Il processo
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Il processo

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Informazioni su questo libro

«Come un cane!» mormorò.Il processo è forse il romanzo più famoso di Kafka, che un lettore può leggere e rileggere, senza smettere mai di scoprirlo; come solo i grandi libri riescono a fare. Questa è la prima traduzione italiana, del 1933, che ha preceduto le altre lingue europee, traduzione molto vivace di Alberto Spaini, ottimo e benemerito traduttore, che ha fatto conoscere Kafka in Italia; è il libro che è stato in mano a tanti eccelsi estimatori di Kafka (Buzzati, Landolfi, Calvino, Fellini), perché per quarant'anni di traduzioni non ce ne sono state altre.Invito a rileggerlo e cogliere la comicità del romanzo, sottile, continua, quasi impalpabile, che faceva ridere gli amiciquando Kafka ha letto ad alta voce il primo capitolo, interrompendosi ogni tanto perché anche lui con le lacrime agli occhi rideva. Segue uno scritto di Michele Sisto che racconta come Kafka è stato conosciuto in Italia e, sulla base di questa traduzione, interpretato.E. C.

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Informazioni

Editore
Quodlibet
Anno
2020
eBook ISBN
9788822911742
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
«Cose dell’altro mondo»
Leggere e tradurre Kafka nell’Italia del 1933
di Michele Sisto
Quella che qui si ripubblica è la prima traduzione italiana del Processo di Kafka, uscita nella collana «Biblioteca europea» della casa editrice Frassinelli nel 1933 e rimasta l’unica per circa quarant’anni. È la traduzione che in Italia hanno letto quasi tutti, da Landolfi a Buzzati, da Vittorini a Fortini, da Calvino a Pasolini, da Elio Petri a Federico Fellini. Fa parte a pieno titolo del nostro repertorio letterario, come le versioni pavesiane di Moby Dick e Dedalus, uscite nella stessa collana, o quella di Berlin Alexanderplatz, firmata due anni prima dallo stesso Alberto Spaini. Nel presentarla, il direttore della «Biblioteca europea» Franco Antonicelli la vantava come una «novità assoluta», e non aveva torto: l’edizione francese del Processo, che di fatto avrebbe dato avvio alla fortuna internazionale di Kafka, sarebbe apparsa solo alcune settimane più tardi. L’unico suo romanzo tradotto in una lingua straniera era The Castle (1930), pubblicato a Londra da Willa e Edwin Muir, mentre la Metamorfosi restava confinata al circuito, prestigioso ma ristretto, delle riviste letterarie, come la «Revista de Occidente» di Ortega y Gasset (1925) e la «Nouvelle Revue Française» di Jean Paulhan (1928).
Oggi può sorprendere che a dieci anni dalla morte di Kafka, autore che consideriamo un classico indiscusso, si fosse tradotta appena una manciata di testi. In realtà sarebbe stupefacente il contrario. Pubblicare uno scrittore così inconsueto, e in quel momento noto solo a pochi letterati, non era certo un affare, in Italia come altrove. Le case editrici più grandi, come Treves o Mondadori, se ne guardavano bene; quelle più piccole e disposte a rischiare potevano avere interesse a tradurlo solo a condizione che rientrasse nel loro progetto di catalogo: ma Slavia, Modernissima e Bompiani, per non citare che le principali, guardavano in altre direzioni, al racconto psicologico, alla «letteratura dell’asfalto», al «romanzo collettivo». Per decidere di tradurre un autore scarsamente vendibile come Kafka, insomma, bisognava non solo compiere un atto di fede nel suo valore letterario, ma anche condividere, almeno in una certa misura, la sua poetica (o credere di farlo). Ogni traduzione che non risponda a semplici esigenze di mercato è una scommessa, una storia di ordinaria avventura, che è interessante ricostruire.
Uno che risuscita
Nel caso del Processo tutto comincia nel gennaio del 1933, quando sulla rivista «Pègaso» di Ugo Ojetti, già direttore dell’istituzionalissimo «Corriere della Sera», esce un articolo di Enrico Rocca dal titolo Uno che risuscita: Franz Kafka. Kafka, come si accennava, era già noto agli addetti ai lavori: l’apparizione del Processo in Germania era stata segnalata nel 1927 da Lavinia Mazzucchetti sul mensile letterario della Treves «I libri del giorno» in un breve articolo intitolato Franz Kafka e il novecentismo («Mutato senso della realtà, sgomento di fronte alla realtà, misticismo senza isterismo, bontà senza tenerezza feminea, smarrimento nella morte senza negazione del trascendente: ecco un novecentismo sorto nel profondo di un’anima d’artista che ci fa rispettosi e pensosi») e l’anno successivo la rivista «Il Convegno» aveva pubblicato, forse su sollecitazione del futuro fondatore della casa editrice Adelphi Bobi Bazlen, quattro brevi racconti, nella traduzione del triestino Giuseppe Menassé e con una breve prefazione di Silvio Benco («Il più originale scrittore [tedesco] del secolo ventesimo», un «maestro dell’attenzione angosciosa»). Ma questi interventi non avevano suscitato l’attenzione delle altre riviste letterarie, né di alcun editore. Con l’articolo di Rocca, invece, si innesca una discussione che nel giro di pochi mesi coinvolge i principali circoli letterari, da Torino a Firenze e Roma.
Rocca, per parte sua, si era accostato a Kafka per motivi, possiamo dire, professionali. Goriziano, di famiglia ebraica – e cugino di Carlo ­Michelstaedter – dopo la guerra si era stabilito a Roma, dove dal ’26 era caporedattore culturale del «Lavoro fascista». Qui recensiva le principali novità letterarie tedesche, spesso in cronache inviate direttamente da Berlino o da Vienna. Aveva dunque tutto l’interesse a leggere sia gli autori del momento, come Thomas Mann, Joseph Roth o Stefan Zweig, con i quali spesso intratteneva una corrispondenza personale o anche più stretti rapporti di amicizia, sia quelli ancora poco accreditati, come Kafka. Occasionalmente faceva anche qualche traduzione, e non di poca importanza: Il Golem di Meyrink, Amok di Stefan Zweig, Caterina va alla guerra di Adrienne Thomas. Giunto alla soglia dei cinquant’anni aveva cominciato a rielaborare il vasto materiale raccolto per farne un volume, rimasto incompiuto e uscito postumo col titolo Storia della letteratura tedesca dal 1871 al 1933, in cui intendeva dare a Kafka un posto di rilievo, inserendolo nel capitolo «L’evasione dalla realtà». Nei primi anni ’20 Rocca aveva aderito al movimento fascista e al futurismo, distaccandosene poi a poco a poco a prezzo di un lungo travaglio spirituale, le cui tracce si possono ritrovare anche nell’articolo del ’33, già a partire dal titolo. Uno che risuscita è infatti da intendersi in senso transitivo: Kafka è, secondo Rocca, uno scrittore che ci risuscita, che ridesta lo spirito dal torpore in cui l’esistenza di ogni giorno lo affonda.
Le sue opere, in cui il mostruoso «passeggia così concreto tra le cose quotidiane», scrive alludendo alla Metamorfosi, danno voce «allo sgomento che ci assale se, astraendoci da quelle stesse diuturne faccende, consideriamo d’improvviso la nostra miseria inceppante a contrasto con l’insopprimibile impulso dello spirito alla libertà». Sulla scorta di Max Brod, Rocca è il primo a introdurre in Italia il mito di Kafka, narrandone la vita nel codice dell’agiografia, e facendone, come già Papini con Nietzsche, una sorta di martire moderno, un santo, potremmo dire con Musil, senza qualità.
Fragile giunco umano, dolce figura di principe trasognato, solo gli intimi potevan sapere, durante il suo breve soggiorno in terra, quanto la vita di Kafka somigliasse alla lotta di Giacobbe con l’Angelo per la conquista angelica o demoniaca delle ultime verità. Strapparle a Dio, cercarne il riflesso nella contraddittoria e quasi indecifrabile complicazione delle cose, realizzarle in sé con un’intelligenza sdegnosa di ogni compromesso e pari soltanto alla mitezza verso i propri simili sembrava essere l’unico cómpito pratico di questo pellegrino desideroso d’inquadrarsi nella vita di tutti, ma non prima d’essersi persuaso delle ragioni del vivere. Avviato verso il giure e sentendo parassitarie tutte le professioni, egli cerca e non trova il mestiere adatto alla sua debole fibra; assetato d’amore, rinuncia ad esser felice per non costringer altri e non sottrarre sé all’ineluttabilità dei propri imperativi.
Pagine come questa danno avvio a quella nutrita schiera di interpretazioni in chiave biografica e religiosa che domineranno la ricezione di Kafka per decenni. Ma qui importa soprattutto osservare come per Rocca le radici della ricerca spirituale di Kafka stiano nel suo non sapersi «inquadrare nella vita di tutti» perché non è «persuaso» delle sue ragioni, perché «non trova il mestiere adatto», perché la sua intelligenza è «sdegnosa di ogni compromesso» e i suoi imperativi sono «ineluttabili». È questa radicalità a fare di Kafka un «veggente temerario» che parte dall’astrazione del sogno per «dare corpo a una sua spirituale realtà»: un «grande poeta religioso» e uno «strenuo campione dello spirito» che può essere di conforto e di esempio in tempi difficili. Si comprende come, negli anni turbolenti a cavallo fra l’ascesa del fascismo, il crollo delle borse del ’29 e l’ascesa di Hitler, un’interpreta...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Il processo
  4. I. Arresto. Conversazione colla signora Grubach. Entra la signorina Bürstner
  5. II. Prima inchiesta
  6. III. Nella sala delle adunanze vuota. Lo studente. nLe cancellerie
  7. IV. L’amica della signorina Bürstner
  8. V. Il frustatore
  9. VI. Lo zio. Leni
  10. VII. L’avvocato. L’industriale. Il pittore
  11. VIII. Il commerciante Block. L’avvocato viene licenziato
  12. IX. Nel duomo
  13. X. La fine
  14. Capitoli incompiuti e passi eliminati dall’autore
  15. Daria Biagi, Nota alla traduzione
  16. Michele Sisto, «Cose dell’altro mondo» Leggere e tradurre Kafka nell’Italia del 1933