PREFAZIONE
Barbara Mapelli
Il testo di Deborah Cameron fin dalle prime pagine dell’introduzione entra nel merito di un tema che è attenzione attuale e perpetua di discussione e confronto, naturalmente irrisolti, anche nel nostro paese. Come definire il femminismo, cos’è questo movimento ed è giusto usare piuttosto il plurale, “femminismi”? E quanto ha coinvolto le donne e con quale fama appartiene alla conoscenza diffusa? È ovvio che si tratti di interrogativi eterni, spesso mal posti perché purtroppo il Movimento delle donne (o i Movimenti) vivono anche in Inghilterra come in Italia di cattiva fama e sono di fatto poco conosciuti nei loro reali contenuti e dibattiti da molta parte delle donne, che pure ne hanno tratto vantaggi, cambiamenti per le loro vite.
Metto da parte per un momento questa problematica per un’altra breve osservazione: proprio questo libro mi ha fatto riflettere sulla diversità di approccio che le culture italiana e anglofona hanno rispetto a tematiche teoricamente e praticamente complesse e plurali come i femminismi. Infatti il testo di Cameron, coraggioso a mio parere e generoso, si presenta ed è un libro divulgativo, con un linguaggio piano e comprensibile e questo mi sembra non sia presente nella produzione del Movimento italiano: da noi manca o è addirittura svalutata, in generale, la cultura e l’impegno divulgativo e i testi di riflessione femminista non si sono sottratti a questa assenza.
Ma torno agli interrogativi precedenti e ai paradossi che generano, soffermandomi in particolare su uno, cui Cameron si dedica appunto nell’introduzione. Un paradosso, direi strutturale e insito nel femminismo – d’ora in poi userò il singolare per comodità anche se non è corretto. Se il femminismo è un Movimento quindi una realtà che tende a coinvolgere una collettività, che via via si espanda e che si riconosca nei suoi obiettivi comuni, come può questa finalità convivere con altri obiettivi, anch’essi fondativi dei significati e delle intenzioni del Movimento, che sono l’uscita dall’ombra, l’ingresso nella storia e riconoscimento di valore ai singoli soggetti femminili, “soggetti imprevisti” secondo Carla Lonzi? È un contrasto che credo accompagni ogni movimento: da una parte c’è la forza, lo sviluppo di idee e pratiche che nascono dall’appartenenza a un collettivo, dall’altra c’è il pericolo che il singolo soggetto sbiadisca nella sua particolarità confuso, infeltrito all’interno di una pluralità che non può, non riesce a valorizzare le singolarità. È un tema, dilemma che riguarda tutti i movimenti, si diceva, ma che è particolarmente cruciale per il femminismo, che ha come obiettivo principale la nascita di soggetti nuovi, le donne. Non c’è risposta, la contraddizione è viva all’interno del Movimento che ne discute e può anche soffrirne nelle sue pratiche, ma non vi dà soluzione, come ad altri contenuti che si pongono nel cercare di chiarirsi cosa sia, o sia stato, il femminismo. Cameron cerca ordinatamente di elencare alcune risposte:
– il femminismo come un’idea: Marie Shear lo ha descritto come «la nozione radicale che le donne sono persone»;
– il femminismo come un progetto politico collettivo: con le parole di bell hooks «un movimento per mettere fine al sessismo, allo sfruttamento e all’oppressione sessista»;
– il femminismo come un quadro teorico: quello che la filosofa Nancy Hartsock ha descritto come «una modalità di analisi… un modo di porre domande e cercare risposte» (p. 18).
“Questi significati diversi hanno storie diverse ed è complesso metterli insieme”, scrive ancora l’autrice, ed è vero: posso aggiungere che si tratta di definizioni così generiche da poterle ritenere valide tutte e vorrei sommare alle altre – per rendere ancora più complesso il quadro – una mia definizione, che non riduca la visione, ma anzi la renda più ampia e plurale. Il femminismo vorrei chiamarlo una filosofia critica e radicale, che rimette in discussione realtà singole e sociali, modi di pensarsi nel mondo che riguardano le donne ma si riversano su tutti e divengono nuove modalità di ripensare il mondo. Una filosofia critica così potente e tenace da non aver bisogno di creare un sistema che tutto comprende e tutto spiega, bensì in grado di mettersi essa stessa in discussione ogni volta, di rimettere al centro periodicamente e con testarda consapevolezza le proprie convinzioni e obiettivi, teorie e pratiche, per rivederle, eventualmente riformularle.
Sono quindi d’accordo con l’autrice quando rifiuta la semplicistica visione storica che presenta il femminismo nel suo divenire a ondate secondo le generazioni di donne che l’hanno impersonato. Né sono mai stata d’accordo quando qui in Italia si parlava di eredità nel momento in cui noi “ragazze degli anni Settanta” assistevamo al crescere di nuove donne, che si esprimevano in modi differenti, andando oltre e altrove rispetto alle nostre priorità. Il femminismo è una filosofia che agita dal profondo l’essere e la storia delle nostre civiltà, e le femministe vivono nel mondo anche se vogliono mutarlo e dunque gli obiettivi si adeguano, pur nell’intento della trasformazione, alle problematiche generali che via via emergono nel tempo, nei decenni e nell’alternarsi delle generazioni. Restano pur sempre delle acquisizioni di fondo: mi limito a usare qualche slogan, “partire da sé”, “il personale è politico”, che appaiono appunto come slogan ma sono il rovesciamento politico, epistemico dei valori tradizionali; acquisizioni forse talvolta mal praticate anche nel Movimento, ma mai negate e che hanno cambiato visioni di sé e delle realtà non solo delle donne e delle femministe.
Ma intanto si fanno i conti con la realtà, si fanno i conti con le conquiste necessarie, di diritti, di equità, che però non esauriscono, non sono le tappe finali del Movimento che mantiene i suoi paradossi – essere nel mondo per creare un nuovo mondo – garanzia, a mio parere, con le tensioni che generano, di una continua vitalità, di una continua messa in discussione che non permette di irrigidirsi nell’invenzione di nuove norme. E quando questo accade c’è dall’interno subito chi lo segnala e lo mette sotto osservazione. Insomma il tentativo, i tentativi di continue vittorie contro la tentazione di creare sistemi e visioni che si autosoddisfano e ai autonominano “buone e giuste”.
Per questo trovo ammirevole e, ripeto, generosa l’opera dell’autrice che cerca di sviluppare, in poche decine di pagine, una materia molteplice, che tocca ogni aspetto del vivere sociale, una materia ribollente sempre di novità e criticità.
Altro merito che vorrei attribuire a Cameron e che può apparire al contrario un suo limite, ma così non lo considero, è il porsi domande, raccontare storie e individuare temi che possono apparire al raffinato – ma elitario – dibattito italiano già detti, già visti, già parcellizzati in analisi datate nel tempo. Ritorna il tema della nostra – italiana – non abitudine ad aprirci a un pubblico più vasto, il ragionare e usare un linguaggio specialistico noto solo in cerchie ristrette, un’abitudine che il femminismo non ha saputo cambiare, se non, io credo, nelle più recentissime sue espressioni, nel momento in cui è divenuto, veramente e fino in fondo, un movimento di dialogo internazionale.
Cameron offre conoscenze, anche storiche, a chi ha poca dimestichezza con il femminismo, ma in realtà il suo lavoro mi appare anche come un ripasso di consapevolezza e competenza critica utile anche per chi nel Movimento c’è stata per decenni e ne conosce abbastanza le storie, le teorie e le pratiche.
Non su tutto quanto viene esposto naturalmente si può essere d’accordo ma anche ciò che può apparire incompleto, talora fuorviante, può divenire momento di stimolo, di nuova riflessione. E di questo se ne ha sempre bisogno.
Ne farò alcuni esempi.
Il tema dei diritti, che l’autrice tratta con una breve sintesi storica e, come sua abitudine, con un confronto tra diverse posizioni. Ne emergono due punti fondamentali a mio parere per la conoscenza del femminismo. Innanzitutto il confronto, dissidio che si è perpetuato anche in Italia per decenni tra una concezione, vorrei chiamarla riformista anche se non l’abbiamo mai nominata così, tesa all’ottenimento di pari diritti con gli uomini, e posizioni maggiormente rivoluzionarie, che dichiarano la necessità di un mutamento radicale di trasformazione nella società, nella politica e nella cultura per mutare le forme dell’essere e abitare nel mondo, mentre la ricerca di parità può risultare una forma di omologazione al maschile. Nel frattempo, soprattutto in Francia e in Italia e quindi Cameron non vi fa cenno, ma è bene ricordarlo – siamo negli ultimi due decenni del Novecento – si sviluppa il pensiero della differenza sessuale, cui vengono mosse però da altre componenti del Movimento alcune accuse di essenzialismo e radicalità nel contrapporre maschile e femminile come poli opposti e separati e la sostanziale estraneità delle donne alla costruzione della nostra civiltà con la conseguente deresponsabilizzazione femminile dai mali che tale civiltà ha prodotto. Il tema di una presunta innocenza femminile che ormai appare difficile da sostenere nella sua radicalità.
La seconda osservazione che può emergere dalla lettura di questo capitolo sui diritti mi sembra sia ancora più vicina al...