Con Dante in esilio
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La poesia e l'arte nei luoghi di prigionia

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La poesia e l'arte nei luoghi di prigionia

Informazioni su questo libro

Con Dante in esilio rende testimonianza di una realtà storica che ha dell'incredibile: nei più terribili luoghi di sofferenza gli internati si sono ripetutamente e con vivissimo impegno rivolti all'arte, ma soprattutto alla poesia e in particolare alla Divina Commedia, autentica luce poetica che ha squarciato il buio di una prigionia asfissiante e che è stata letta con grande accanimento e conforto allo stesso tempo. Oggi, alla vigilia del settimo centenario della morte del Sommo poeta, Nicola Bultrini, poeta italiano tra i più raffinati e colti, ha messo insieme le testimonianze di quanti, italiani e no, letterati famosi (Guareschi o Gadda) o semplici prigionieri, si sono affidati a Dante per non vivere come bruti l'esperienza atroce della reclusione. Ne è scaturito un libro che contestualizza storicamente e materialmente le circostanze della frequentazione con la straordinaria ricchezza della Commedia in un percorso di testimonianze dirette su un testo capace di attualizzarsi qualunque sia l'inferno in cui venga letta.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
eBook ISBN
9788881559909

1

Stalag VII A

 
 
 
 
 
Moosburg è una cittadina che sorge a una cinquantina di chilometri a nordest di Monaco. Durante la Seconda guerra mondiale, alla sua periferia si sviluppava il più grande campo di prigionia della Germania, che arrivò a ospitare più di 80.000 prigionieri: lo Stalag VII A, una vera città. Oggi su quell’area si è sviluppata Moosburg Neustadt, ovvero la «città nuova», una zona residenziale ai margini di un importante comparto industriale. Già all’epoca della guerra vi esistevano industrie pesanti, per lo più dedicate alla produzione bellica, e infatti molti prigionieri venivano utilizzati come manovalanza in altiforni, acciaierie e fabbriche di materiali.
Sono arrivato a Moosburg una domenica pomeriggio di inizio agosto, con il cielo plumbeo, piovoso e silenzioso, come fosse già pieno autunno; la mattina, sotto una pioggia battente, ero stato a visitare Dachau e avevo ancora nella gola tutto l’aspro del mondo, ma andare a Moosburg era un’escursione che dovevo fare, che mi portavo inconsciamente dentro da tanti anni, perché nello Stalag VII A era stato prigioniero, per due anni, anche mio nonno paterno. Lui non vi aveva più fatto ritorno e benché in casa la memoria di quell’esperienza, seppur vaga, sia stata sempre viva, nessuno dei familiari c’era mai stato. All’origine di certi miei interessi, soprattutto della smania di voler conoscere e capire, ci sono sicuramente i brandelli di racconti che raccoglievo nell’infanzia. Due anni sono un tempo lungo, soprattutto se si perde qualsiasi contatto con la propria realtà, la casa, la famiglia, gli affetti. Mio nonno ha vissuto in questa condizione e poi è tornato a casa e ha ripreso una vita normale, ricostruendo la trama di quelle relazioni che fanno la nostra esistenza sociale. Ancora oggi mi sembra inconcepibile una cosa del genere.
Avevo quindi bisogno di rendermi conto direttamente quale fosse quella realtà parallela nella quale aveva vissuto mio nonno segregato dal resto del mondo. Come sopravvivere in tanta solitudine di spazio e di tempo?
Oggi del vecchio campo non rimane quasi più niente: villette a schiera o singole, con i giardini ben curati, sorgono seguendo quelle che erano le direttrici del campo, ovvero una lunga strada diritta ai lati della quale si allineavano due ali infinite di baracche. Alcune ricerche che avevo fatto prima di partire mi hanno consentito di identificare facilmente quelle che erano le baracche delle guardie: edifici lunghi e bassi, apparentemente in disarmo ma che invece hanno ancora oggi una loro funzione; dopo la guerra ospitarono i rifugiati tedeschi provenienti dall’est Europa e oggi sono occupate per lo più da famiglie di turchi.
L’interno degli edifici mantiene comunque la struttura originaria, un lunghissimo e buio corridoio ai lati del quale si aprono monolocali modesti. I bagni sono a parte e ogni porta reca un lucchetto e il nome della famiglia che lo utilizza.
Inutile dire l’emozione commossa che ho provato immaginando che mio nonno potesse aver camminato lì attorno. A un certo punto mi accorsi che i miei figli scherzavano chiassosamente per strada e non dimostravano il minimo interesse per la singolare escursione tra i vecchi caseggiati. Al subitaneo rimprovero, il più grande dei due mi ha semplicemente fatto notare di non aver mai conosciuto mio nonno. La memoria della sua vicenda, ho pensato, si è già persa dopo solo una generazione, ma io sentivo il dovere di riprendere il filo di quel discorso, lasciato come eredità ai suoi successori. Così, nonostante la loro palese indifferenza, è proprio per i miei figli che credo sia importante recuperare quella memoria. A costo di apparire retorico, ribadire la storia, le vicende dell’uomo nella sua cronaca, significa acquisire consapevolezza del proprio passato, individuale e collettivo. Con esso è possibile, se non prevedere o prevenire, per lo meno intuire il divenire, che è pur soggetto a variabili imponderabili, ma che comunque ha radice nella natura umana, immutata nei secoli in tutte le sue pulsioni, nelle sue visioni, nelle energie, nelle debolezze, infine nelle sue aberrazioni.
Dopo tanta pioggia, il cielo a un tratto s’è aperto, lasciando passare qualche raggio di sole umido e freddo. L’escursione sembrava volgere al termine, quando sono tornato nel centro storico della cittadina e ho notato l’indicazione di un piccolo museo di storia locale. Fortunatamente il museo era aperto proprio mentre io ero lì. Il responsabile, cui ho spiegato le ragioni della mia visita, mi ha fatto vedere la sezione più recente della storia locale di Moosburg dedicata al campo di prigionia.
La sala grande al piano terra ospitava un grande plastico che riproduceva nel dettaglio la struttura dello Stalag. Alcune vetrine conservano cimeli e reperti, soprattutto manufatti artigianali dei prigionieri, per lo più russi: un crocifisso di legno e alcune statue della Madonna lavorate a mano, cucchiai di legno intagliati, soldatini stilizzati e un serpente giocattolo, vari piatti decorati e ovviamente gavette, scodelle, cucchiai e pettini di ferro, utensili di uso comune. Tra tutti i manufatti mi ha colpito un enorme pellicano in legno scolpito nell’atto di nutrire i suoi quattro cuccioli: un unico massiccio blocco ligneo, alto quasi un metro, lavorato dal prigioniero italiano Cesare Grones. Per quanto si tratti di oggetti piuttosto comuni, fa comunque un certo effetto sapere che sono stati pensati e realizzati in condizioni di tale sofferenza. Viene da chiedersi perché l’uomo, privato della sua libertà, lontano forse irrimediabilmente da casa, sottoposto a ogni tipo di vessazione e di violenza, non rinunci comunque a nutrire sentimenti di creatività per rappresentare tangibilmente qualcosa di «bello», ovvero che risponda a pur elementari canoni estetici e formali. Sarebbe ovviamente riduttivo credere a un modesto istinto ricreativo, di evasione o di mero intrattenimento.
Proseguendo la visita, il responsabile del museo mi ha mostrato con orgoglio vari raccoglitori che custodiscono foto e soprattutto lettere, brandelli di diari. Gli ho detto allora che anche mio nonno aveva scritto qualche lettera a casa quando era prigioniero; in effetti abbiamo in famiglia ancora tre delle sue lettere e credo non ne abbia scritte comunque di più. Sono scritti commoventi, di amore e di speranza, strappati dal nulla nello spazio angusto dei moduli che le autorità del campo fornivano ai prigionieri e su cui naturalmente infierivano con i graffi a matita della censura. Nelle sue lettere mio nonno assicurava la sua buona salute, tacendo le reali condizioni di vita, ma soprattutto ricorre la raccomandazione a che i suoi figli avessero un’educazione e una istruzione, che studiassero dunque. Perché preoccuparsi della cultura? In tanta miseria e potendo facilmente immaginare le condizioni dell’Italia in quel momento, perché darsi pena perché i figli, la futura generazione, non si «abbandoni a sé stessa», secondo l’espressione usata da mio nonno? Quando ho visitato il sito del campo avevo già finito di scrivere il corpo di questo libro e la risposta quindi mi sembrava quasi ovvia nella sua coerenza di fondo.
È capitato nel corso dei secoli, e capita tuttora, che l’uomo che crede di dominare e gestire gli eventi, perda il controllo della sua storia; la storia allora lo sopravanza e gli riverbera contro tutta la natura primitiva animale che gli appartiene, lo sovrasta della sua stessa brutalità, lo smarrisce nell’abisso turbolento e incontrollato di sé. L’uomo tuttavia tende per istinto alla sopravvivenza, a risalire qualsiasi china e a recuperare il controllo dei suoi gesti e prima dei suoi pensieri. Deve riaffermare qualcosa che lo distingue dall’esser bruto, deve distinguere l’animale e rivendicare la propria umanità. Certamente la prospettiva ultima è il progresso, quello materiale, quello del vivere bene e in pace, ma qualsiasi progresso non può mai prescindere da quello primariamente culturale, ovvero dalla consapevolezza di saper nutrire pensieri e sentimenti tesi al recupero e alla conservazione di un equilibrio. Un equilibrio di valori innanzitutto, che solo consenta di sorreggere la vita della più ampia collettività.
Precipitati nel gorgo della prigionia, della guerra, della violenza, gorgo che tutto confonde e cancella, spezzate le unghie nel grattare il fondo, si comincia dalle piccole cose, dai manufatti poveri di legno e di argilla, dalle lettere che inviano disperata speranza, dall’idea che altrove, in un altro luogo, magari in un altro tempo, quello futuro di chi verrà, si riaffermi la cultura dei popoli, la loro capacità di nutrire visioni e attraverso tali visioni di costruire un mondo nuovo. Ogni volta è stato così, durante la decadenza degli imperi dell’antichità, durante il medioevo, durante le guerre del Secolo breve.
Al termine della visita al museo il mio anfitrione si è offerto di accompagnarmi di nuovo sul sito dove sorgeva il campo. Tra gli eleganti villini privati, immersa tra i cespugli, sorge l’ultima baracca dei prigionieri, rimasta così come era settant’anni fa. È un edificio fatiscente, proprietà del Comune locale, che vorrebbe ristrutturarlo e conservarlo, ma non si sa da che parte cominciare tanto è pericolante. Ci si può appena affacciare dalla porta e dare una sbirciata all’interno. Entrare non si può, è davvero pericoloso. Il pavimento ha le assi di legno gonfie e sconnesse e il tetto è pericolosamente abbassato se non proprio sfondato. Un paio di foto con il flash illuminano la penombra del locale enorme e vuoto. Qui, proprio qui, vivevano i prigionieri, e in uno di questi edifici anche mio nonno ha trascorso ben due anni, conoscendo quell’ambiente oggi a mala pena conservato. È difficile immaginare la vita di quegli uomini in questo ambiente. Il silenzio quando il sole si abbassa presto sulla pianura tedesca, il freddo umido contrastato da povere stufe a legna, la fame e soprattutto la solitudine, pur in tanta moltitudine di uomini reclusi. La solitudine che è data dalla distanza nel tempo e dalla crudele percezione dell’imponderabile, del destino inafferrabile. Eppure, è sempre in questi ambienti che gli uomini hanno ricominciato dalle piccole cose, dai lavori artigianali, dalle lettere a casa, dalle letture rubate alla luce di misere candele o spoglie e rare lampadine.
Mi son venute allora in mente tutte le considerazioni che ho fatto scrivendo questo libro, le informazioni che ho raccolto dal mio accompagnatore, se anche in questo campo si leggevano libri, se si animavano iniziative culturali di qualche tipo. Lui mi ha sorriso entusiasta e mi ha risposto «ma certo, c’era anche l’università!».

2

«Barbed wire»

 
 
 
 
 
Il 1874 non è un anno di particolare rilievo per la storia degli Stati Uniti. Si registra una terribile invasione di cavallette che ha flagellato le grandi pianure del nord del Texas e la scoperta dell’oro, che ha portato una moltitudine di cercatori nel Dakota.
Ma soprattutto è l’anno in cui J.F. Glidden ottiene il brevetto per un’invenzione destinata a incidere profondamente nell’avvenire dell’uomo. L’invenzione è di una semplicità sconcertante: si tratta di due fili di ferro e di una serie di spine, realizzate con pezzi di filo di ferro ritorto e tagliato obliquamente alle due estremità. Niente di più e niente di meno. In poche parole, il filo spinato, barbed wire.
Facile da produrre, economico e semplicissimo da installare, il filo spinato si rivelò subito come la recinzione perfetta per i campi dei coloni che invadevano le grandi pianure a ovest del Mississippi. La lottizzazione delle vaste terre indiane necessitava di un mezzo efficace anche per contenere gli spostamenti delle grandi mandrie di bestiame ma finì per circoscrivere sempre di più i liberi territori dei nativi d’America. I primi conflitti moderni, fin dalla Guerra di Secessione ma soprattutto la Prima guerra mondiale, videro il filo spinato indiscusso protagonista dell’atroce guerra di trincea. I grovigli di reticolati erano la difesa passiva per eccellenza: ne bastavano poche decine di metri per inchiodare al terreno migliaia di uomini all’assalto, sui quali poi le mitragliatrici e le artiglierie facevano il resto, ovvero letteralmente «carne da macello». Tuttavia è con la Seconda guerra mondiale che il filo spinato assunse un ruolo ancor più sinistro e letale: non c’erano più, o quasi, trincee da difendere, ma masse d’uomini inermi da costringere, e invero l’elemento principale della costruzione di un campo di concentramento era proprio il recinto di filo spinato.
I campi non erano realizzati per durare, la loro provvisorietà e furtività erano tutt’uno con la loro intrinseca funzione distruttrice. Dovevano esistere, ma al tempo stesso, non essere. Dunque, dovevano venire realizzati con materiali che si appoggiavano alla terra quanto bastava per svolgere la loro funzione. Non dovevano fondare nulla, né lasciare traccia nella memoria. Il filo spinato, leggero come l’aria, quasi invisibile, eppure tanto concretamente micidiale, era l’espressione perfetta dell’efficacia annientatrice del Lager. Nella sua eterea e feroce consistenza si riassumeva il cinismo crudele e assoluto di una visione del mondo estrema e mortale. Le mura di una città trasmettono senso di sicurezza, servono per proteggere gli abitanti dal pericolo esterno; il filo spinato di un campo di concentramento invece racchiude un ambiente di potere assoluto, costringe i suoi abitanti a sottomettersi all’arbitrio altrui, precludendo qualsiasi possibilità di fuga. La porta del Lager è una cerniera fra i due mondi, quello della ragione e della libertà, e quello della violenza e della schiavitù.
Così il filo spinato organizza lo spazio e innanzitutto distingue nettamente due dimensioni e classifica gli individui a seconda che siano «dentro» o «fuori». Ma il filo spinato in dinamiche concentriche, può anche distinguere i diversi gironi dell’inferno del Lager.
Dalle praterie del Far West alla terra di nessuno della Grande guerra ai Lager nazisti, il filo spinato è divenuto metafora della violenza politica e della notte della ragione, ma icona ancestrale può essere anche quella della sofferenza del Cristo, che nella Passione aveva il capo, quindi il pensiero, cinto di una corona di spine che, nell’immagine e nell’effetto, non può che rimandare immediatamente a un reticolato della storia.
La forza simbolica del filo spinato è indiscussa, proprio nel suo essere essenzialmente, e allo stesso tempo, dispositivo di esclusione o di inclusione; valenza che conserva anche oggi, non solo nei moderni campi di concentramento – si pensi a quelli serbi durante la guerra nella ex-Jugoslavia –; il filo spinato sovrasta anche la frontiera tra Stati Uniti e Messico, come pure ha diviso l’Europa per tanto tempo in cima al muro di Berlino. Centottanta chilometri di filo spinato tagliano a metà Cipro. I territori palestinesi sono separati da Israele esattamente allo stesso modo e così pure i campi dei rifugiati in Kosovo o in Uganda.
Eppure, ancora oggi, se pensiamo a tutti questi utilizzi del filo spinato non possiamo non avere chiaro nello sguardo la recinzione alta e lugubre dei campi di concentramento nazisti della Seconda guerra mondiale. È un simbolo impresso nella mente e del resto, nessun altro luogo del ’900 ha un posto così assoluto e definitivo nell’iconografia della storia.

3

L’idea concentrazionaria

In realtà l’idea concentrazionaria non era nuova. Un campo di concentramento è essenzialmente una struttura carceraria all’aperto per la detenzione di civili e/o militari, in genere di carattere provvisorio e destinata a contenere grandi quantità di persone. Già nella seconda metà del XIX secolo, durante la Guerra di Secessione americana, sia l’esercito sudista che quello nordista, realizzarono campi di internamento per i prigionieri di guerra. Inizialmente furono utilizzati alcuni forti, prima destinati ai criminali civili, ma il numero crescente di prigionieri suggerì di ammassarli in appezzamenti di terreno circondati da palizzate. Le condizioni di vita degli internati erano tanto misere che in migliaia morirono di stenti, di malattia o uccisi durante i disperati tentativi di fuga. Si noti che fino al 1929, quando fu firmata la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, non esisteva alcuna norma internazionale che minimamente disciplinasse il fenomeno.
Fin dall’inizio del secolo XX si ebbe invece un’applicazione sistematica e organizzata, in certo senso moderna, dei campi di concentramento. Durante la Guerra boera del 1899-1902 l’esercito inglese deportò in vari campi di concentramento gli abitanti delle fattorie che rifornivano i soldati boeri, e in essi persero la vita non meno di 26.000 donne e bambini. Nel 1917 in Russia durante la rivoluzione tutti i «nemici di classe» dovevano essere trattati alla stregua di criminali, pur in assenza di prove di crimine; furono così ripristinate e ampliate le strutture di detenzione, organizzate nel sistema dei Gulag, teso a ospitare dissidenti, nemici del regime e persone politicamente «non affidabili».
Anche durante la Prima guerra mondiale i paesi belligeranti fecero uso del medesimo sistema di internamento. Si rammenti peraltro che i prigionieri fatti durante le tante offensive militari erano un numero esorbitante per qualsiasi struttura convenzionale. La sola Rotta di Caporetto consegnò nelle mani degli austro-ungarici 300.000 prigionieri italiani, che furono deportati nei campi. Analogamente, i prigionieri austro-ungarici erano deportati nei campi sparsi su tutta la nostra penisola.
I prigionieri italiani nei campi di concentramento durante la Grande guerra ebbero un trattamento terribile, anche per responsabilità dei Comandi italiani, che non volevano assecondare quelle che si ostinavano a considerare diserzioni, e che quindi non favorivano gli invii di aiuti dalla nazione verso i campi, con la conseguenza che i prigionieri, soprattutto la truppa dato che gli ufficiali avevano ben altro trattamento, subirono privazioni spesso insostenibili e mortali. Nell’ultimo anno di guerra i prigionieri italiani in terra straniera erano circa 600.000 di cui ben 100.000 morirono di stenti e di malattia. Tra i vari campi utilizzati dall’impero austro-ungarico c’era quello di Mauthausen, che divenne poi ancor più tristemente noto durante la Seconda guerra mondiale, quando fu ristrutturato e riorganizzato e divenne uno dei più infernali Lager nazisti. Durante la guerra di riconquista della Libia del 1922-1932 il governo fascista deportò oltre 80.000 seminomadi in campi situati lungo la costa della Sirte, dove a causa delle terribili condizioni di vita, ne morì più della metà.
Ancora durante la Seconda guerra mondiale, entrambe le fazioni si avvalsero di campi di prigionia per i militari catturati. In territorio italiano e jugoslavo furono istituiti numerosi campi di concentramento, di confino e di lavoro forzato. Negli Stati Uniti, nel 1942, dopo l’attacco a Pearl Harbor, il presidente Roosvelt autorizzò l’internamento nei campi di tutti gli individui di origine giapponese residenti nelle zone militari del Pacifico. 117.000 persone furono quindi internate, a prescindere dalla loro cittadinanza. In Italia si registra inoltre il fenomeno dei campi sorti o comunque implementati dopo l’8 settembre e poi subito dopo la liberazione. Lungo tutta la penisola sorsero internamenti che dovevano ospitare ex repubblichini o comunque militari che avevano seguito fino all’ultimo le truppe fasciste affiancate a quelle germaniche sul territorio nazionale. Tali campi furono gestiti dalle forze alleate e dalle brigate dei partigiani. Anche in tali casi la situazione dei prigionieri era molto dura e si registrarono spesso casi di soprusi, maltrattamenti e violenze.
Dopo la guerra il fenomeno concentrazionario non è certo diminuito: abbiamo nominato i campi di concentramento realizzati durante la guerra nell’ex-Jugoslavia, in cui si è consumata una atroce e reale pulizia etnica. Ancor più comples...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione, di Andrea Monda
  2. 1. Stalag VII A
  3. 2. «Barbed wire»
  4. 3. L’idea concentrazionaria
  5. 4. Il mondo di sanguigno
  6. 5. Giornale di prigionia
  7. 6. «Arbeit macht frei»
  8. 7. Il regno dell’indicibile
  9. 8. La buona vita
  10. 9. Arte del tempo
  11. 10. La presenza del mondo
  12. 11. Super Ikonta Zeiss 6x9
  13. 12. In forma di diario
  14. 13. Il grado zero
  15. 14. «Lecturæ Dantis»
  16. 15. «Confessio vitæ»
  17. 16. Tema dell’esilio
  18. 17. Va’ pensiero
  19. 18. Tradurre la realtà
  20. 19. Per un’etica individuale
  21. 20. Il folle volo
  22. 21. «Ihr Intelligenten!»
  23. 22. Osnabrück
  24. 23. La sequenza delle nuvole
  25. 24. «Entartete Kunst»
  26. 25. Foto di gruppo
  27. Indice