Il mio Morandi
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Il mio Morandi

  1. 14 pagine
  2. Italian
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Il mio Morandi

Informazioni su questo libro

Se molto è già stato detto sul Giorgio Morandi artista, è ancora possibile accostarsi «sotto altro aspetto» all'uomo senza per questo eludere le tappe della sua fortuna critica. È proprio quanto fa Luigi Magnani, collezionista e artefice della fondazione che porta il suo nome: forte della lunga e profonda amicizia che lo legò al pittore bolognese, mette la sua erudizione e sensibilità al servizio di un'affinità elettiva che si traduce in un affettuoso ritratto.Senza mai ricadere in una facile agiografia o in un'evocazione pedissequa dell'opera, queste memorie amplificano i tratti sostanziali della figura di Morandi, lasciando che a essere rivelatrici siano le sue stesse parole, l'essenza stessa di quel furor creativo che si manifesta nei gesti quotidiani, come quello singolare di ricercare con il cannocchiale l'esatta inquadratura del paesaggio («Lo vede lassù il suo quadro? L'ho dipinto in questa stanza»). L'artista emerge così «nei suoi gusti, nei suoi umori, e non meno nelle suequalità», tra cui spicca, come scrive StefanoRoffi nella nuova prefazione, l'aver semprerifuggito qualsiasi appartenenza artistica, dipingendo solo «per quei pochi che sentivapartecipi del suo mondo».Il mio Morandi, apparso per la prima volta nel 1982, è la testimonianza di una personalità schiva e raffinata, ed è accompagnato da un insieme di lettere dell'artista che, quasi duplicando la narrazione, la rendono maggiormente tangibile. Rileggerlo oggi non significa solo ripercorrere la storia di un legame ventennale di stima reciproca, significa soprattutto riscoprire il più intimo e peculiare sentire di Morandi. Quello di un enigmatico, stregonesco e rigoroso interprete della natura, riconoscendovi «quanto di umano ha trovato espressione, mediante la forma, nella sua pittura».Il volume è pubblicato in formato solo testo.

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Informazioni

Anno
2020
eBook ISBN
9788860102485
Argomento
Arte
A Dina Morandi
in memoriam
Tutto, o quasi, è stato detto sulle strutture formali e la concezione spaziale della pittura di Morandi, sul suo rapporto con l’antica tradizione artistica italiana e con i moderni, sulle fasi stilistiche che si succedono lungo il cammino che doveva condurlo, solo italiano, forse, dopo il Tiepolo, a fama universale.
Ora, che tutto, o quasi, è stato detto, ci si potrà accostare all’uomo Morandi senza il timore di aver eluso, almeno apparentemente, quei fondamentali valori morali che l’esegesi critica ha giustamente riconosciuto, e osservare sotto altro aspetto la sua personalità, mirando a cogliere quanto di umano ha trovato espressione, mediante la forma, nella sua pittura.
L’uomo Morandi è in realtà l’uomo della sua pittura, che se lascia trapelare la sua nobile, mite e pur virile immagine, cui la morte sembra avere impresso un che di grave e immutabile, racchiude inoltre e rende manifeste le più sottili sfumature del suo intimo sentire. Ed è in questo senso che potremo riconoscere in ogni sua opera un autoritratto.
Tutto ciò che di una profonda cultura pittorica, intesa come originalità e sicurezza di scelta, può amalgamarsi in una natura eletta ed esserle di stimolo fecondo, Morandi lo ha posseduto, vivificato, rinvigorito, donandogli voce di intonazione nuova, sì da far risuonare lo strumento nazionale di accordi inauditi.
Il suo canto sommesso, semplice e puro, scaturisce dalla sua anima di poeta, al modo che da profonde radici sboccia sullo stelo il fiore.
Ciò che si ricorda di un grande artista, diceva Mallarmé, è l’impressione della sublimità che egli ha lasciato attraverso la sua opera più ancora dell’opera stessa; e quando questo fenomeno sia formalmente riconosciuto nella totalità di un’opera, come in quella di Morandi, pur senza menomarne i singoli valori assoluti, si chiama “gloria”.
Conobbi Morandi di nome e di persona prima della sua pittura, l’uomo prima dell’artista. Un profondo sentimento di ammirazione e di affetto mi legò a lui sin dalla mia giovinezza. La sua benevolenza e la sua devozione favorirono un rapporto di sempre più viva familiarità e di amicizia, che mi consentì di penetrare nel mondo della sua pittura, di conoscere i suoi gusti, i suoi umori e non meno le intime qualità della sua grande anima, di cui qui si porta sincera testimonianza.
Ero poco più di un ragazzo quando, avendo saputo da Cesare Brandi che Morandi, trovandosi a Salsomaggiore per cura, avrebbe desiderato visitare la collezione di un nostro vicino e amico, Glauco Lombardi, mi recai da lui per accompagnarlo a Colorno.
Era ad attendermi dinnanzi al suo albergo: alto, magro, il busto eretto, il capo leggermente inclinato sulla spalla sinistra, il viso scarno, severo; ma la frangetta di capelli grigi sulla fronte addolciva l’espressione ascetica del suo volto, conferendo alla sua figura mitezza e candor monacale.
Mi accolse con grande cortesia, scusandosi del disturbo che egli temeva arrecarmi, e tanto mi ringraziava del nulla che mi doveva da pormi in imbarazzo. Lungo il viaggio, conversando, la reciproca timidezza si sciolse nella più viva cordialità.
L’immagine di Morandi che avevo riportato da quel primo incontro, immagine soffusa di delicata umanità, di semplicità austera, mi parve poi poterla riconoscere, riflessa come in uno specchio, nella sua pittura, quando l’anno seguente ebbi a visitare la sua mostra alla terza Quadriennale di Roma.
«Ti piacciono dunque tanto queste amebe?» mi andava dicendo un compagno di università, che di quell’avventato giudizio fece poi ammenda. Tanto le amavo, quelle forme, per apparirmi apportatrici di un messaggio, il cui valore mi sembrava rinviasse al di là di ogni elemento sensibile, oltre la pittura stessa, per essere espressione viva e diretta della coscienza: esempio di spiritualità e di quell’antica umanissima arte della misura, che non è soltanto alto sapere intellettuale, aspirazione al rigore formale, ordine sapiente, ma anche segreto stimolo di elevazione morale, tacito invito a divenire migliori.
Cedendo a un irresistibile impulso, partii per Bologna a ritrovare Morandi.
Non avevo il suo indirizzo; nell’elenco dei telefoni figurava sì un Morandi Giorgio, ma era un suo omonimo; il vero mi fu dato poi rivederlo nella sua casa in via Fondazza, la fatidica via Fondazza. Salii di corsa le scale; dinnanzi alla sua porta alcuni vasi di fiori parvero darmi il benvenuto. Fui introdotto in una stanza avvolta da una fresca penombra; sottili lame di luce meridiana, filtrando attraverso le persiane socchiuse, facevano rilucere la lindura del pavimento e dei mobili, rilevare l’ordine perfetto, da cui si effondeva la serena quiete di un parlatorio di monache.
Mi guardavo attorno con il lieve disagio di chi avverte una invisibile presenza in una stanza vuota, quando i miei occhi, abituati frattanto a quella semioscurità, scorsero in un angolo, seduta su di una poltrona, un’anziana signora abbigliata con grande cura, che mi guardava sorridendo. Sorpreso, e lo confesso, un poco turbato, mi avvicinai esitante inchinandomi nel saluto dinnanzi a quella dolce figura che continuava a guardarmi e a sorridermi in silenzio. Da quell’imbarazzo mi tolse una delle sorelle di Morandi, la signorina Dina, da cui appresi che la persona che mi stava di fronte era la loro madre. L’arteriosclerosi aveva oscurato ogni ricordo della sua vita, meno quello del figlio Giorgio, il solo che per miracolo d’amore sopravviveva al naufragio della sua coscienza, il solo che ella sapeva ancora riconoscere; estremo tenace legame che l’ancorava alla terra.
Assistita amorevolmente dalle figlie, a lei divenute estranee, era venerata come il nume tutelare della loro casa.
Dopo breve attesa, accompagnato lungo lo stretto corridoio e attraversata la stanza da letto delle sorelle, passaggio obbligato, posto a guardia di una inviolabile clausura, giunsi nello studio di Morandi.
Al centro si ergeva, piccolo altare, il cavalletto; e accanto un tavolo su cui stavano affastellati i più disparati oggetti, gli umili interpreti delle sue rappresentazioni pittoriche, le dramatis personae, in attesa di entrare in scena.
Addossato alla parete, presso l’ampia finestra che guardava sul cortile, che è orto e giardino, il lettuccio dei suoi sonni e dei suoi sogni. Appesi al muro alcuni dipinti senza cornice, spiragli luminosi su di un altro mondo, su di un altro cielo.
Incoraggiato dall’amichevole accoglienza gli dissi, un po’ confusamente, della profonda impressione riportata vedendo le sue opere esposte a Roma ed ebbi l’ardire di chiedere se mai volesse acconsentire a dipingere per me un quadro con strumenti musicali. La sola riserva ch’egli avanzò alla mia proposta fu di non avere modelli adeguati, ma a questo, gli assicurai, avrei provveduto io stesso.
Dopo alcuni giorni ero di nuovo a Bologna con un antico liuto veneziano, due flauti indiani e alcuni altri pregevoli strumenti, che un amico ebbe a prestarmi. Quando Morandi li vide non poté nascondere il suo disagio; aggrottò le sopracciglia, sporse il labbro inferiore e si trattenne a lungo pensoso a osservarli in silenzio, con diffidenza e sospetto, come illustri visitatori a lui estranei e sgraditi; infine, vincendo l’esitazione, si decise al rifiuto: «Ma sa… sono cose preziose… potrebbero cadere, potrebbero rompersi… capirà… la prego, se li riporti ben via».
Ero assai lontano allora dal sospettare cosa significassero gli oggetti da lui scelti a pretesto delle sue composizioni, che si presentavano al suo occhio non isolati nella loro particolarità ma in rapporto con tutto il suo mondo interiore, da cui ricevevano la loro carica intensamente allusiva; ignoravo inoltre che quelle loro umili parvenze costituissero soltanto l’impalpabile involucro che riveste la forma, che le nobilita e le fa assurgere alla dignità della pittura.
Solo più tardi compresi il disagio che doveva procurargli ogni distacco dall’abituale concezione del quadro, l’intraprendere un colloquio con elementi del tutto estranei alla sua storia, sottoporli, di mala voglia, al lento processo che li tramuta, come da verme in farfalla.
Non potendomi rassegnare a quella dolorosa rinuncia osai opporre: «Ma… se non si invertono le leggi della gravità, questi strumenti non potranno mai cadere dal tavolo». L’evidenza lapalissiana di questa verità e non meno, credo, il suo non voler dispiacermi, vinsero la sua riluttanza. «Li lasci allora pur lì… vedrò poi come fare per accontentarla…» Me ne andai felice, ma ignaro di quale grande e generosa prova di simpatia egli mi dava acconsentendo a dipingere il suo primo (e fu l’ultimo) quadro “su commissione”.
Nell’attesa cercavo di immaginare come quegli oggetti sarebbero apparsi, trasfigurati dalla sua pittura, ma la mia fantasia non giunse a immaginare la radicale metamorfosi che essi ebbero a subire, retrocessi, quali furono, dal loro uso di corte alla umile condizione di trattenimento popolare, tramutati, come per magia, in un volgare mandolino, in chitarra e trombetta. Mentre io li osservavo incredulo e un poco deluso, Morandi, mostrando di non accorgersi del mio stupore, mi andava tranquillamente illustrando, con l’indice puntato: «Vede… questo è il mandolino dimenticato anni fa da un nostro cugino», certo dopo l’ultima serenata, pensai con sprezzo, «la chitarra e la tromba le acquistai in una bancarella di giocattoli alla fiera di Natale, alla Montagnola», quasi che questi particolari potessero dare una risposta alla mia muta domanda. Non una parola dei miei preziosi, disdegnati modelli che mi furono restituiti in silenzio.
Surreale è qui la trombetta ricurva, surreale il tocco di rosso e di azzurro che la ravviva di un timbro squillante e gioioso («la joyeuse trompette…») e che risalta sullo sfondo quasi monocromo del quadro, affermando il valore assoluto del colore, che, libero da ogni convenzione razionale, sembra introdurre nel mondo fantasioso dei fanciulli. Vien di pensare a Baudelaire: «Le choix le plus décisif du tempérament c’est celui de la perception enfantine, c’est-à-dire d’une perception aiguë, magique à force d’ingénuité».1 Mai forse come qui riaffiora nella pittura di Morandi, dal profondo del suo intimo, e con incantevole ingenuità «l’enfance retrouvée à volonté […] nettement formulée».2
Tuttavia quegli oggetti, che in virtù della equivalenza dei sensi, quale consente la trasposizione del visibile all’udibile, evocano suoni, mi parvero aver subìto, dipinti da Morandi, un processo di trasmutazione simile a quello operato da Bartók, quando trasporta nella musica colta un canto popolare, e che, pur conservandone il disegno melodico, l’intonazione e i ritmi caratteristici, ne sa trarre l’essenza concreta, quasi che egli fosse penetrato nella spontaneità originale del modello. Da quei muti strumenti infantili mi parve allora emanasse una musica priva del tumulto delle sonorità, quale Mallarmé sognava potesse aleggiare, in virtù della divine transposition, nella poesia: quella musica silenziosa in cui la musica, spento il suono reale, rimemorata nel silenzio, trova suo compimento supremo.
A Roma, l’arrivo del quadro degli strumenti musicali fu festeggiato da un piccolo gruppo di amici, mentre lasciò indifferenti critici e uomini di cultura. Il senatore Adolfo Venturi, padre della nostra storia dell’arte, restò muto e indifferente dinnanzi al dipinto e quando io feci il nome di Morandi, «mai sentito nominare» fu la risposta. Vent’anni prima un poeta tedesco, Theodor Däubler, visitando a Berlino la mostra “Moderne Italiener” organizzata da Broglio al Kronprinzenpalais (1921) seppe subito individuare nel pur a lui sconosciuto «bologneser Giorgio Morandi» i caratteri fondamentali del suo genio pittorico: una salda struttura formale, che lo pone in rapporto sia con l’ideale classico che con la più rigorosa arte moderna («Ganz streng schöpft […] er steht dadurch sowohl einem landläufigen klassischen Ideal als auch einer rigoros modernen Anschauungsart besonders nahe»); l’adozione della vigorosa e spesso drastica concezione geometrica di Cézanne («Er faßt dabei das seit Cézanne Geometrisch-Gebotene kraftvoll, oft drastisch an»); la tenerezza lirica del colore pur nella sua asprezza («trotz aller Herbheit, zart lyrisch»); la realtà cosmica delle forme («kosmische Realitäten»).3
Non si conosce quali opere di Morandi fossero state esposte a quella mostra, ma logicamente devono appartenere a un arco di tempo di pochi anni anteriore al 1921. Quando Däubler ci parla di forme semplicissime («einfachste Formen»), di cilindri che rotolano, di dadi che si pongono in modo netto su di un piano («Zylinder rollen, Würfel setzen sich klar auf eine Fläche») pur senza venir meno alla chiarezza nell’esporre quanto effettivamente presenta, brocche, coppe, bottiglie («Krüge, Schalen, Flaschen»), come non pensare alla Natura morta del 1916, priva di profondità, bidimensionale, del Museum of Modern Art di New York (Vitali 27), come non riconoscere due nature morte, quella già Orombelli del 1918 (Vitali 42) e Broglio, del 1919 (Vitali 43)?4 Opere queste tra le sue più alte che, per quel loro risalire da una formulazione piana dello spazio e dell’appiattimento delle forme sino al recupero della profondità spaziale, alla plasticità dei volumi, ci mostrano in modo esemplare i due aspetti che costituiscono (come ebbe a rilevare uno dei più illuminati e illuminanti suoi critici) i due aspetti fondamentali della ricerca di Morandi.5 Termini estremi di un processo formale in cui ogni elemento organico o naturale tende a dissolversi e a trasformarsi in astratte forme geometriche, quasi in virtù di una magia, che a un tempo comprende soggetto e oggetto, il mondo che sta di fronte all’artista e l’artista medesimo, come Baudelaire, prefigurando il Cubismo, ebbe a ravvisare con parole profetiche l’essenza dell’arte moderna: «Qu’est-ce que l’art pur suivant la conception moderne? C’est créer une magie suggestive contenant à la fois l’objet et le sujet, le monde extérieur à l’artiste et l’artiste lui même».6
Se questo processo artistico, volto all’astratto, è caratteristico del nostro tempo, non è men vero che esso pur costituisce una fase della vita delle forme ricorrente lungo il corso dei secoli, quasi un periodico reagire alla concezione classica del mondo, che pone l’uomo a suo centro e in lui si riflette: microcosmo umano, che appare poi essere assorbito nel macrocosmo, determinando una completa rottura tra natura e spirito, già in perfetta armonia.
Nelle nature morte dette metafisiche di Morandi, oggetti i più disparati ed estranei tra loro sono casualmente accostati, forme inanimate nella loro gelida astrattezza, misteriose quasi fossero realtà cosmiche, «geheimnisvoll […] kosmische Realitäten», come scrisse Däubler. Pure forme che hanno perduto il loro senso e la loro funzione originaria, rese non più significanti della scrittura greca, ridotta a mero elemento ornamentale nelle monete barbariche della Tracia: espressione eloquente di quella magistra barbaritas che, reagendo alla civiltà latina e in opposizione alla perspicua regolarità della tradizione mediterranea, affermava stilisticamente se stessa, in modo sostanzialmente analogo a quello dell’astrazione cubista, che traducendo la forma organica e la struttura plastica del modello nelle linee e nelle superfici dello “stile geometrico” o cristallino, reagiva al sensuoso naturalismo figurativo dell’Impressionismo. Ed è come il riemergere di quella imperiosa “volontà di forma” che ebbe a manifestarsi alla fine del mondo antico in Occidente e che ci appare quale originario impulso delle genti germaniche e sempre risorgente nell’arte tedesca, come possiamo tra l’altro riconoscerlo in Dürer, ossessionato dalla forma. Non dovrà dunque stupire che il tedesco Theodor Däubler, magister barbarus, il cantore del poema epico che celebra il genio della civiltà nordica in Das Nord Licht, dinnanzi ai quadri metafisici di Morandi esposti a Berlino, abbia colto in quella dilatazione dello spazio bidimensionale della geometria piana, e non meno in quella salda e vigorosa plasticità d’ispirazione cubista, i segni manifesti di una segreta analogia con un aspetto fondamentale del pervicace dualismo dell’arte tedesca; e fu in virtù di questa affinità elettiva che Däubler poté riconoscersi in Morandi ed essere tra i primi a intendere i valori fondamentali della sua arte.
Serbo ancora vivo ricordo di Theodor Däubler, che, quando io ero un ragazzo, fu ospite della mia famiglia a Roma. Assomigliava stranamente a Brahms, sia per l’imponente presenza fisica che per il delicato sentire.
Come uno di quei grandi barbari del tempo delle migrazioni, egli si sentiva fortemente attratto e affascinato dall’Italia capta e di questo amore porta testimonianza il suo volume Hymne an Italien. Lo accompagnavo ogni giorno nella visita ai musei, ove soleva sfiorare cautamente con le dita le sculture e le pitture che più gli piacevano, per stabilire, diceva, un perenne legame con esse; legami che gli avrebbero consentito un giorno di poterle rintracciare, di rivederle: invisibile filo di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il libro
  4. Prefazione: Essenzialmente pittura
  5. Dedica
  6. Lettere: 1942-1964
  7. Postfazione: Breve cammino nella critica morandiana dal 1918 al 1982
  8. Gli e-book di Johan & Levi
  9. Copyright