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Addio mia bella addio. Battaglie ed eroi (sconfitti) del Risorgimento
Informazioni su questo libro
Addio mia bella addio è una canzone del 1848 che cantavano i giovani volontari che combattevano per la libertà dell'Italia. Di quei ragazzi oggi restano i teschi negli ossari di Custoza, di San Martino e in tanti altri luoghi d'Italia. E allora, per capire cosa animava quei giovani è necessaria una narrazione «dal basso», una storia militare che porti a immedesimarsi negli uomini di quel tempo, oggi così svalutato. Alberto Leoni ha ripercorso i campi di battaglia di allora, camminando su quei colli, in quei vigneti, visitando le case che ancora oggi portano i segni delle cannonate. E ripercorrendo quelle strade, salendo su quelle alture o visitando quelle cascine, il lettore riuscirà a varcare il cancello del Tempo, riappropriandosi così del passato per capire meglio il presente.
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Informazioni
Argomento
StoriaCategoria
Storia militare e marittimaAlberto Leoni
ADDIO MIA BELLA ADDIO
Battaglie ed eroi (sconfitti) del Risorgimento


Alberto Leoni
Storico militare, ha tradotto la storia del Risorgimento italiano, scritta da Patrick Keyes O’Clery, con il titolo La Rivoluzione italiana. Ha pubblicato, sempre con Ares, La croce e la mezzaluna (2007), La «quarta» guerra mondiale: origine e cronache (2009), L’Europa prima delle Crociate (2010), Il Paradiso devastato. Storia militare della campagna d’Italia (2012), Storia delle guerre di religione. Dai catari ai totalitarismi (2018).
Copyright © 2020 by Edizioni Ares
Via Santa Croce, 20/2 - 20122 Milano
Collana «Faretra»
Riflessioni su temi fondamentali
ISBN 978-88-8155-939-8
Il catalogo completo delle Edizioni Ares è consultabile nel sito www.edizioniares.it
La nostra e-mail è: [email protected]
In copertina: Giovanni Fattori, La battaglia di Custoza (1880) presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Alla memoria di nonno Adelmo,
alpino
Introduzione
Dopo venti minuti fuori dalle strade principali, la torre dell’ossario di Custoza si stagliò netta nel cielo al di sopra delle colline tra il Garda e Verona. Così apparve all’improvviso a me e a mia moglie mentre provenivamo da Valeggio sul Mincio, dopo aver valicato poggi e attraversato vigneti di una terra splendida. Quel pomeriggio di ottobre, oscuro e piovoso, la sera era scesa in anticipo come se la luce del giorno si fosse stancata e volesse chiudere bottega in fretta. La nostra era l’unica auto nel parcheggio e nel gabbiotto all’ingresso ci attendeva il giovane Salvatore che si prestò a farci da guida, con competenza e gentilezza. Varcammo il cancello sotto una pioggia battente e ci dirigemmo verso l’ingresso della torre e all’ossario sotterraneo. Pochi gradini ed ecco davanti a noi, perfettamente ordinati su scaffalature circolari, i teschi di 1894 soldati italiani, austriaci, ungheresi, croati (e qualche francese), caduti nei dintorni di Custoza nelle due battaglie del 1848 e del 1866 e nella campagna del 1859: le ossa lunghe, come tibie, femori e ulne erano impilate al centro della cripta.
Mentre percorrevamo il corridoio con cautela, per non disturbare quei resti umani, Salvatore spiegava che solo per pochi di quei morti era stata possibile l’identificazione. Nell’Ottocento l’inumazione dei caduti in battaglia non prevedeva sepolture singole e nominali, ma fosse comuni, spesso non abbastanza profonde per proteggere i corpi dalle intemperie. Don Gaetano Pivatelli, parroco a Custoza dal 1872, vide, sei anni dopo la battaglia, cani randagi depredare le tombe e aggirarsi nelle campagne con ossa umane tra le fauci. Quando l’ennesimo cadavere venne ritrovato nei boschi, don Gaetano mise in atto una delle sette opere di misericordia corporale: seppellire i morti. Quei ragazzi, la cui nazionalità e origine era ormai completamente inconoscibile, dovevano essere sepolti insieme come fratelli. Pivatelli scrisse al re d’Italia Vittorio Emanuele e all’imperatore Francesco Giuseppe e ottenne dai due sovrani i fondi per la costruzione del Sacrario.
Il visitatore che osservi i teschi potrà notare alcuni particolari: mandibole e mascelle sono abbinate in modo approssimativo; nei crani si vedono fori di proiettili o di baionetta; dalla dentatura si rileva che erano quasi tutti giovani e in ottima salute. Probabilmente l’uniforme che vestivano avrà dato loro un qualche fascino presso le ragazze frequentate poco prima di partire. Viene alla mente l’ironica romanza di Mozart e Da Ponte «Non più andrai farfallone amoroso / notte e giorno d’intorno girando / Delle belle turbando il riposo / Narcisetto, Adoncino d’amor!».
La vita del militare aveva, allora, questa paradossale contraddizione: un prestigio dell’uniforme universalmente riconosciuto e un trattamento disumano in caso di morte o ferita. Sulla sepoltura sommaria si è già detto ed era la prassi corrente. A Magenta, per esempio, dopo la spaventosa battaglia del 4 giugno 1859, le fosse comuni furono frettolosamente scavate nel terrapieno della ferrovia con prevedibile riapertura delle stesse alle prime piogge. Per certi versi la sorte dei feriti era anche peggiore. Le pallottole di piombo, quando colpivano un uomo, si deformavano e, nel loro percorso all’interno del corpo trascinavano con sé pezzi di uniforme e vestiario, di solito molto sporco. Era uno dei motivi per cui il generale nordista Ulysses S. Grant, trasandato nell’uniforme, indossava sempre biancheria pulitissima. Le ferite si infettavano facilmente e degeneravano in cancrena. L’amputazione degli arti era la soluzione più rapida ed efficace, l’anestetico era quasi del tutto assente e i disinfettanti ancora di più. I chirurghi da campo, tra un’operazione e l’altra, pulivano i bisturi strofinandoseli sui camici: questa era la pulizia dei tempi. Torneremo, più avanti, sui macabri dettagli della chirurgia militare di quel tempo.
«Bella vita militar! / Ogni dì si cangia loco; / oggi molto doman poco / ora in terra ed or sul mar / il fragor di trombe e pifferi / lo sparar di schioppi e bombe / forza accresce al braccio e all’anima / vaga sol di trionfar / bella vita militar!». Così nell’opera lirica Così fan tutte. Ci voleva tutto il genio ironico di Wolfgang Amadeus Mozart e di Lorenzo Da Ponte per satireggiare sul mito del prestigio militare, già dal 1790.
Ma questo mito è durato ancora per quasi due secoli tramontando definitivamente solo dopo il 1968 e la rivoluzione politica e culturale che ne derivò. Fu, in un certo vero senso, una «morte della patria» ancora più definitiva e tombale dell’8 settembre 1943. Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, veterano della Prima guerra mondiale, tenente colonnello del 31° battaglione guastatori a El Alamein e medaglia d’argento della Resistenza, scrisse di appartenere alle generazioni «patriottarde» e cioè postnapoleoniche e predorotee. Il lettore saprà benissimo che il periodo postnapoleonico decorre dal 1815-1821 ma, forse, non cosa sia il «doroteismo». Si tratta di una corrente politica interna alla Democrazia Cristiana, fondata nel 1959 durante un convegno nel convento di Santa Dorotea a Firenze, con una valorizzazione delle forze sociali in luogo di una preminenza dello Stato e del partito. Dopo di allora inizia la vera modernizzazione dell’Italia e il progressivo distacco degli italiani dalla tradizione risorgimentale. Chi scrive, nato nel 1957, frequentò scuole elementari segnate da un patriottismo di stampo deamicisiano, facilitato dal fatto che, come il «piccolo scrivano fiorentino», si imparava a scrivere con inchiostro e pennino: un’immedesimazione totale, nemmeno con la Realtà Virtuale! Un avo di mia nonna pratese, o forse solo un omonimo, era Giuseppe Mazzoni, triumviro della Repubblica Toscana nel 1848. Mentre attendevo di entrare in classe leggevo su una lastra di bronzo il proclama della vittoria emesso da Armando Diaz. Le scuole erano intitolate agli eroi di guerra, come Nazario Sauro e Giuseppe Nolli. Ricordo che la domanda di storia per l’esame di quinta elementare fu: «Il triumvirato della Repubblica Romana del 1849». A dieci anni la mia risposta fu fulminea: oggi è una domanda da telequiz da un milione di euro, ma allora era cultura spicciola e generalmente condivisa. La domanda dell’esame di musica fu al limite del mito: «Intonami il “Va pensiero”».
Da allora, tra ripensamenti e ritorni di fiamma, alcuni valori ideali si sono mantenuti nel corso della mia vita: il tricolore, il valore delle Forze Armate, l’appartenenza a questo strano Paese e l’orgoglio che ne deriva. Erano sentimenti condivisi anche dai miei compagni del 112° corso allievi ufficiali, ironici sulla vita militare, ma sempre in gara per avere l’onore di innalzare il tricolore al mattino.
Nella tradizione italiana il Risorgimento ha avuto un ruolo fondamentale che nessuno aveva messo in discussione fino al 1968. A partire dagli anni Settanta una critica serrata, proveniente da sinistra, ha svalutato gran parte dell’epopea risorgimentale. All’inizio degli anni Novanta tale critica è arrivata anche da parte cattolica e, nel 2000, posso dire di aver dato il mio personale contributo in tal senso traducendo l’opera integrale di Patrick Keyes O’Clery, edita da Ares nel 2000 con il titolo La rivoluzione italiana. Un testo semplicemente splendido, scritto da un ex zuavo pontificio, combattente a Mentana a 19 anni ma pervaso da un fair play e da un’obiettività degne di emulazione, pur contestando la legittimità e la moralità del modo in cui era stata realizzata l’unità d’Italia. Ma la polemica contro il Risorgimento è continuata nel tempo e, oggi ci si accanisce contro i resti di un’epopea che non è più riconosciuta come tale.
Indro Montanelli scriveva che era l’unica epopea che avessimo e non era vero. Più imponenti, almeno come partecipazione popolare e numero di morti (circa 60mila in entrambi i casi), furono le Insorgenze antinapoleoniche (1798-1809) e la Resistenza contro i nazifascisti. Tuttavia, quella risorgimentale possiede un appeal estetico unico nel suo genere che è stato pienamente reso da Luchino Visconti nel suo film capolavoro, Senso del 1954. La ragione è culturale non militare. Le Insorgenze non sono conosciute che da uno sparuto gruppo di specialisti ed è un fatto che non abbiano lasciato dietro di sé opere artistiche degne di nota. La Resistenza, invece, è stata lo spunto per capolavori letterari di scrittori come Fenoglio, Calvino e Vittorini e cinematografici di registi come Rossellini, Lizzani e Comencini. Niente di paragonabile, tuttavia, almeno per quantità di opere, a quanto creato da Alessandro Manzoni, Antonio Fogazzaro, Ippolito Nievo e decine di altri autori anche prerisorgimentali come Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi: l’inno «All’Italia» di quest’ultimo basterebbe a giustificare decenni di patriottismo: «Qua l’armi io solo / combatterò, procomberò sol io». I dipinti ispirati al Risorgimento potrebbero riempire pinacoteche con, ai vertici, le opere di Fattori e Hayez e, sotto l’aspetto musicale, basterebbe il solo nome di un gigante come Giuseppe Verdi a giustificare l’esistenza del mito risorgimentale.
L’influsso della cultura e della memoria risorgimentali sulla cultura italiana del XX secolo può ben essere rappresentato da questo episodio della Resistenza. Nel novembre del 1943 l’ingegner Filippo Beltrami decise di resistere contro i nazifascisti e incontrò l’avvocato Mario Macchioni nella sua villa di Cireggio. Si trattava di entrare in clandestinità e di combattere, rischiando la vita e mettendo a repentaglio la famiglia e i figli ancora piccoli. Tutti e due erano nella stessa situazione ma, ancora una volta, l’educazione risorgimentale e patriottica ebbe la meglio. Racconta Macchioni che, al loro primo incontro si misero a recitare i versi di «Marzo 1821»: «Oh giornate del nostro riscatto! / Oh! Dolente per sempre colui / Che da lunge, dal labbro d’altrui / Come un uomo straniero le udrà! / Che a’ suoi figli narrandole un giorno, / Dovrà dir sospirando: io non c’era; / Che la santa vittrice bandiera / Salutata quel dì non avrà». Filippo Beltrami, medaglia d’oro al valor militare, sarebbe morto in combattimento pochi mesi dopo in Val d’Ossola. Raramente si ricorda che la Resistenza contro i tedeschi è inconcepibile senza la cultura risorgimentale e patriottica durata almeno un secolo e contro la quale andò a schiantarsi il progetto mussoliniano di un potere totalitario.
Riprendiamoci un attimo dall’emotività dei ricordi e poniamoci un quesito. Questa epica è ancora comunicabile oggi? E non appare contraddittorio che questo tentativo di ricordare gli eroi del Risorgimento provenga da chi, come l’Autore, dovrebbe considerare il Risorgimento come una mitologia negativa?
L’obiettivo di quest’opera, tuttavia, non è di riscrivere una storia del Risorgimento. Si tratterebbe di un’ennesima storia «dall’alto» che si aggiungerebbe a tante altre, spesso di eminenti studiosi, ma che non modificano il sentire degli italiani. Se si vuol capire, almeno in parte, cosa accadde in quegli anni bisogna ripercorrere quei campi di battaglia «dal basso» insieme a quei ragazzi i cui teschi giacciono a Custoza, a San Martino e in tanti altri luoghi d’Italia. Perché quei ragazzi, coscritti o volontari ci rimisero la vita e, per loro, il Risorgimento non fu una burletta o l’esito di un complotto massonico.
La presente opera è una storia militare, un aspetto tanto importante ed emotivamente coinvolgente quanto ancora non valorizzato a sufficienza; mi auguro inoltre che possa servire per comprendere le motivazioni dei combattenti.
L’analisi delle battaglie risorgimentali riguarderà anche il tasso delle perdite umane che, secondo una vulgata oggi diffusa, costò poco, circa 6mila morti. La fonte di questa notizia è una persona seria come Gaetano Salvemini che scriveva nel 1915: «La sola battaglia di Gravelotte nel 1870 costò alla Germania 9mila morti e 18mila feriti. L’intero Risorgimento italiano è costato ai nostri padri una miseria, quello che costa oggi una battaglia di mediocre importanza. Il Risorgimento italiano è stato un terno al lotto, guadagnato con molta fortuna. La sua prima vera grande prova – la nazionalità italiana la sta dando nella guerra attuale. Qui comincia la sua nuova storia» (La Voce edizione politica, anno VII, n. 5, 7 luglio 1915).
Ciò che lascia interdetti di questa citazione è l’uso avulso dal contesto. Salvemini citava queste cifre in quanto socialista interventista. Si tratta di uno scritto di valore polemico e propagandista, non di uno studio storico. Se si vuole stimare correttamente i costi umani di questi conflitti è necessario adottare i seguenti criteri:
- aggiungere a tale calcolo anche i caduti in battaglie non citate dal Salvemini (per esempio, le insurrezioni di Milano e di Brescia);
- riferire dati aggiornati alle perdite umane;
- considerare nella somma dei morti in battaglia una congrua percentuale di dispersi e feriti;
- confrontare la cifra delle perdite con quella degli effettivi impegnati in combattimento.
Alla fine di quest’opera, analizzando almeno sessanta tra campagne e scontri minori, il conto dei caduti (forzatamente approssimativo) è salito a più di 16mila italiani caduti per la libertà d’Italia, ai quali vanno sommati almeno altri 2mila morti borbonici, esclusi quelli morti in prigionia. Vanno considerati anche 28mila feriti in combattimento dei quali almeno il 20-25% è morto in seguito alle ferite riportate, anche dopo diversi anni, come accaduto, per esempio a Giovanni Cairoli, ferito nel novembre 1867 e deceduto quasi due anni dopo. La cifra dei morti in battaglia arriva così a 23mila. Una cifra ben diversa da quella riportata dal Salvemini. Va, inoltre, premesso, che il conteggio delle perdite varia da autore ad autore e che le cifre riportate saranno meramente indicative.
Questo per quanto riguarda un conto complessivo delle perdite umane. È, tuttavia, necessario anche considerare la proporzione delle perdite facendo paragoni con altre battaglie degli stessi anni. Per esempio, la battaglia più sanguinosa dell’Ottocento postnapoleonico, sot...
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