Abbecedario della differenza
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Abbecedario della differenza

Omaggio ad Alice Ceresa

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Abbecedario della differenza

Omaggio ad Alice Ceresa

Informazioni su questo libro

L'Abbecedario della differenza nasce dalla volontà di ricordare e rinnovare l'impegno di Alice Ceresa nello scardinare parola per parola l'"ineguaglianza tra le ineguaglianze, quella fra uomini e donne".Filosofi, filosofe, scrittrici, scrittori, poeti e poetesse hanno contribuito alla redazione libera dei lemmi che compongono questa appendice del Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile, nel quale si trovano anche due voci inedite della Ceresa stessa, Deserto e Prossimo.Questo testo, insieme con la nuova edizione del dizionario, contribuisce a dare nuova energia all'opera e all'impegno di una pensatrice chiave del '900 italiano, vicina ad altre grandi scrittrici come Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Paola Masino, Alba de Céspedes, Natalia Ginzburg.

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Informazioni

Abbecedario della differenza

Anima si veda alla voce Dio di Rosetta Stella

Animale – Animali di Eleonora Adorni

Animale non deriva da anima in quanto, come si è visto, l’unico animale dotato di anima è quello umano, oggi in ambedue i sessi”, scrive Alice Ceresa alla voce Animali (esseri) del suo Piccolo dizionario, esperimento lucidissimo di andare alla “radice di [questo] albero dell’inuguaglianza”, ovvero quei termini minimi – e umani – da cui esso è composto, le parole, e di farlo con irriverente sarcasmo, smentendo la diceria che vuole le femministe poco (auto)ironiche. Nella frase di Ceresa troviamo condensato un mondo, il mondo. Nello specifico, il modo tramite il quale le parole divengono atti linguistici d’inaudita violenza per opera del gesto atavico di sancire un dentro e un fuori, chi possiede e chi no. Scandire, fraseggiare, incatenare vocaboli significa (anche) materializzare e riprodurre un sistema patriarcale che di quelle parole è stato minuto cesellatore.
“Un cane,” scrive ancora Ceresa alla voce Anima, “pur essendo mosso dal principio attivo della vita, può far a meno del principio immateriale della stessa e pertanto non disporre di un’anima, cosí come non ne dispongono vermi, amebe, piante. Se ne deduce pertanto che l’anima è un organismo non soltanto invisibile, inodore, asonoro, impalpabile e insipido ma anche razzista”.
A discapito dell’etimo stesso della parola animale, che significa “dotato di mente o di spirito (animus)” – come ebbe giustamente da ribadire il filosofo Gregory Bateson in una delle sue opere maggiori, Mente e natura (1980), volta a riunire in un’unità necessaria l’intero vivente – la roccaforte della Storia ha lasciato fuori dai suoi muri di cinta gli animali non umani, mera materia mossa da istinti ferini e dalle forze indomabili della natura, e le donne, gli animali femminili, luoghi simbolici delle isteriche e delle streghe a cui solo di recente – “da oggi”, scrive Ceresa – è stato concesso di avere spirito.
Un destino comune quello che è toccato in sorte a questi corpi senz’anima, (s)oggetti di una svalutazione ontologica che ha attraversato le culture e le epoche storiche e che è stata caratterizzata da prevaricazione materiale, simbolica e lessicale. “Referenti assenti” li definisce Carol J. Adams (Adams 1990, cfr. anche Kemmerer 2011), attivista e filosofa ecofemminista americana, “corpi consumabili” (ibid.) resi per l’appunto assenti dal linguaggio e da una costante prassi di oggettivazione che li ha obnubilati dal palcoscenico della soggettività. Come gli animali in vita sono i referenti assenti della carne che troviamo al supermercato, cosí le donne sono state i bersagli verso cui elaborare un linguaggio metaforico che le ha svalutate e posizionate ai piani bassi della gerarchia dei significati, che le ha completamente allontanate dal loro senso originale anche attraverso l’uso della metafora bestiale.
“Che oca quella donna!” potremmo, infatti, sentir dire per indicare un soggetto femminile ritenuto frivolo e un po’ vanesio e per qualche ignota ragione assimilato a un incolpevole pennuto. Metafora che rappresenta una struttura che connette, che accomuna donne e animali nel medesimo girone della res, della cosa, e che può esser per di piú riproposta da una donna stessa a testimonianza di quanto siano persuasive e naturalizzate le forme egemoniche del linguaggio che servono a distanziare l’Altro, a denigrarlo, in fondo a mangiarlo; talmente introiettate nel nostro habitus da sembrare naturali e neutrali, da non farci comprendere che quell’Altro siamo noi. In questo modo il sistema androcentrico ha plasmato il linguaggio a propria immagine e somiglianza, l’uomo a rappresentanza della razionalità, del pater familias, la sede del rigore e del controllo, mentre alle donne e agli animali non rimane che a disposizione il campo delle esperienze corporee (la materialità), dell’emotività e dell’irrazionalità.
La parola anima oltre che razzista, per proseguire il discorso di Ceresa, ci appare allora anche specista nei confronti degli altri animali. È autoevidente che se per anima intendiamo emozioni e sentimenti (l’animus, lo spirito) tutti gli animali (umani e non) la possiedono nella misura in cui soffrono, gioiscono e amano. A noi però non serve constatare tale certezza, ma osservare ciò che resta dalla messa in arresto che del linguaggio e delle sue categorie ha fatto Alice Ceresa. Che cosa resta da dire, da poter dire, dopo questo smantellamento? Un indirizzo possibile potrebbe essere quello di tentare di soverchiare ogni dualismo alla ricerca di vocaboli che, nel non operare l’errore opposto e peccare di ginocentrismo, riconoscano nella comune corporeità di animali e nella vita emotiva e relazionale la base di partenza per ridefinire nuovi modi di stare al mondo quanto piú egualitari e rispettosi possibile di ogni forma vivente. Sarà sorprendente esprimersi con questi linguaggi inediti e per ora indicibili.

Apparenza di Maria Teresa Grillo

Il patriarcato schiaccia il femminile sulla sua dimensione fenomenica, in un’estetica che riflette di volta in volta le differenti proiezioni operate sul corpo della donna, veicolo e incarnazione dello sguardo maschile. D’altro canto, però, l’apparenza è spesso svilita dallo stesso pensiero patriarcale, che le oppone come piú vero e ipso facto piú buono ciò che essa occulta, l’essenziale. In questo gioco/giogo del mostrare/mostrarsi che è un essere mostrata e guardata, Alice Ceresa punta dritto all’assurdità che ne costituisce la base: l’apparenza, essendo solo il modo esteriore di apparire, non significa nulla. Malgrado, appunto, le apparenze.

Archivio di Annetta Ganzoni

A partire dagli anni sessanta, con la messa a fuoco della ricerca rivolta ai procedimenti creativi, si è sviluppata anche la raison d’être di archivi di scrittrici del Novecento. La documentazione materiale del processo scrittorio coinvolge i testi con le loro varianti come i paratesti, la biografia e il contesto culturale.
Dal 2003 il lascito letterario di Alice Ceresa viene custodito a Berna, nell’Archivio svizzero di letteratura presso la Biblioteca nazionale: appunti, manoscritti e dattiloscritti delle opere pubblicate e inedite, lettere, diari, recensioni e interviste, fotografie, libri, penne e occhiali, alcuni documenti audiovisivi (recapiti sul sito www.nb.admin.ch/asl, l’inventario: http://ead.nb.admin.ch/html/ceresa.html).
Come Alice Ceresa scrive a Elio Vittorini nel 1964, sin dal suo esordio non aveva intenzione di pubblicare tanto: “Io non scriverò molti libri, perché quando avrò detto quello che ho da dire, tacerò”. Trent’anni dopo, nella rivista Tuttestorie, l’autrice commenta: “Scrivo da sempre, ho pubblicato poco. L’unico argomento che mi interessa nello scrivere è la questione femminile: ma non ho ancora capito se questo sia un bene o un male, poiché investe anche il mio rapporto contrastato con la letteratura” (Ceresa 1994, p. 38). Nel suo fondo d’archivio tra l’altro si trovano materiali avantestuali dei lavori incompiuti: ruotando tutta l’opera intorno a una stessa questione, la scrittrice riprese in mano certi materiali prestabiliti in un modo per farli confluire in altri contesti. In margine a Sabina e il fantasma (Ceresa 1952), per esempio, una nota redazionale dice: “Pagine iniziali di un romanzo inedito: Il ratto delle Sabine”. Questo romanzo non è mai stato pubblicato, ma tra le carte dell’autrice si trovano le tracce di scrittura e riscrittura, di un pezzo teatrale, di una fiaba, e finalmente di una prosa narrativa di stampo tradizionale. Quando nel 1976 Ceresa riteneva il romanzo un genere di scrittura non adatto per le donne, forse in quest’idea esprimeva proprio la sua insoddisfazione per l’esperienza delle Sabine.
Il Piccolo dizionario è l’unico libro tratto dai materiali inediti ceresiani. Secondo una datazione attendibile, Ceresa avrebbe lavorato a quest’opera a partire dai primi anni settanta e ne aveva pubblicato singole voci, alcune anche in traduzione francese e tedesca. Stefano Stoja in un recente contributo (2016) a partire da una lettera di Giorgio Manganelli, ai tempi collaboratore editoriale di Einaudi, abbozza i vari tentativi di Ceresa per trovare un editore per il suo primo libro. Prendendo in considerazione sia i giudizi positivi di diversi editori sulle sue capacità scrittorie sia la loro paura di proporre una lettura altrettanto difficoltosa, Ceresa ripetutamente aveva promesso che i libri seguenti sarebbero stati diversi. Sempre a Vittorini scriveva nel 1964: “Il secondo libro, che oggi ho in corso, sarà molto piú facile del primo e sono sicura che potrà validamente sostenerlo; ne sarà però in qualche modo una continuazione, per cui non potrò fare a meno del primo”.
Mentre stava lavorando alla sua recensione de La figlia prodiga per Strumenti critici, Maria Corti, incuriosita dallo stile, chiese alcune spiegazioni alla scrittrice: “Il suo stile, a chi lo osserva oggettivamente, rappresenta un netto ritorno alle posizioni retoriche della nostra tradizione passata. È questa proposta di tipo arcaico che mi sorprende” (lettera del 3/04/1967). Da questo stile, definito “trattatistico”, parte il collegamento di Stoja tra i lavori di Ceresa e di Manganelli: “Essi erano due scrittori di potenzialità espressive diverse, ma che limitatamente a questi anni condivisero […] la loro idea e prassi di scrittura”. Questa tesi viene affermata non solo dalle opere ma anche da vari scritti di Manganelli dedicati alla concezione stessa della letteratura che stava maturando in quegli anni e che, tra l’altro, ha abbozzato anche nella sua recensione a La figlia prodiga su Il Giorno del 26/04/1967. Come emerge dal suo saggio Jung e la letteratura (Manganelli 1973), anche Manganelli riteneva di scarso interesse il romanzo e considerava la lingua letteraria come lingua artificiale: “Tutti i personaggi della letteratura sono morti da sempre, come è morta da sempre la lingua che lo scrittore adopera […]. Lo scrittore scrive costantemente ed esclusivamente in una lingua morta […], una lingua che non è né parlata né parlabile, che può essere una lingua del passato, una lingua che impasta vari passati, o lingua che impasta passati e futuri”.
Com’è noto, Alice Ceresa considerava il Piccolo dizionario un testo letterario. Nonostante le sue previe promesse, di nuovo dunque Ceresa scriveva un testo trattatistico che non era per niente narrativo e non aveva né trama né intreccio, scegliendo di esprimersi in una lingua “morta” e non “parlabile”. Per ragioni soltanto ipotizzabili la stessa scrittrice quindi non l’ha concluso e non l’ha dato alla stampa. Visto da questo punto di vista stilistico, nel complesso della sua opera omnia il “dizionarietto” può essere considerato non solo come libro a sé stante, ma come tappa importante nel lungo e travagliato percorso di ricerca espressiva e di creazione letteraria di Alice Ceresa.

Bellezza di Laura Marzi

Ceresa si domanda se “aumentando la domanda di bellezza maschile” potrebbero nascere “imbarazzi specie in seno alle coppie, regolari o meno”. La scelta che fa della parola “imbarazzo” come conseguenza della bellezza è particolarmente adeguata. È imbarazzante, per la donna che ha lottato per non essere identificata con il proprio corpo, scoprire quanto la perfezione del viso altrui possa essere totalizzante: tanto da trasformarsi da bene effimero in bisogno esistenziale. Una vita intera trascorsa a imparare la secondarietà dell’aspetto fisico per poi campare nella nostalgia inconsolabile della bellezza dell’Altr*.
Poi, l’imbarazzo dell’uomo che ricevendo complimenti per la sua avvenenza si schernisce: istintivamente si ribella al rischio che il suo aspetto possa occultare la sua natura, vanificare gli sforzi che anch’egli fa per mantenere insieme la sua complessità, il suo dramma personale e il desiderio di essere amato anche lui solo e cosí banalmente per “quello che ha dentro”.
Imbarazzante, infine, parlare della bellezza, perché lo si può fare solo mentendo. Altrimenti, sembra di spifferare al ladro dov’è il nascondiglio della cassaforte, come se, al di là della morte, ci fosse davvero altro scampo al saccheggio del tempo invasore.

Coscienza di Alessandra Pigliaru

Elemento immateriale e incollocabile in un’origine, la coscienza secondo Ceresa è, per questa ragione, affine all’anima. Sia la prima che la seconda attengono però alla vita seppure in due modi diversi. Mentre della coscienza si può fare a meno pur continuando a stare in vita, senza anima non si è piú vivi. Almeno nella misura in cui si consideri l’anima principio vitale, “forza attiva” che determina la stessa vita umana. La coscienza invece pone punti piú complessi da dirimere. Se l’anima non è infatti divisibile né frantumabile, la coscienza invece sí. Può stare cioè al cospetto di un poco che le è sufficiente. Sinuosa, sottile e priva (apparentemente) di corporeità può albergare nell’umano ma si rende visibile solo quando quell’involucro che è il corpo è presente a se stesso. Quindi sano, con la contezza dei propri sensi in allerta. C’è dunque una prontezza come elastica – della coscienza come dei sensi tutti – che corrisponde piú a un esito, una realizzazione di interezza. O di mobilità – per esempio durante il sonno – ma pur sempre nella condizione privilegiata dell’ordinario e quotidiano risveglio. Ecco perché si dice del risveglio della coscienza, poiché è la consapevolezza di stare a se stessi non come l’Io puntiforme ma come un ricettacolo sia materiale che simbolico che passa dal piano teoretico a quello spirituale per avere ricadute politiche, etiche e morali. Nella storia del pensiero filosofico occidentale ampio spazio è stato dato al tema della coscienza ma sempre come qualcosa in itinere, mai dunque come un risultato, piuttosto come un tragitto. Capace di contrarsi, come un muscolo che per alcuni sta in particolare nel cervello mentre in altre tradizioni sta all’altezza del cuore – piú vicina dunque al soffio dell’anima –, è minuscola, quindi minima in quegli stati di mezzo durante o dopo un coma, per esempio. Oppure in quegli stati di alterazione, sotto l’effetto di sostanze esterne che giocano a dislocarla. Fino ad arrivare alla presa di coscienza che si riflette in autocoscienza. In questo il femminismo ha dato modo di convocare una pratica che nomina la coscienza nel suo carattere relazionale.
“Acquattata all’interno degli esseri umani”, scrive Ceresa, e non in altri viventi visto che, al pari dell’anima, emerge la sua grana ontologica squisitamente antropomorfa, il suo legame, racconta poi la scrittrice, è con la voce. E se questa altezza viene introdotta subito dopo il carattere morale che da quella parola deriva con la liceità di contravvenire alle norme e alle leggi quando esse risultino impossibili da seguire, ciò che è fondamentale è la mancanza di accordo, quando cioè qualcosa stride in sé, quando la sua voce non torna nel ritmo che si vorrebbe abitare. La dote intrinseca della coscienza è l’adesione a se stessi, se è legge è quella di Antigone contro il potere. Se è norma, è quella della disobbedienza, della decostruzione del già detto. Il fatto che venga descritta come “fisicamente difforme e spiritualmente imbeccata” dimostra che può esserci coscienza di classe, come per imprese collettive, e coscienza di sé, come negli apprendistati soggettivi. In ogni caso non verrà a molestarsi l’anima se nella storia delle rappresentazioni la coscienza ha dotato la vita della sua grande scommessa: essere un’anomalia.

Cultura di Gianna Mazzini

Me lo ricordo bene quanto mi piaceva il modo di spiegare le cose della mia maestra. Mi ricordo anche, qua e là, le cose che diceva, ma prima di tutto il modo.
E anche quando mia madre dava i nomi alle cose. E mi raccontava le storie.
Se ci penso bene, io la cultura l’ho sempre intesa cosí.
Come anche l’etimo della parola rivela.
Cultura, dal latino colere, ‘coltivare’, ‘a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. Nota al testo
  7. Abbecedario della differenza
  8. Indice delle voci
  9. Bibliografia
  10. Autrici e autori