Paolo VI
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Il Papa del dialogo e del perdono

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Paolo VI

Il Papa del dialogo e del perdono

Informazioni su questo libro

«Se qualcuno mi chiedesse quale era la virtù più evidente in Paolo VI, direi che era la virtù del Perdono. Lui possedeva un grande senso del Perdono... Non aveva mai una parola di condanna per nessuno, sempre scusava. Mi ha detto: "Guarda che per un sacerdote la prima virtù dev'essere quella del perdono, perché il sacerdote è il dispensatore del perdono di Dio; e se noi non conosciamo la misericordia di Dio nei nostri confronti, come possiamo dispensare il perdono e la misericordia di Dio agli altri? Noi sacerdoti dobbiamo essere i primi a sentire in noi l'opera del perdono di Dio. Io non devo mai condannare nessuno, devo essere sempre il ministro del perdono"» Mons. J. Magee, segretario di Paolo VI Scrivere un «Ritratto» non significa scrivere una biografia, ma delineare un Volto. Se poi si tratta di un Santo, allora il Volto è quello di un innamorato di Cristo, che si va plasmando nella contemplazione, nell'adorazione e nella carità operosa per la «sua Chiesa» e per l'intera umanità. Ed è anche un Volto che permette a Cristo di rivelare alcuni tratti del Suo stesso volto. Antonio Maria Sicari

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Informazioni

Capitolo III

«Il Timoniere del Concilio»













Eletto Papa (il 21 giugno 1963, festa del Sacro Cuore), la scelta inattesa del nome («Mi chiamerò Paolo») e l’aver voluto fissare la cerimonia dell’incoronazione nel giorno successivo alla festa di san Pietro (tradizionalmente dedicato all’Apostolo delle Genti), mostrarono subito a quale compito egli si sentisse chiamato.
In un appunto personale scrisse:

«Forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definizione dell’amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero»36.

E non erano passate ventiquattr’ore dalla elezione che, in un Messaggio all’intera famiglia umana, il nuovo Papa dichiarava la sua precisa intenzione di continuare e di guidare quel Concilio appena iniziato:

«La parte preminente del nostro Pontificato sarà occupata dalla continuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, al quale sono fissi gli occhi di tutti gli uomini di buona volontà. Questa sarà l’opera principale, per cui intendiamo spendere tutte le energie che il Signore ci ha dato».

E precisava che

«nel realizzare il suo ministero apostolico, l’obiettivo primario sarebbe stato quello di dichiarare in modo ancora più manifesto e con maggiore solennità che la desiderata salvezza possiamo aspettarla soltanto da Gesù Cristo: e che “non c’è alcun altro nome in cielo e in terra da cui possiamo avere salvezza” (At 4, 12)».

Questo amore al mondo, ma «nella convinzione che Cristo è necessario e vero», voleva dire per lui guidare con mano ferma e paterna i Padri conciliari, nella duplice direzione che aveva già intuito: ripensare in maniera nuova e approfondita il mistero e la missione della Chiesa, ma in modo da rendere ancor più splendente e intatta la luce che emana dal volto di Gesù Salvatore.
Ma i grandi progetti seppero subito farsi anche gesti semplici e delicati.
Nel giorno della sua «incoronazione» fece offrire dolci ai bambini degli ospedali di Roma e volle che fosse offerto, a sue spese, un pranzo speciale ai prigionieri di tutte le carceri italiane.
Tre mesi dopo l’elezione riconvocò dunque il Concilio (nonostante la resistenza di alcuni che avrebbero preferito chiudere la «santa» avventura) e tutto il programma dei lavori fu da lui condensato in un solo nome:

«Dobbiamo a noi stessi proclamare, e al mondo che ci circonda annunciare Cristo! Cristo nostro principio, Cristo nostra via e guida, Cristo nostra speranza e nostro termine»37.

Ma annunciò anche l’intenzione di riformare la curia romana, togliendole tutto ciò che la rendeva ancora simile a una corte principesca. In breve verranno aboliti antichi titoli nobiliari, cariche onorifiche, mansioni di rappresentanza, privilegi secolari, costumanze tramandate da tempi lontani, arredamenti sovraccarichi e desueti...
Ci vorrà del tempo, e realizzerà la delicata impresa nel 1968. Da parte sua aveva cominciato subito con l’esempio rinunciando per sempre alla tiara pontificia (la triplice corona d’oro), deponendola sull’altare e destinandone il ricavato ai poveri del terzo mondo.

Sul finire del secondo periodo conciliare, annunciò al mondo la sua intenzione di recarsi in Palestina (per due soli giorni all’inizio del 1964), per tornare alle sorgenti della storia cristiana, per andarvi a ripetere a nome di tutta la Chiesa le parole di Pietro a Gesù: «Sì, Signore, Tu sei il Figlio del Dio vivente!”» e «Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!»38.
Era la prima volta che un Papa tornava nella terra di Gesù.
A Betlemme disse ancora di amare il mondo «con immensa simpatia», aggiungendo: «Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo»39.
Quando a Gerusalemme si trovò sulla Via dolorosa, la folla che vi si era riversata era tanta che Paolo VI si trovò a un tratto solo, separato da tutto il seguito, schiacciato dalla gente, al punto che temettero per la sua vita. Quando la sua scorta riuscì a raggiungerlo nuovamente, disse: «Mi vogliono bene, come a Gesù». E ammise che era stato, sì, preoccupato, ma solo perché «non si sentiva degno di morire nella terra in cui Gesù era stato sepolto».
Sul monte degli Ulivi lo attendeva il patriarca ortodosso Atenagora, e i due si abbracciarono lungamente. Fu il primo vero abbraccio ecumenico dopo molti secoli.
A Nazareth si commosse davanti a un grande cartello con la scritta: «Sia benedetto il Papa degli operai. Sia benedetto il Vicario del Figlio del Falegname».
E prima di lasciare Gerusalemme, l’ultima sua visita fu per un paralitico di 76 anni che abitava in un tugurio, e che si era rammaricato di non averlo potuto vedere.
Ma a lasciare stupiti i cronisti e i commentatori fu il fatto che il Re di Giordania con la sua Rolls Royce e il corteo di automobili delle autorità vollero seguire, sulla pista di decollo, l’areo del Papa che se ne andava, fino a quando non si alzò da terra.
Tra gli inviati del Corriere della sera che lo avevano accompagnato c’erano stati addirittura Dino Buzzati che descrisse così l’avvenimento: «Ore magiche in Galilea: si aspetta qualcosa di mai accaduto in 2000 anni»; ed Eugenio Montale che, alla fine del viaggio, scrisse un editoriale intitolato Terra di Dio, e confessò che quel viaggio gli aveva lasciato un’«impressione di eternità».
Il Papa tornò a Roma dopo solo due giorni, e alla folla che si accalcava sulle strade, dall’aeroporto a piazza San Pietro, disse: «Vi porto il saluto di Betlemme».
Intanto, andava preparando un’ampia e bella Lettera Enciclica sul dialogo che la Chiesa deve saper intrattenere con il mondo. La pubblicò nella festa della Trasfigurazione del 1964.
Leggendola, sembra quasi di vedere la Chiesa che si protende amorevolmente verso gli estremi confini della terra e di vedere il mondo intero che si mette in cammino verso la Chiesa.
Ma già il titolo che le diede («Ecclesiam suam» – «La Chiesa che è Sua», cioè: di Cristo) spiegava il motivo della reciproca attrazione che esiste tra Chiesa e mondo: l’appartenenza al Signore Gesù.
Lui è la vita della Chiesa, ed è per questo che essa ha sempre bisogno di «sentirsi vivere... esperimentando Cristo in sé stessa» (n. 27).
Il Papa presenta così la Chiesa di Cristo al mondo, come «madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza», nella speranza che «ambedue (cioè: l’umana società e la Chiesa) s’incontrino, si conoscano e si amino».
Tutto il duplice movimento aveva una sola sorgente e un solo scopo: l’abbraccio tra Gesù e ogni uomo.
A settembre si aprì il terzo periodo del Concilio e, in chiusura all’ultima sessione, Paolo VI annunciò ai Padri di voler proclamare solennemente Maria Santissima «Madre della Chiesa» (e volle precisare: «Madre amorosissima»). Molti restarono sorpresi, ma tutti si alzarono spontaneamente in piedi ad applaudire.
La solenne cerimonia fu fissata per il 21 novembre 1964. Per l’occasione il Papa aveva fatto anche inviare una rosa d’oro al Santuario di Fatima. E quando si recherà pellegrino in questo santuario, dirà: «Noi vogliamo chiedere a Maria una Chiesa viva, una Chiesa vera, una Chiesa unita, una Chiesa santa!».
E anche questa sua proclamazione di Maria Madre della Chiesa ci sembra idealmente ma strettamente legata al clima famigliare vissuto nell’infanzia, quando già «casa» e «santuario mariano» (mamma e Madonna!) assumevano per lui lo stesso volto.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II intanto continuava a sorprendere il mondo con i suoi accesi dibattiti, le sue inevitabili polarizzazioni.
Ma c’erano anche eventi decisivi: emozionante era stato quello accaduto in coincidenza con l’ultima sessione conciliare: il Papa a Roma e il Patriarca Atenagora a Costantinopoli, in contemporanea, avevano dichiarato «rimossa e cancellata dalla memoria e seppellita nell’oblio» la sentenza di scomunica che le due Chiese si erano reciprocamente scagliate novecento anni prima.
Aprì la quarta sessione conciliare il 14 settembre 1965, ribadendo ancora che il Concilio «era un atto solenne d’amore per l’umanità»:

«Ancora e soprattutto amore, amore agli uomini di oggi, quali sono e dove sono, a tutti».

Il Vaticano II si chiuse l’8 dicembre 1965, festa dell’Immacolata. Il giorno prima, concludendo l’ultima sessione, Paolo VI ricordava che la Chiesa del Concilio si era molto occupata dell’uomo, descrivendolo con grande realismo:

«L’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà [...]. L’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa... E l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo che loda il tempo passato e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via. L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura e ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo»40.

Infine, come ultimo gesto conciliare, Paolo VI volle che quella universale assemblea di vescovi inviasse sette particolari messaggi: ai...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo I. Imparare ad amare
  3. Capitolo II. «Finalmente in mezzo alla gente!»
  4. Capitolo III. «Il Timoniere del Concilio»
  5. Capitolo IV. Paolo VI e il dramma della Chiesa
  6. Capitolo V. «Mio Dio, richiamami a Te!»
  7. Note