Quarta parte
1982-1995
Nell’82 Schifano non ha ancora cinquant’anni, ma sembra averne vissuti il doppio. Nessuno agli esordi degli anni ottanta avrebbe scommesso su un suo possibile recupero: la dissipazione del talento e della vita sembra aver raggiunto il suo acme, e Schifano ne porta i segni persino sul volto e sul corpo, in cui è difficile ritrovare la bellezza da maudit dei decenni precedenti. Invece, sta per aprirsi una delle stagioni più felici della sua vita d’artista.
L’atteggiamento globale del gusto e del mercato dell’arte è cambiato: la pittura torna prepotentemente in auge e anche in Italia l’atmosfera è cambiata. L’affermazione della Transavanguardia porta con sé la ricerca e la rivalutazione di tutte quelle esperienze artistiche che in qualche modo l’hanno preparata, e Schifano viene dunque considerato un maestro e un anticipatore (tra l’altro, sin dalla fine del decennio precedente – attorno al ’77 – aveva ricominciato a dipingere nuovi soggetti). Il rapporto con Emilio Mazzoli, allora uno dei più influenti galleristi europei, una mostra antologica a Ravenna nell’82 – la seconda, dopo quella all’Università di Parma del ’73 –, il rinnovato favore mercantile accompagnato ora però dalla considerazione e dal rispetto critico sono i primi indizi di un periodo all’insegna di una (relativa) tranquillità creativa ed economica. Ma è nella vita privata, benché difficile da disgiungere dal resto, che Schifano sembra cambiare radicalmente: conosce la giovane milanese Monica De Bei, hanno un figlio – Marco Giuseppe, nato nell’85 –, si sposano. L’artista stravede per il figlio, arrivato “fuori tempo”, e questa nuova situazione sembra costringerlo su binari più tranquilli: i rapporti con i galleristi, per quanto sempre conflittuali, non sono più burrascosi, la creatività si esprime con una serie di nuovi temi che scaturiscono a getto continuo, persino i suoi “luoghi” vitali sembrano più solidi. A lui, che non esce mai di casa o dallo studio, i rifugi di via delle Mantellate, della villa a Saxa Rubra, delle estati a Sabaudia diventano spazi dove far crescere un figlio: i tempi di una vita al limite sembrano lontani.
La sua pittura ora si muove su un immaginario fantastico, reso con spessori sempre più materici: aveva cominciato con gli Orti botanici, con le grandi nature morte degli Acerbi, con i Paesaggi acquatici, con le Ninfee (quasi ripercorresse il vecchio Monet), e dopo la nascita del figlio i paesaggi si popolano di animali preistorici, di storie antiche, di memorie private. A cavallo del ’90 un nuovo sussulto di realtà lo riporta a considerare le immagini del mondo che gli arrivano da media che stanno vivendo la rivoluzione informatica e che trasmettono in diretta le nuove guerre globalizzate: Schifano torna a scattare migliaia e migliaia di foto dalla televisione, a ingrandire su PVC quelle che gli sembrano più significative, e ancora una volta la pittura quasi scompare, comunque mai del tutto.
Tutto funziona, ma il demone è sempre in agguato. La sua inquietudine si manifesta ora in una frenesia spesso procurata dall’uso di sostanze diverse da quelle dei decenni precedenti, che rende difficili i legami privati prolungati: difficoltà di relazione con la moglie e persino con il figlio Marco lo rendono sempre più irrequieto e insofferente di ogni rapporto continuativo. Solo il mercato lo conforta: il sistema dell’arte si è irrobustito anche in Italia, e il nome di Schifano è uno dei pochissimi conosciuti persino dal grande pubblico. Ora che le mostre si moltiplicano e che l’arte è diventata uno status symbol le opere dell’artista sono ricercatissime, o meglio, ricercatissima è soprattutto la sua firma, come se il possesso di un suo lavoro qualsiasi metta in contatto il proprietario con il mondo fantastico e con la vita spericolata impersonata da Schifano.
Marco Meneguzzo
27
Vivere è per amare qualcosa
EMILIO MAZZOLI — Riuscì a ripartire. Poi ebbe la fortuna di incontrare una ragazza giovane, di Milano, che gli portò una ventata di vitalità. Era una donna molto diversa da lui, molto pragmatica, molto sana, che amava l’arte e lavorava alla galleria Bergamini.
MONICA DE BEI — L’ho conosciuto a Milano nell’autunno dell’82. La pittura era la mia passione, sin da bambina passavo le giornate a disegnare con mia sorella più grande che aveva fatto l’Istituto d’arte. In famiglia tutti erano portati per il disegno, ma poi avevano scelto altro, come se non ci avessero creduto. Come artista lo conoscevo appena, ero uscita dal Liceo Artistico dove per programma eravamo arrivati fino alle avanguardie storiche e non sapevo nulla dell’aura che lo circondava.
Da poco lavoravo controvoglia alla galleria Bergamini. Quell’impiego era stata una forzatura dei miei genitori, pensavano fosse una piccola sicurezza che comunque non mi avrebbe impedito di provare a fare quello che sentivo. Una sera accompagnai uno dei direttori a una mostra alla Rotonda della Besana, “Giovani pittori scultori italiani”, selezionati da vari curatori. Achille Bonito Oliva portava Paladino e Schifano. Ricordo esattamente il primo momento che l’ho visto.
Non conoscevo il suo aspetto, ma appena lo vidi da lontano capii subito che era lui. Rimasi colpita dal suo stile, indossava un blazer blu con i jeans, stivali americani Frye, i capelli quasi neri, lisci e radi sulla bella fronte, tagliati a caschetto. Di altezza normale, aveva braccia e busto forti. Non avrei saputo dargli un’età perché aveva un’andatura particolare, dondolante, ancora da ragazzo. Avevo colto il suo sguardo su di me, era circondato da un gruppetto di persone, ma si staccò per venirmi vicino e così ci presentarono.
Notai l’intensità dei suoi occhi, aveva continuato a guardarmi, poi all’improvviso mi toccò il braccio, quasi una carezza. «Bella camicia…» Aveva una voce malinconica, un tono né maschile né femminile.
Io indossavo una blusa vintage con le maniche di velo, i capelli lunghi raccolti. Nella sua mano che non era riuscita a trattenersi avevo sentito la sua attrazione, fu questo a destare la mia attenzione. Tempo dopo mi rivelò che aveva pensato spesso a quel momento come a un’immagine.
Mi chiese cosa facessi, risposi che ero una pittrice e che sarei rimasta ancora per poco da Bergamini. Lui aveva commentato che ne era sicuro.
In mostra vidi i Ballerini, i Pesci, le Biciclette, quadri grandi, più di due metri per quattro, soggetti che stupivano per la loro forza, dipinti con estrema grazia e leggerezza. Ecco, per me il suo lavoro di quel tempo fu una rivelazione, una pittura figurativa pervasa da un’energia selvaggia, caratterizzata da un segno moderno, senza ripensamenti, eseguita con elegante noncuranza per quel suo modo particolare di lasciare le cose tra il finito e il non finito. Ripensai più volte a quell’incontro: nella sua inquietudine avevo riconosciuto la mia. Poi lo dimenticai.
ROBERTO ORTENSI — Monica l’aveva conosciuta alla Rotonda della Besana. Si rincontrarono mesi dopo e iniziarono a frequentarsi sporadicamente. Mario si faceva ancora e Monica gli scrisse una lettera dicendo che non lo voleva più vedere, aveva troppi problemi che a lei non interessavano.
Allora lui ha cominciato a tempestarla di lettere e telefonate. Poi è stato arrestato e così lei se l’è levato di torno per mesi.
MONICA DE BEI — Due mesi dopo in galleria inaugurammo la sua personale. Espose le Ninfee, i Gigli d’acqua… Alcuni quadri avevano dimensioni notevoli. Il più grande aveva il fondo dipinto completamente di bianco e il disegno dei fiori fatto di linee scure e colorate era così essenziale che sembrava una calligrafia. Chiamai mia sorella a vederli, eravamo estasiate.
Monica De Bei, 1982. © Mario Schifano.
Seppi che era finito in prigione. Stava andando a Napoli e a un posto di blocco la Finanza trovò un sacchetto di eroina sul cruscotto della sua macchina, lì in bella mostra. Così, per la sua incapacità di mentire, lo arrestarono. Era insieme al suo segretario, che a malapena riuscì a balbettare qualcosa. Qualche mese dopo uscì e iniziò a telefonarmi tutte le sere. Ero imbarazzata, abitavo con i miei e il telefono era un incubo, a casa avevamo un apparecchio fisso in un posto di passaggio. Non potevo parlare perché loro mi sentivano e poi faticavo a capire quello che mi diceva. Erano conversazioni lunghe, astratte, mi raccontava della gente che incontrava, di sentimenti, del lavoro che aveva in mente. Voleva che andassi a casa sua ad Ansedonia.
ROBERTO ORTENSI — Lui stava ad Ansedonia e lei è rimasta coinvolta, intrappolata. Del resto, vivere è per amare qualcosa.
Monica l’ha conosciuto nell’82, quando lui ancora faceva uso di eroina. Nell’83 ha smesso, è finita la sua dipendenza. Nel marzo dell’83 si fece qualche altro mese di carcere a Frosinone per possesso di stupefacenti. Era in macchina con Fantauzzo e all’altezza di un autogrill vicino a Frosinone lo fermarono a un posto di blocco. Lo perquisirono e gli trovarono trenta grammi di eroina, siringhe e roba varia, tutto! Siccome aveva dei precedenti se lo sono bevuto, l’hanno castigato duramente.
MONICA DE BEI — In carcere colse l’occasione per disintossicarsi. Fu un vero e proprio de profundis. Mario mi disse che dopo tutti quegli anni era semplicemente stufo.
GIANNI MICHELAGNOLI — Sicuramente aveva nuove motivazioni, però in galera uno è quasi obbligato a smettere di prendere sostanze. Non si può contare su una fornitura fissa e abituale e quando arriva qualcosa è oro che cola. Ce ne sarebbero così tante di storie da raccontare… Ma chi è ancora vivo non ha voglia di parlarne, oppure non ricorda più niente, ha i neuroni bruciati.
ROBERTO ORTENSI — Il carcere di Frosinone fu molto pesante. Venne picchiato più volte, anche dai secondini, con la tecnica del “Sant’Antonio”. La conosci? Devi passare in mezzo a due gruppi di persone che ti tempestano di calci e pugni e tu non riesci a capire chi è il più cattivo, chi ti vuole fare del male.
MONICA DE BEI — Dopo Frosinone cominciammo a vederci quasi tutti i fine settimana.
Il sabato sera prendevo l’aereo per Roma, dove mi veniva a prendere un’autista che mi portava ad Ansedonia, e poi il lunedì mattina tornavo a Milano. Ne erano al corrente solo mia sorella e qualche amico che mi prendeva in giro per quella relazione con una persona tanto più grande; non lo sapevano né i miei, con cui avevo un rapporto difficile, né nella galleria in cui lavoravo. Si sentivano già tante dicerie di gente che raccontava di averlo visto, che stava per morire, la leggenda del “maledetto”. Erano tutte balle, ne ridevamo insieme. Diceva: «Vedi, maledetto è detto-male!».
E poi era eccitante essere clandestini, per scherzo mi presentava come la sua fidanzata belga, oppure olandese perché sono bionda e ho gli occhi chiari, cambiandomi nome ogni volta.
Quando veniva lui a Milano prendeva una suite all’Hotel Gallia. Ero allibita dalle mance spropositate che lasciava ai camerieri, non uscivamo dalla camera fino a quando non ripartiva, ci divertivamo a ordinare le più incredibili prelibatezze, i vini più rari, voleva che avessi desideri per poterli esaudire. Il barman dell’albergo aveva inventato per noi un cocktail con i passion fruits, e a me sembrava davvero che tutte le cose che facevo con lui avessero il sapore di quei frutti della passione.
Avevo vent’anni e Mario mi sembrava la persona più intelligente che avessi mai incontrato, mi piaceva il suo senso di relatività rispetto alle cose, la sua curiosità. Ero affamata di stimoli culturali e lui aveva fatto scattare la scintilla: il grande seduttore che mi conduceva per mano verso la mia aspirazione.
Veniva sempre accompagnato da Pippo Fantauzzo, un siciliano che si occupava dei suoi problemi pratici e gli faceva anche da autista. Separarci fisicamente diventava ormai insopportabile. Un giorno mi aveva presentato sua madre al telefono dicendo: «Mamma, ti passo Monica, che amo come non credevo si potesse». Lei, che sembrava più abituata di me alle sue stranezze e aveva un debole per lui, aveva risposto con l’invito ad andarla a trovare, perché «voleva conoscermi».
Invece i miei scoprirono tutto perché una volta portai con me mia nipote Chiara che era ancora piccola e lei al ritorno raccontò che eravamo andate a trovare una persona molto particolare. Fece vedere i disegni che avevano fatto insieme, poi aggiunse che mi baciava. Insomma, dovetti presentarglielo!
Il Messaggero, cronaca di Roma, sabato 18 dicembre 1982.
Monica De Bei con Chiara. © Mario Schifano.
Mia madre fece un sacco di storie, il cognome Schifano evocava in lei brutte vicende di cronaca per droga, ma l’avevo rassicurata dicendo che erano cose passate, che era un artista importante. Le avevo fatto vedere il libro della mostra curata da Marco Meneguzzo, quello con la foto di Mario giovane, trentenne, in copertina, uno scatto di Ugo Mulas di vent’anni prima, e lei rimase impressionata dalla sua bellezza. Temevo le loro reazioni incont...