1. Prologo
“Le nostre città sembrano espressione di uno solo dei valori conquistati dalla cultura del nostro tempo: l’incomprimibilità dell'individuo. Ma sono la negazione di tutti gli altri: l'eguaglianza, la giustizia sociale, la solidarietà, la tolleranza, la capacità di coordinare gli sforzi su dimensioni praticamente illimitate, la consapevolezza della sfida perenne che è intrinseca con la conoscenza e con l'opera dell'uomo”.
(Gaetano Di Benedetto, I suoli di Izdik. Dialogo sull’edificabilità, ed. Cultura della Pace, Firenze, 1997)
La città è un fatto artificiale, in cui si mescolano elementi volontari ed elementi casuali, non rigorosamente controllabili: più che a ogni altra cosa somiglia ad un sogno.
L’abitante della città è soggetto non solo alla propria condizione di disagio individuale, ma anche a quella della società di cui fa parte: nella sua personalità sociale si incarnano, androginicamente, il fondatore della città e l’ignota divinità tutelare.
Oggi esiste la necessità di individuare nella struttura urbana la sua funzione rigeneratrice e conciliatrice, come nei tempi preistorici, e soprattutto, per quanto riguarda la conciliazione, tra maschile e femminile, tra déi superi e inferi, tra città e campagna, tra popolazione e territorio. La costruzione degli insediamenti nel mondo antico, e poi Etrusco e Romano, era caratterizzato dai seguenti elementi: la messa in atto, al momento della fondazione, di una rievocazione drammatica della creazione del mondo; l’incorporazione di quest’azione drammatica nella pianta dell’insediamento, come pure negli ordinamenti sociali e religiosi; il conseguimento di quest’ultimo scopo mediante il parallelismo fra gli assi della pianta urbana e quelli dell’universo; la ripetizione della cosmogonia di fondazione nel corso di feste periodiche e la sua incorporazione a scopo commemorativo nei monumenti locali. Nei secoli XV e XVI in Italia ci furono molti tentativi di far rivivere questi rituali, come ritroviamo nella descrizione del Filarete la cerimonia di fondazione della città ideale di Sforzinda{1}. In ogni civiltà era necessario che l’organizzazione umana fosse innestata in un complesso di norme alle quali l’uomo poteva sembrare estraneo. Questa idea di città, illustrata nel famoso libro di Rykwert{2} che ne ripercorre magistralmente la genesi e lo sviluppo di un modello di cui dovremmo forse tener ancora conto, non può prescindere da ciò che è la vita nel sistema urbano: una forma di esistenza parapsicotica, quasi una malattia sociale.
Come scrisse Jacques Monod{3}, è tempo che ci assumiamo i rischi dell’avventura umana. Non basta più edificare, bisogna sapere perché e come, e quali saranno gli effetti: dobbiamo imparare a fare bene. Non è più pensabile il continuare a perpetrare azioni di “rattoppo” su edifici e infrastrutture, in corsa verso un futuro che anticipa quella caducità di Benjamin che lascia dietro di sé cumuli di rovine{4}, e al tempo stesso non immaginare che ciò sia senza conseguenze. Non è più credibile la deresponsabilizzazione di chi governa ma neppure quella dei cittadini e dei tecnici: è necessario costruire innanzitutto una comunità sinergiva, cioè sinergica e attiva, e appropriarsi del motto invest now or pay later!
Per questo è ora di rimboccarci le maniche e costruire il futuro, per noi e per chi verrà. Per fare questo è necessario eliminare del tutto il concetto della precarietà, instaurare rapporti responsabili tra governo e cittadini in modo che si costituisca un corpo unico, capace di agire in modo concreto e adeguato sul territorio che abita. Si deve innanzitutto accettare il fatto che la città, in particolare e per la sua stessa natura, è terreno del conflitto per eccellenza, che svolto in positivo può rivelare nuove possibilità e opportunità nel processo di emancipazione dalla passività e dalla prevaricazione.
Serve un progetto vero e condiviso, dove l’architettura, nel senso originale vitruviano che coniuga la capacità fabbricativa alla consapevolezza teorica, riassume un ruolo ben definito, dove l’eredità storica conta nelle scelte strategiche e dove le persone hanno valore, condizione essenziale per uno sviluppo costruttivo e felice.
Le possibili strategie di evoluzione dovranno quindi far emergere bisogni, conflitti, prospettive e soluzioni non neutrali, capaci di far parlare alla città un linguaggio più vicino a chi quotidianamente la attraversa, portando e vivendo in essa il genere e le questioni della gentrificazione, insieme ad altre forme di relazionalità, necessità, soggettività e aspirazioni. Sarà necessario recuperare il senso della cura intesa come rispetto, e ripristinare il valore della qualità in ogni cosa, con attenzione al particolare umano e al suo spazio di vita, poiché strettamente connessi.
Queste azioni, che sono già largamente sperimentate a livello europeo e internazionale, rimandano alla necessità di pensare alla qualità dello spazio pubblico urbano e adottare la prospettiva di genere quale riferimento privilegiato per affrontare e risolvere le problematiche della collettività. Applicare questa dimensione culturale e tecnica nelle nostre città, significa poter affrontare con maggiore conoscenza e consapevolezza le criticità evidenti e potenziali, per attivare nuove alleanze e sinergie, e costruire insieme in modo inclusivo, e in democrazia, un futuro possibile di ogni comunità.
Sulla base delle esperienze di successo, si dovrà decidere anche a livello politico locale il voler intraprendere una direzione efficacemente adeguata alla realtà di riferimento, con coraggio.
Per fare questo bisogna scrivere nuove norme, condivise, semplici e facilmente applicabili in tempi brevi: in primis, serve l’impegno delle Istituzioni nella promozione di una reale equità di partecipazione nelle definizione di cariche in luoghi decisionali, pubblici e politici, dove donne e uomini possano superare l’imparzialità per la costruzione di una comunità democratica.
E in parallelo, adottare il gender mainstreaming come regola fissa in tutte le azioni e questioni relative la comunità, per poi istituire la progettazione di genere come azione plurale, che significa tenere in considerazione le differenze dei propri cittadini, intese più come differenze nelle condizioni socio-culturali che biologiche, così come definito a livello internazionale nei punti dei Diritti dell’Uomo e della Donna. Sarà quindi fondamentale dare una priorità comune agli impegni di cura e alla gestione qualitativa degli spazi collettivi, garantire l’accessibilità alla vita lavorativa e sociale-decisionale, instaurare condizioni di sicurezza per tutti, e insegnare alla comunità che la città è il risultato delle azioni di tutti i suoi cittadini, senza distinzioni.
Infatti, se “la città è innanzitutto lo sguardo che la osserva e l’animo che la vive”, per usare le parole di Magris{5}, dovremo dunque capire di chi è la città e chi la abita.
Infine, si dovrà promuovere la parità di genere nell’educazione scolastica e nella formazione universitaria e professionale permanente, come processo di allineamento alle direttive tematiche e recepimento della direzione presa in tal senso dalla Unione Europea e dagli Stati membri, e come programma imprescindibile per la costituzione di una società responsabile e pensante, matura e capace di gestire e risolvere i conflitti, e al tempo stesso abile nell’edificare nuovi modelli di vita pacifici e performanti, a vantaggio di tutti.
Lo scritto che segue vuole scavare una fenditura nelle compatte questioni della città, per arrivare nelle pieghe dei suoi molteplici risvolti e delle sue necessità, per aprire un dialogo costruttivo e plurale quale premessa di un diverso e più agevole abitare umano, attuabile anche attraverso un nuovo rapporto di complementarità tra l’umanità e il paesaggio materiale e immateriale dello spazio in cui si incontra.
Un altro obiettivo di questo breve saggio sta nell’esigenza di aprire la discussione sulla prospettiva di genere, al fine di illustrare in maniera quasi didascalica i significati e la complessità che sottende, per divulgarne in modo trasversale i vantaggi e i benefici potenziali, con l’auspicio di poter iniziare a utilizzare un linguaggio comune nelle questioni che riguardano lo spazio, senza fraintendimenti.
2. Verso la Città di Tutti
Le questioni di genere
La città del futuro, come luogo in cui la comunità potrà condividere una crescita accessibile e felice, dovrà dotarsi di dispositivi che possano eliminare ogni tipo di barriera, fisica e culturale, con spazi comuni, quotidiani, prossimi. La città presuppone, nel suo stesso significato di insediamento umano (ovvero da civitas-atis), la “condizione di cittadino” e l’“insieme di cittadini”, cioè dare la possibilità di abitare e offrire ai suoi abitanti quanto necessario per una favorevole condizione di vita sociale.
La cura e le politiche sociali dovranno così rientrare in quelli che sono i concetti alla base del diritto dell’abitare, in forma individuale e collettiva, negli spazi privati e in quelli pubblici, e diventare la sfida per il futuro, per la vita della cittadinanza e la qualità delle città, al fine di ristabilire l’intelligenza dei territori e delle differenze.
Le possibili strategie di pianificazione urbana dovranno far emergere bisogni, conflitti, prospettive e soluzioni non neutrali, capaci di far parlare alla città un linguaggio più vicino a chi quotidianamente la attraversa, portando e vivendo in essa il genere e le questioni della gentrificazione, insieme ad altre forme di relazionalità, conflitto, soggettività.
Per fare questo, è necessario riprendere con convinzione l’atteggiamento della cura in ogni progetto e azione. Cura intesa come rispetto delle persone e delle cose, della qualità, con attenzione al particolare umano e al suo spazio di vita, poiché strettamente connessi.
La progettazione di genere, applicata agli spazi pubblici e collettivi nell’ambito urbano, sarà l’innovativa dimensione con cui affrontare con maggiore conoscenza e consapevolezza le problematiche, i conflitti e le aspirazioni delle nostre città.
La progettazione di genere nasce come misura e contrapposizione all’evidenza delle situazioni di vantaggio e svantaggio che si manifestano nell’ambito urbano a carico di alcune fasce della popolazione.
Ma, innanzitutto, è necessario capire cosa si intende per genere.
Il termine italiano genere traduce l’anglosassone gender, introdotto nel contesto delle scienze umane e sociali per designare i molti e complessi modi in cui le differenze tra i sessi acquistano significato e diventano fattori strutturali nell’organizzazione della vita sociale. Il genere ha così assunto il ruolo di categoria di analisi e interpretazione della conformazione esclusivamente sociale dei ruoli femminili e maschili, applicabile quindi a donne e uomini, considerando le une e gli altri come insiemi ampi e articolati, attraversati da differenze di ceto, culturali, etniche, religiose, di orientamento sessuale, di età, etc. Tale accezione del genere ha trovato un fertile terreno di sviluppo nel contesto degli studi del settore e dei movimenti femminista e delle donne che, riconoscendone l’indubbia portata euristica, ne hanno problematizzato la funzione di categoria. Il genere, infatti, richiama l’identità quale carattere individuante in senso forte, laddove il concetto d’identità è tra i più discussi del femminismo contemporaneo occidentale, cioè nel contesto in cui gli studi di genere o Gender Studies sono stati più vitali e innovativi.
Il femminismo, come movimento e come riflessione teorica, è costitutivo degli studi di genere che si sono avviati proprio sull’onda lunga dell’emancipazione, da cui emerge che la cultura del genere conduce all’idea fondante che la differenza femminile-maschile è soprattutto relativa alle differenti caratteristiche o stereotipi, mettendo così in discussione il fondamento biologico-naturale della differenza tra i sessi come non definitivi e in alcun modo determinanti. Da qui ha inizio il vero significato di genere, ovvero quell’insieme articolato di caratteristiche di un individuo che lo differenziano in modo significativo e che mutano in relazione al luogo in cui si manifestano: a volte l’insieme di questi elementi sono più connessi all’aspetto biologico, a volte sono estranei ad esso.
In questo contesto, rimandando ad altra sede l’analisi delle molteplici questioni relative gli aspetti antropologici e filosofici sul tema, in relazione alle ben note criticità legate alla convivenza sociale tra generi, trovano fondamento i trattati europei e internazionali sui diritti della donna e dell’uomo e le politiche relative il gender mainstreaming volto a superare il gender gap.
Il gender gap, introdotto per la prima volta nel World Economic Forum del 2006{6}, che significa letteralmente il divario tra i generi, fa particolare riferimento alle differenze tra i sessi e alla sperequazione sociale e professionale esistente tra donne e uomini. Questo divario è rappresentato, ad esempio, da un difficile accesso della donna ad ambiti di ricerca di alto livello, a ruoli importanti in politica e nei tavoli decisionali, ed ancora nelle questioni relative la pari accessibilità a posti lavorativi con pari trattamento economico.
Per superare queste disuguaglianze a livello internazionale, nel 1948 venne firmata a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, successivamente adottata e promossa dalle Nazioni Unite affinché la stessa trovasse applicazione in tutti gli Stati membri. La Comunità Europea ha poi inserito già nel Trattato di Roma del 1957 la questione dell’uguaglianza tra donna e uomo nell’ambito delle pari opportunità in campo lavorativo e remunerativo, come una delle priorità da...