HARDCORE CONTINUUM N. 1
HARDCORE
«See my face, not a trace, no reality
[...] I just speed
That’s all I need».
Johnny Rotten/Sex Pistols,
«Seventeen», 1977
«Rush your fuckin’ bollocks off».
Mc Scallywag/Spiral Tribe,
«Doet», 1992
«Troppa velocità è come troppa luce. È accecante».
Paul Virilio, La guerre pure
Estetica della sparizione
Nel 1988, quando la Chicago acid house è arrivata nel Regno Unito, i suoi pattern di basso ipnotici e disorientanti rispecchiavano le connotazioni allucinogene del termine acido. I ragazzi inglesi hanno costruito un intero movimento a partire dalla nuova musica, il cui vibe, però, era incentrato su una sostanza diversa dall’LSD: l’MDMA, altrimenti noto come ecstasy o E. A metà fra la subcultura giovanile e il culto religioso, il rave aveva abbigliamento, stile di danza, riti e slang propri. All’inizio la colonna sonora consisteva quasi soltanto di dischi importati da Chicago, Detroit e New York, ma col tempo i produttori britannici hanno sviluppato un loro sound, miscelando elementi di house, techno, hip hop e reggae per ottenere una variante esclusivamente inglese: l’hardcore.
Oggi, nel 1992, dopo quattro anni di balli e droga sfrenati, l’hardcore rave si è trasformato nella scienza dell’induzione e amplificazione dello sballo provocato dall’E. Quando l’ecstasy ha cominciato a essere adulterato con l’anfetamina o sostituito con miscugli pseudo-E a base di speed, LSD e dio sa cos’altro, il vibe è cambiato (da trance-dance ad alienato-maniacale). Le sostanze chimiche hanno alterato direttamente il metabolismo della subcultura, con i battiti al minuto alle stelle (ultimo rilevamento: 140-150) in parallelo con la frequenza del polso e la pressione sanguigna.
L’E e l’LSD attivano l’area «attacco o fuga» del cervello. Con l’aggiunta dell’anfetamina, il risultato è un’euforia irrequieta ai limiti della crisi di panico: «Are you feeling w-w-w-wobbly???», si domanda retoricamente «The Wobbler» degli Xenophobia. L’hardcore non è che una forma di «cultura del panico» fin de siècle: da qui i frequenti sample di sirene, le imboscate sonore, i «comin’ at ya!» dell’mc. Esiste persino una traccia intitolata «Start the Panic». Ma del resto «panico» viene dal greco panikós, che significa «trasporto estatico». L’E corretto con lo speed ha trasformato radicalmente il vibe della cultura rave, dalla celebrazione a una sorta di euforia aggressiva. L’urgenza di mescolarsi e l’urgenza di sollevarsi si fondono in una furiosa sensazione oceanica. Le facce dei raver si contorcono in smorfie assurde fra il ringhio e il sorriso, oppure trasudano un’insolenza folle e virulenta.
Si tratta della subcultura più spudoratamente tossica da un’eternità, ancora meno velata di quella dell’acid house. I dj delle radio pirata mandano un saluto a «tutti voi che siete fuori di testa, speedomani in ascolto, sapete come butta», oppure: «Sì, Londra, qui in studio si vola altissimo, cento miglia all’ora». È vero, come affermano i detrattori dell’hardcore, che la droga è indispensabile per apprezzare questo tipo di musica? Be’, di sicuro aiuta il metabolismo a toccare il necessario apice della frenesia, ma una volta che il sistema nervoso si è riprogrammato basta l’hardcore «al naturale» per attivare i flussi di memoria e i flashback corporei.
Lo speed ha alterato (alcuni direbbero corrotto) l’evoluzione della musica rave, scompensandone lo spettro sonoro sia al vertice che alla base. L’hardcore è tutto acuti ultrastriduli e bassi viscerali. Le voci sono accelerate a 78 giri, stile Alvin e i Chipmunks, si tratti di sample di cantanti eteree come Kate Bush, Lisa Gerrard, Liz Cocteau o Stevie Nicks oppure di eruzioni di voci black all’elio. Più simili ai fuochi d’artificio che al «soul», queste voci vengono private di ogni espressività e catapultate nel regno dell’urgenza astratta, fuori dalla sintassi del desiderio. Campionate e modulate con la tastiera, diventano un intenso fuoco di fila senza pretesto né contesto, fremiti e brividi più infraumani che disumani. Formule magiche del roots reggae vengono strappate dal loro habitat culturale per trasformarsi in geroglifici animati. Le cantilene ragga aggiungono un’arroganza granulosa perfetta per l’indistruttibile e fragoroso tessuto dell’hardcore. Il basso dub ti percuote le viscere, la sua cadenza esotica incredibilmente sovrapposta a breakbeat hip hop accelerati a velocità doppia rispetto al reggae. Avendo «inghiottito l’hip hop in un boccone», la sincope hardcore rappresenta una rottura radicale con i ritmi programmati della prima techno britannica. Il versante elettronico della techno è degenerato in chiazze sparse di basso acid house, loop di pulsazioni ricavati da «Energy Flash» e «Mentasm» di Joey Beltram, concatenazioni convulse di sample assordanti e riff con salti di ottava la cui funzione non è melodica ma tessiturale. Senza dimenticare, naturalmente, che la stessa velocità di oscillazione accentua il senso di sballo forsennato.
Ai rave e nei locali, e sulle stazioni pirata (Touchdown 94.1 FM, Defection, Pulse, Rush...), i dj usano spezzoni grossolani di tracce per comporre un arazzo intertestuale di scissioni e innesti, implacabile ma decisamente discontinuo. È un cazzo di caos indecifrabile e ben poco musicale, ma quando lo vedi raggiungere un pubblico largamente proletario attraverso l’etere, sai di essere nel futuro. È «trash», ma io lo adoro.
Valutare l’hardcore in termini di tracce individuali è un errore, perché questa musica ha effetto solo in quanto flusso totale. La sua pulsazione metamusicale è più vicina all’elettricità che ad altro. L’hardcore ha abbandonato i residui della struttura strofa/ritornello mantenuti dal rave commerciale. «We’ve lost the plot» proclamavano gli mc al mega-rave illegale di Castlemorton Common in maggio. L’hardcore abolisce la narrazione: invece di tensione/climax/sfogo, offre mille crescendo, una sequenza infinita di ADESSO. Un adesso apocalittico, certo, e l’hardcore corrisponde fin troppo bene al modello di cultura terminale preconizzato da Paul Virilio in Estetica della sparizione: «Si è passati dal tempo estensivo della storia al tempo intensivo di una istantaneità senza storia». Un’emergente anticultura dell’istantaneità che sarà popolata da un nuovo tipo di soggetto schizofrenico, il cui ego è «costituito da una serie di piccole morti e identità parziali».
Nessuna narrazione, nessuna meta: l’hardcore è accelerazione intransitiva, intensità senza oggetto. Ecco perché il chiacchiericcio dell’mc sembra più adatto alle montagne russe che alla musica – «hold tight», «let’s go», «hold it down» – e perché oggigiorno nei luna park si sente solo techno. Questa scomparsa dell’oggetto del desiderio, questa intensità intransitiva, fa dell’hardcore una cultura della beatitudine autistica? Senza dubbio, il sesso come metafora centrale del ballo sembra più remoto che mai. Il ballo rave non prevede colpi e sfregamenti ad altezza bacino; ha abbandonato completamente il modello della sessualità genitale per sostituirlo con una sorta di frenesia perversa polimorfa. È una danza di tic e convulsioni, strappi e spasmi, l’agitazione di un corpo scomposto nei suoi elementi individuali e poi riassemblato al livello dell’intera pista. Ogni parte subindividuale (un arto, una mano puntata a pistola) è una rotella negli ingranaggi di una macchina del desiderio collettiva. Il che spiega come mai i ballerini siano così rapidi a copiarsi le mosse a vicenda. La pista è come un brodo primordiale di DNA. Ma è anche pagana, questa alienazione digitale dionisiaca il cui obiettivo è trovare rifugio nella PAZZIA (da qui gli aggettivi slang mental e nutty, sound system con nomi come Bedlam e gruppi con nomi come Lunarci, gli mc che gridano «off my fucking tree»: peggiorativi trasformati in stati (de)mentali desiderabili).
L’hardcore, inoltre, è emotivamente regressivo (come tutti i generi musicalmente progressivi degli ultimi dieci anni: rap, oceanic rock, noise): da qui l’infantilismo dei raver con il ciuccio in bocca e di successi bubblegum come «A Trip to Trumpton», «Sesame’s Treet» o «Charly» dei Prodigy. E tuttavia, Virilio ci ricorda che «la società infantile ricorre spesso al vortice, al girotondo, al disequilibrio, trova nelle sensazioni di vertigine e smarrimento una fonte di piacere», citando il fotografo Jacques-Henri Lartigue, che da bambino si divertiva a girare su se stesso per provocare «uno stordimento che riduceva il suo ambiente a una sorta di caos luminoso».
Il libro di Virilio è una geremiade contro una cultura emergente fondata sulla «picnolessia», vale a dire una brevissima perdita di coscienza. La picnolessia è una forma di epilessia, che il dizionario Webster definisce come disturbo «contraddistinto da alterazione dei ritmi elettrici del sistema nervoso centrale che tipicamente si manifesta con crisi convulsive di solito associate a un offuscamento della coscienza» (corsivo mio). Per gli antichi greci, l’epilessia era una malattia sacra. L’hardcore è in bilico tra picnolessia ed epilessia. Sappiamo tutti che le luci stroboscopiche (il pezzo forte dei light show ai rave) possono provocare convulsioni: l’hardcore è il loro corrispettivo sonoro, una sequenza di frammenti musicali ibernati e artificialmente rianimati con l’ E-lettricità.
Sembra quasi che Virilio parli della scena rave del 1992: «Con l’irregolarità del tracciato epilettico, definito come sorpresa e variazione indeterminata delle frequenze, non parliamo più di tensione o di attenzione, ma di sospensione pura e semplice (per accelerazione), effettiva sparizione e riapparizione del reale, scollamento della durata». È la sensazione colta dai KLF con il titolo (se non con i suoni) di «3 A.M. Eternal». Lo speed riproduce gli effetti della picnolessia, un «rapimento continuamente ripetuto del soggetto al di fuori del suo contesto spazio-temporale». Ti manda completamente fuori. Non solo: il sintomo di un’imminente crisi epilettica è «un particolare stato di felicità, un’eccitazione infantile». «Sì», scriveva l’epilettico Dostoevskij, «per questo attimo si può dare tutta la vita! [...] in quell’attimo mi diviene in qualche modo comprensibile l’ambigua espressione: non vi sarà più tempo».
Il «nichilismo» infantile è la ragione per cui in tanti sono disturbati dall’hardcore, una musica che va letta come fenomeno neurologico, non culturale. Il ruolo dei mediatori culturali viene abolito. Priva di testo, offre ben poco da interpretare in quanto tale (il suo «testo» subculturale è rappresentato dai suoi effetti). Particolarmente minacciati da questo rumore anti...