Parola d'uomo
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Parola d'uomo

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Parola d'uomo

Informazioni su questo libro

Roger Garaudy è stato un filosofo fuori dagli schemi nel panorama culturale francese e internazionale. In questo testo dà voce a riflessioni che riguardano i grandi temi dell'uomo, affrontati con una prospettiva che lascia intendere un "metodo" filosofico orientato al dialogo, alla conoscenza incessante del diverso da sé, alla comprensione di mondi lontani dal proprio. Le parole dell'uomo Garaudy riguardano la vita, la morte, il presente, il futuro, la fede, la politica e molto altro. Ognuna di queste "parole" viene analizzata anche a partire dalla vita politica intensa dell'autore. Ne esce un affresco dai colori forti e vivi, che lascia al lettore un'eredità di pensiero ed esperienza di grande spessore. Con un linguaggio semplice ed essenziale, Garaudy ci guida in ciò che è essenziale per l'uomo, aprendoci a nuove domande piuttosto che chiuderci in spazi di pensiero troppo angusti.

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Informazioni

Libertà? Liberazione?

La trama del mondo è fatta di necessità e rischio. La ragione umana ti situa tra i due e li sa dirigere.
GOETHE, Wilhelm Master
Parlare della vita non è soltanto dire ciò che si è tentato di farne, ma anche ciò che essa ha fatto di noi.
Ecco dunque la trama, la storia di tutti, nella quale si è iscritta la mia avventura personale come io l’ho tracciata nel 1968 in Peut-on être communiste aujourd’hui? L’ottica della mia vita non è cambiata. Io scrivo sempre alla stessa luce, fino dai vent’anni, ed è la mia fierezza e la mia gioia: essere rimasto fedele, dopo sessantanni, ai sogni dei miei vent’anni. Gli uomini della mia generazione sono nati in un clima di mobilitazione generale.
Nel senso stretto della parola.
All’alba del 2 agosto 1914 (avevo allora tredici mesi) i nostri padri, prima di «partire», sono venuti a baciarci nelle nostre culle.
Vent anni dopo noi facevamo lo stesso gesto.
Ciò che si è convenuto chiamare la nostra giovinezza è circoscritta da due mattini rossi. Giovinezza cresciuta nella burrasca, noi abbiamo conosciuto tutto, salvo la pace. Il mio ricordo più antico è quello dei miei cinque anni, quando mio padre tornò dal fronte con le grucce, perché gli erano state spezzate le ossa, con odio, perché gli avevano mentito e, io lo seppi più tardi, con nel cuore Le Feu di Barbusse che non era soltanto ira ma speranza, in ogni caso, rifiuto di rinunciare.
Quel ritorno non era nemmeno una gioia, perché mio padre era nervoso e rabbioso dopo tanti dolori ai quali egli non poteva dare un senso e perché mia madre doveva fare una lotta quotidiana per evitarci di aver fame. La miseria mordeva la nostra tavola e quella di altre migliaia nelle nostre case operaie. I giornali la chiamavano inflazione, un nome di malattia e di incubo, che noi non comprendevamo ma che ci faceva paura.
Dietro i muri della casa noi sentivamo gli echi di altre lotte: da una parte grida e disperazione, dall’altra uniformi e scoppi di arma da fuoco. Nei libri di storia il fenomeno si chiama scioperi del 1920 e rivoluzioni abortite dell’Europa, soprattutto in Germania e in Ungheria.
Io avevo dieci anni quando, dopo la «Grande Guerra», incominciò la piccola guerra, quella del Marocco.
Ne avevo quindici quando e alla prima e alla seconda, successe la grande crisi: in Olanda si sgozzarono 200.000 mucche lattifere mentre nel mondo i bambini di venti milioni di disoccupati mancavano di latte. Gli ungheresi morivano di miseria sui loro mucchi di grano mentre gli scaricatori sulle banchine del porto di Genova lottavano per un tozzo di pane.
In quella pace dai colori dell’Apocalisse sono sorti strani messia: uno rivestiva i suoi cani di camicie nere, come i corvi; l’altro di camicie brune, come gli avvoltoi. Essi scagliavano le loro mute sui più deboli: l’Etiopia, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Spagna, la crocifissione di tutti i popoli.
1939. Dopo gli abbandoni di Monaco, poi il non intervento in Spagna, la Francia è esposta su tre fronti alla invasione hitleriana e fascista. La destra francese, messa nell’inerzia, nella tradizione di Versailles, alcuni dicono nella disfatta, per l’odio e la paura del popolo che tre anni prima costituiva il Fronte popolare. Il Fronte popolare, non avendo nessuna struttura alla base, è crollato a ogni tradimento di uno dei suoi capi: Daladier, che a Monaco abbandonò la Cecoslovacchia a Hitler, Leon Blum che, col non intervento in Spagna, ha permesso l’intervento aperto di Hitler e di Mussolini accanto a Franco e ha abbandonato la Repubblica spagnola al fascismo. Il Partito comunista, isolato e subito messo fuori legge, non può ancora, nel 1939, galvanizzare le masse nella lotta anti-hitleriana. Dal punto di vista militare l’incapacità, perfino il tradimento, logorano lo stato maggiore.
Io terminavo il servizio militare (prolungato un anno dopo Monaco) quando scoppiò la guerra. Ricordo il giorno in cui, a Tolosa, nel gruppo di suddivisione di rue Duranti, fui coperto di sputi, di insulti e di percosse per essermi rifiutato di sconfessare il patto germano-sovietico. Per essere sincero devo dire che allora le cose non mi erano molto chiare, ma tenevo duro perché la stampa faceva allora un chiasso da stordire su quel patto, come alibi ai tradimenti della grande borghesia francese.
La mobilitazione si fece in un clima di scoraggiamento e di rassegnazione che preannunciava la disfatta. Io avevo l’impressione di tentare un corpo a corpo per onore, e lo feci meglio che potei, perché era contro il nazismo. Alla fine di agosto, prima del congedo, ricevevo la Croix de guerre; il 14 settembre del 1940, nel Tarn, agli inizi della riorganizzazione del Partito, ero stato arrestato come «individuo pericoloso per la difesa nazionale e la sicurezza pubblica».
Dopo di allora feci trentatré mesi di prigione e di campo di concentramento.
Non ricordo quale intellettuale ha scritto: «Nascere povero è guadagnare trent’anni». Secondo la mia esperienza personale, è vero che il fatto di essere nato in una famiglia operaia e di aver vissuto la vita della classe operaia, pur avendo il privilegio di accedere alla eredità della cultura, mi ha fatto recuperare una buona decina di anni nella presa di coscienza della contraddizione fondamentale che a vent’anni, nel 1933, mi fece aderire al Partito comunista.
L’esistenza di due mondi in contraddizione: quello della vita quotidiana e quello della cultura, scrive Hegel all’inizio della sua Estetica, fa nascere il bisogno della filosofia. Questa esperienza vissuta di una contraddizione di valore universale mi ha personalmente condotto al marxismo per il bisogno di dare un senso alla mia vita, a quella vita che, in caso contrario, sarebbe stata irrimediabilmente doppia e lacerata, mutilata della metà di se stessa.
Mi sentivo suddito di due regni dalle leggi rigide e opposte.
Nella realtà quotidiana in cui ero nato e non avevo ancora conosciuto vite militanti, vedevo migliaia di vite triturate e di vite perdute, vite schiacciate dal lavoro e dal bisogno. Per quanto possa sembrare incredibile a coloro che non hanno vissuto tale esperienza, il senso della vita si imponeva dal di fuori, con la fatalità descritta da Marx nel Capitale: «La paura di perdere il pane proprio e quello dei figli incatena più fortemente l’operaio al carro del capitale, del martello di Efesto che inchiodava Prometeo alla rupe del Caucaso». Questo regno mi sembrava quello della necessità. Necessità tanto implacabile che i miei genitori non ne cercavano l’uscita con la ribellione. Essi non trovavano il senso della loro vita in se stessi ma nei loro figli, in me, con l’eroismo quotidiano e ostinato di persone che dedicano venticinque anni, tutta la loro giovinezza e l’età matura, tutte le loro privazioni e fatiche a un unico scopo: crescere i figli in modo tale da non avere una vita uguale alla loro. Il senso della loro vita era in questa negazione e in questo amore.
Diversi anni più tardi, quando fui presidente della commissione dell’Educazione nazionale, è questo che ricordai con ira alla tribuna della Camera dei deputati, durante una discussione sulla democratizzazione dell’insegnamento, a un deputato della destra che mi interruppe dicendomi: «Lei stesso è la prova che, nel nostro regime, che lei combatte, un figlio di operai può accedere alla più alta cultura!». Io ricordavo le mani deformate di mia nonna che, lavorando a giornata, prestava servizi e faceva bucati, le gambe livide di mia madre che vendeva di casa in casa del caffè perché io potessi continuare gli studi. Non è forse la prova della mostruosità di un sistema che, in una famiglia operaia, occorra il consumo di più vite per permettere a un solo figlio di accedere a questo privilegio?
Era questo l’altro polo della mia esperienza. Issato su questi sacrifici e su queste mutilazioni, sì, era un privilegio quello di cui godevo: emergere in un altro mondo che aveva tutte le apparenze della libertà. Si aveva il lusso di dare da sé un senso alla vita. Quel senso non gli era dato dal di fuori: sembrava nascere dalla nostra scelta. Ma questa luce troppo abbagliante, uscendo da un mondo in cui essa filtrava tanto poco, mi diede molto presto l’impressione di un arbitrio vertiginoso, di una libertà senza contenuto.
La contraddizione di questi due mondi, quello della vita di ogni giorno dei miei, e quello della cultura, mi dava la sensazione dell’irreale, del fantastico, e le vecchie antitesi e i vecchi concetti di necessità e di libertà, di materia e di spinto, mi sembravano ben tristi, astratti e grigi per esprimere la mia angoscia e la mia vertigine.
Avevo bisogno di una risposta più viva per strapparmi da questo dilemma vissuto.
Cercavo una parola di vita che mi rendesse conto contemporaneamente della legge dei miei due mondi, cioè che, nel linguaggio dei miei vent’anni, dimostrasse come il senso della vita poteva essere insieme subito come una necessità che si impone e assunto nella responsabilità di una scelta libera e solitaria. Io trovai innanzi tutto questa parola nel pensiero cristiano. Avevo avuto la fortuna di udire, a Aix, da studente, le ultime conferenze di Maurice Blondel, e noi ci passavamo l’un l’altro, di nascosto, la sua tesi condannata, L’Azione, della quale conservo ancora, come una fiaccola, una copia originale dattiloscritta. Ognuno dei suoi temi maggiori mi interpellava direttamente: l’uomo è troppo grande per bastare a se stesso; non può realizzarsi che superandosi; agire significa aggiungere al mondo qualcosa di sé; vi è sempre contraddizione tra l’infinità del volere e la finitezza, l’incompletezza degli obiettivi raggiunti: «le idee che ci portano in alto non sono tutte nostre; esse mettono in noi una forza che è quella di una presenza veramente trascendente»; «l’azione ha la sua propria linfa. È sempre al di là». Questo libro mi trasportava nel suo movimento. E io non ho cessato di seguirlo. Lo ritengo ancora uno dei più grandi libri che ho letto, uno di quelli che possono cambiare una vita.
Poi fu la volta della teologia di Karl Barth e della meditazione, a Strasburgo, nel 1935-1936, nella quale preparai il mio concorso di filosofia su tutta l’opera di Kierkegaard. Una trascendenza tanto esigente mi parve salvare tutte le mie contraddizioni intime. Essa non fermava la ricerca mediante sintesi astratte e manteneva tutte le tensioni interiori. Proibiva l’accontentarsi di sé e l’autosufficienza: «Tutto ciò che io dico di Dio, è un uomo che lo dice», scriveva Karl Barth. Io devo al suo Commento alla lettera ai Romani e al suo Parola di Dio, parola umana di aver compreso per la prima volta che cos’è una riflessione che porta in sé il proprio superamento.
La mia contraddizione veniva spostata. Non superata. Anzi, essa divenne per me ancora più insopportabile quando cercai di testimoniare, nella mia famiglia e nel partito, ciò che avevo intravisto. Dovetti arrendermi a questa evidenza brutale: la concezione cristiana del mondo mi escludeva dai miei, dalla classe operaia. Ne ho preso coscienza da più di un terzo di secolo. Da allora altri hanno fatto la stessa esperienza. Un fatto esemplare: i preti operai. Il mio errore era stato il loro: se fosse vero che la classe operaia è soltanto la classe che soffre, forse il cristianesimo corrisponderebbe al suo scopo, perché ha saputo esprimere e trasfigurare la sofferenza dandole un significato che la esalta al di là della natura, in modo «soprannaturale».
Ma la classe operaia non è soltanto coloro che soffrono. Non è soltanto schiacciata dalle leggi di ferro del capitale, ma ne porta in sé, con le sue lotte, la negazione vivente. Porta in sé i propri valori di pensiero e di azione, e i più alti valori sorgono dalla stessa lotta. Se io, fanciullo, non ho conosciuto che le tribolazioni della classe operaia e se queste tribolazioni non mi avevano posto che dei problemi, in seguito ho avuto l’esperienza delle lotte operaie; sono esse che mi hanno orientato verso le risposte e le soluzioni.
Ed è questo che mi ha condotto, nel 1933, ad aderire al Partito comunista. L’adesione portava tutto il peso della mia vita, il mio senso totale. Ero ancora, a Marsiglia, un militante cristiano e intendevo rimanere tale quando mi sono presentato alla sede del Partito comunista. Chi mi ricevette, un dirigente delle Jeunesses communistes, Guidicelli (che doveva cadere sotto le pallottole dei miliziani, a Lione, nel 1944) mi mostrò per la prima volta il testo di Lenin: anche un pope può entrare nel partito bolscevico, se adempie onestamente i suoi doveri di militante.
Allora non tutti avevano la stessa apertura, e quando io fui associato a una cellula, a Saint-Bernabé, un vecchio comunista, Tarnat, mi spiegò ampiamente che uno studente, come ero io, d’altronde che ogni intellettuale, era necessariamente un traditore, e che mi sarei disgustato quanto prima di quell’«avventura» che cercavo nel Partito! Egli mi fece affidare i compiti più ingrati: le affissioni di notte (senza marche da bollo, il che esigeva molte galoppate per non incorrere nella polizia, verso le due del mattino, nel centro di Marsiglia!), poi il servizio d’ordine (che consisteva soprattutto in tafferugli con le Croix de Feu del colonnello De La Roche). Sei mesi dopo Tarnat, volendo verificare il risultato di questo regime, mi chiedeva, ironico:
Rimani?
Rimango, e sono felice di rimanere.
Il vecchio Tarnat, militante esemplare, allora mi prese sotto la sua affettuosa protezione e io seppi dalla sua vedova, al mio ritorno dai campi di concentramento, che alla sua morte egli volle che si mettesse nella sua bara la mia ultima lettera nella quale io gli spiegavo in modo romantico, che non era nel suo carattere, che se avevo perduto la fede cristiana, non rinunciavo però a pensare che il comunismo deve integrare ciò che vi è di meglio nei valori cristiani.
Questa idea di «tenere i due capi della catena» — che non mi ha abbandonato in tutta la mia vita — nel 1937 mi fece abbozzare un romanzo: Le premier jour de ma vie, e ne mandai il manoscritto a Romain Rolland. La lettera di sette pagine con la quale mi rispose, con la sua scrittura fine e nervosa, è rimasta, come L’Azione di Blondel, uno dei «tizzoni» che non hanno mai perduto calore:
«Ho letto la sua lettera con emozione, con affetto, scriveva. La ringrazio della fiducia che mi dimostra dopo tanti anni e che mi esprime soltanto oggi. È da queste adesioni dell’anima, segrete, mute, che io mi sono sentito sostenuto nelle ore più solitarie della mia Vita. Sono felice che lei riprenda la missione di Cristoforo, che è di unire tra loro le grandi forze della vita. E questa missione è auspicabile soprattutto tra le forze religiose di fede e di amore operoso e le forze di fede e di azione sociale... L’armonia più bella, quando opera tra dissonanze (lei conosce la parola di Eraclito che le cito) non può essere che il frutto di un lungo seguito di prove e di sforzi, santificati da un amore leale...».
Io ero stato nominato da poco professore di filosofia a Albi, dove raccoglievo con avidità i ricordi di Jaurès, rimasti vivi in vecchi socialisti che lo avevano conosciuto e accompagnato nelle lotte. Con gioia mettevo le radici in quel Tarn nel quale si forgiavano le mie esperienze di militante comunista, percorrendo in bicicletta il dipartimento, città per città, villaggio per villaggio, con una predilezione per Carmaux dove ero stato ricevuto con tanto affetto dai minatori.
Nel Tarn ho incontrato per la prima volta Maurice Thorez, a Noailles, da Dupont, patriarca del socialismo francese, che aveva sedici anni al tempo della Comune di Parigi. Maurice Thorez lo amava come se fosse stato suo padre Quando papà Dupont gli parlò dello strano intellettuale venuto dal cristianesimo che militava al Bureau fédéral del Tarn, Maurice mi accolse a Noailles con una comprensione che non si è mai smentita fino alla sua morte. Egli mi parlò a lungo, quella sera, della Guerra dei contadini di Engels e del profetismo di Thomas Münzer nel tempo della Riforma. Era l’epoca in cui, dopo avere per il primo preso l’iniziativa della «mano tesa» ai cattolici nel movimento comunista internazionale, egli aveva ricordato — in un discorso alla Mutualité che dimostra come si trattasse di ben altro che di una manovra tattica — l’apporto cristiano alla nostra cultura. Per circa trent’anni noi abbiamo parlato con lui di questi problemi. Ricordo che un giorno, nel 1949, in cui egli mi fece chiamare nel suo ufficio, al 44, mostrandomi con un sorriso indulgente un pacco di lettere, mi disse: «I tuoi articoli valgono per me come una grande corrispond...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Autoritratto
  3. L’amore
  4. La morte
  5. Il senso della vita
  6. Il piacere
  7. La felicità
  8. La vita quotidiana
  9. Libertà? Liberazione?
  10. Il lavoro
  11. Gli altri
  12. Il passato
  13. Il presente
  14. L’avvenire
  15. La politica
  16. La città ideale
  17. Una fede
  18. E poi ancora...