovazioni», testimonia Emilio Radius – in Il Mondo, 11 febbraio 1972 –, che gli è stato vicino dal 1929, quando entrambi lavoravano già al Corriere). Ridimensionando la critica, a favore del giudizio del pubblico, Buzzati in realtà metteva al riparo il suo «io» più segreto, insicuro sul piano teorico, dagli attacchi ricorrenti dell’incertezza e dell’angoscia, e dava solo a sé stesso il diritto di giudicarsi.
Si spiegano cosí, da un lato, la sua impermeabilità alle mode letterarie – sono sempre gli stessi temi che ritornano, con incredibile costanza, a distanza di decenni, nella sua narrativa – e dall’altro la mancanza di autocritica che lo portava volentieri a riprendere motivi già abbondantemente sfruttati, e a non saper scegliere con sicurezza, fra le varie espressioni di uno stesso tema, quella migliore. È un particolare che è già stato notato, in occasione dell’uscita dei Sessanta racconti (1958), ma che ci sembra illuminante: quando Buzzati volle pubblicare il meglio della sua narrativa breve, appunto nei Sessanta racconti, e si trattava di compiere una scelta antologica fra le storie delle sue tre prime raccolte di novelle, ormai esaurite, trascurò proprio alcune delle sue cose migliori, come Notizie false, Il memoriale, Le buone figlie, I ricci crescenti.
L’apparente disponibilità dello scrittore è dunque soltanto l’altra faccia di un carattere fermissimo e scostante, buono della bontà distaccata e non partecipe dell’essere privilegiato, cordiale perché ciò rientra nelle educate consuetudini di ogni persona civile? I numerosi personaggi-Buzzati che ammiccano dalle tante interviste cos’hanno in comune, al di là di un’accorta amministrazione di sé stessi e di una giusta politica di buoni rapporti col pubblico-padrone? (Non a caso la quasi totalità di queste interviste è stata rilasciata a settimanali di attualità, a rotocalchi femminili, perfino a «riviste per soli uomini»...). Se confrontiamo Buzzati con un altro scrittore di successo, celebre in patria e all’estero e con un debole per le interviste, cioè Alberto Moravia, vediamo in quest’ultimo, al di là delle sue impennate e intemperanze verbali, la presenza di una specie di massiccia coerenza, di testarda determinazione: in una parola, egli afferma continuamente sé stesso e la propria opera, mentre Buzzati, duttile, lascia plasmare l’immagine interiore di sé all’intervistatore, e gli offre viceversa, precisissima, quella esteriore di un puntiglioso, elegantissimo decoro alto-borghese, in cui s’insinua un’evidente punta polemica verso il cliché tradizionale dello scrittore.
Le incertezze, i timori, i dubbi di ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Post scriptum
  3. Indice