L'avventura
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L'avventura

Giorgio Agamben

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  1. 80 pagine
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L'avventura

Giorgio Agamben

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Ogni uomo si trova preso nell'avventura, ogni uomo ha, per questo, a che fare con Demone, Eros, Necessità e Speranza. Essi sono i volti – o le maschere – che l'avventura ogni volta gli presenta.

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Informazioni

Editore
nottetempo
Anno
2020
ISBN
9788874528479

1. Demone

Chi può confidare, nell’ascesa verso l’etere, di saper padroneggiare il tiro a cinque Daimon, Tyche, Eros, Ananche, Elpis?
Aby Warburg
Nei Saturnali di Macrobio, uno dei personaggi che partecipano al convito attribuisce agli Egiziani la credenza che alla nascita di ogni uomo presiedano quattro divinità: Daimon, Tyche, Eros, Ananche (il Demone, la Sorte, l’Amore e la Necessità). “Gli Egiziani legano il significato del caduceo alla generazione degli uomini, che si chiama genesis, ricordando che quattro dèi assistono come garanti alla nascita di un uomo: il Demone, la Sorte, l’Amore e la Necessità. Credono che i primi due siano il sole e la luna, perché il sole, da cui provengono lo spirito, il calore e la luce, è genitore e custode della vita umana, e per questo è ritenuto Daimon, cioè dio, del nascente, mentre Tyche è la luna, perché questa è preposta ai corpi che sono soggetti ai cambiamenti fortuiti. L’Amore è simboleggiato dal bacio, la Necessità da un nodo” (Sat. 1,19).
La vita di ogni uomo deve pagare il suo tributo a queste quattro divinità, senza cercare di eluderle o di imbrogliarle. A Daimon, perché deve a lui il proprio carattere e la propria natura; a Eros, perché da lui dipendono fecondità e conoscenza; a Tyche e ad Ananche, perché l’arte di vivere consiste anche nel piegarsi nella giusta misura a ciò a cui non si può in nessun caso sfuggire. Il modo in cui ciascuno si tiene in rapporto con queste potenze definisce la sua etica.
Nel 1817, Goethe s’imbatté per caso nel passo di Macrobio mentre leggeva lo studio di un filologo danese, Georg Zoëga, su Tyche e Nemesis. Nell’ottobre dello stesso anno, egli compone gli Urworte, le “Parole originarie”, in cui, riflettendo sulla sua vita – ha ormai sessantotto anni –, cerca di pagare a suo modo il proprio debito alle divinità di Macrobio, alle quali aggiunge come quinta Elpis, la Speranza. Nulla piú di queste cinque strofette “orfiche” (Urworte. Orphisch è il titolo completo) e dei brevi commenti in prosa che le accompagnano tradisce la superstizione cui Goethe ha consacrato la sua vita: il culto del demone. Qualche anno prima, in un celebre passo di Poesia e verità, egli aveva già descritto la sua ambigua relazione con questa potenza inconcepibile: “Egli credette di scoprire nella natura, vivente e morta, animata e inanimata, qualcosa che si manifestava solo in contraddizioni e non poteva essere colto in nessun concetto, e tanto meno in una parola. Non era divino, perché pareva irrazionale; non era umano, poiché era privo di intelligenza; non era diabolico, poiché era benefico; non era angelico, perché rivelava spesso qualcosa di maligno. Somigliava al caso, poiché non mostrava nessuna coerenza; somigliava alla provvidenza, perché alludeva a una connessione. Tutto ciò che ci limita sembrava per esso penetrabile; pareva governare a suo arbitrio gli elementi necessari della nostra esistenza; abbreviava il tempo e ampliava lo spazio. Pareva compiacersi solo dell’impossibile e respingere da sé il possibile con disprezzo. A questo essere, che sembrava mescolarsi a tutti gli altri, diedi il nome di demonico, secondo l’esempio degli antichi e di quelli che avevano avvertito qualcosa di simile. Cercai di salvarmi da questo essere temibile”.
Una lettura appena un po’ attenta delle Parole mostra che la devozione, che nell’autobiografia era espressa con qualche riserva, qui viene organizzata in una sorta di Credo, in cui confluiscono astrologia e scienza. Poiché ciò che per il poeta era in questione nel demone, era il tentativo di costruire come un destino il nesso fra la sua vita e la sua opera. Il Daimon che apre l’elenco non è piú, infatti, un essere inconcepibile e contraddittorio, ma, come testimonia l’inserzione delle strofe nel contesto degli scritti sulla Metamorfosi delle piante, esso è diventato una potenza cosmica e una sorta di legge di natura:
Come nel giorno che al mondo ti ha prestato
il sole stava al saluto dei pianeti,
cosí subito avanti hai proceduto
seguendo la legge, secondo cui eri apparso.
Cosí devi essere, non puoi sfuggire,
cosí dissero Sibille e profeti.
Non vi è tempo né potere che spezzi
forma plasmata che vivendo evolve.
“Il demone,” aggiunge con forza il commento in prosa, “significa l’individualità necessaria e limitata, espressa immediatamente al momento della nascita […], la forza innata e la proprietà che determina piú di ogni altra cosa il destino dell’uomo”. E come, nell’autobiografia, il caso non era che un aspetto del demonico, cosí ora la parola orfica che segue – Tyche, il Fortuito (das Zufällige) – è solo l’elemento mutevole che, soprattutto nei giovani, accompagna e distrae “con le sue inclinazioni e i suoi giochi” il demone che riesce ogni volta a conservarsi attraverso di essi. Stringendo insieme in un destino personale il demone e il caso, Goethe ha dato espressione alla sua credenza piú segreta.
Piú complicata è la resa dei conti con Eros. Poiché, rispetto a questo terzo nume, Goethe non poteva certamente ignorare di essere rimasto inadempiente. L’“indecisione erotica” e l’“omissione”, che Benjamin gli rimprovera nell’articolo per l’Enciclopedia Sovietica e nel saggio sulle Affinità elettive, erano, in realtà, la rinuncia a condurre fino in fondo una relazione amorosa. È significativo che la sola relazione che egli non abbia interrotto sia stata quella con Christiane Vulpius, l’operaia in una fabbrica di fiori artificiali da cui ebbe un figlio e che dopo quindici anni decise di sposare, proprio perché l’incolmabile differenza sociale che li separava gli impediva di vedere nel matrimonio altro che un risarcimento dovuto alla madre del suo unico figlio. Non stupisce, pertanto, che Eros appaia nelle Parole orfiche in una luce decisamente sfavorevole. Poiché, nell’amore – cosí spiega il commento in prosa – il demone individuale si lascia irretire dalla “Tyche tentatrice” e, “mentre sembra obbedire solo a se stesso e lasciar campo libero alla sua volontà,” in realtà si sottomette a “casualità ed elementi estranei che lo allontanano dalla sua via: crede di prendere, e in verità si imprigiona; crede di vincere e invece è sconfitto”.
Nell’ultima, cupa divinità di Macrobio, Ananche, la Necessità, Goethe non vede altro che il potere che, contro le deviazioni di Tyche e di Eros, riannoda piú strettamente il legame destinale fra il singolo e il suo demone. Essa nomina, in questo senso, la stessa forza astrale della “legge” (Gesetz) che già definiva il demone nella prima strofa:
Ora è di nuovo, come vollero le stelle:
condizione e legge; ogni volontà
è solo volere perché cosí dovevamo,
e di fronte al volere, l’arbitrio tace;
la cosa piú amata viene scacciata dal cuore,
al duro “devo” si piegano volontà e capriccio.
Cosí noi siamo dopo molti anni liberi da parvenze
solo piú stretti dove eravamo all’inizio.
Nelle Parole orfiche Goethe ha di fatto pagato il suo tributo a una sola divinità: il Daimon. Questa scelta chiarisce anche la s...

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