Abafi
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Abafi

Miklós Jósika, Antonino Branca

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Abafi

Miklós Jósika, Antonino Branca

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Sullo sfondo degli splendidi paesaggi della Transilvania del tardo sedicesimo secolo, in un alternarsi di realtà storica e fantasia si svolge, tra avventure, amori tormentati, battaglie, congiure e misteri, la catarsi morale di Olivér Abafi, giovane cavaliere di nobile famiglia. La determinazione, la gratitudine e il sacrificio sono le colonne portanti di quest’opera senza tempo, primo esempio di romanzo storico della letteratura ungherese. “Una volta mi imbattei in unanovella intitolata Il Figlio Di Aba, unatraduzione serba dell’opera di Josika,un famosissimo scrittore ungherese.Questo libro riuscì a risvegliare lamia forza di volontà nascosta e iniziaicosì a praticare l’autocontrollo.” -Nikola Tesla

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833467450
Gratitudine e morte
“Versate, versate il mio sangue,
Volge la mia vita!
--- morire
Una bella morte per me”
Garay
Abafi arrivò alla sua tenda; molti dei suoi servi erano lì davanti. «Questo cavallo pallido per oggi resta con me,» disse, smontando e accarezzando sul collo il cavallo di Izidora, «trattatelo bene!». Una parte dei servitori si prese cura del cavallo, mentre Olivér entrò nella tenda. Essa, fatta di tela pesante bianca e rossa, aveva la base quadrata di circa sei cubiti per lato ed era internamente foderata con un raffinato tessuto turco. A sinistra, nell’angolo di fronte all’apertura, c’era la branda. La testata del letto era occupata da un gonfio cuscino rivestito di pelle di camoscio e da una coperta, di fatto un ampio mantello verde chiaro; accanto al letto c’erano due lunghi bauli posti l’uno accanto all’altro e coperti da un tappeto turco piegato diverse volte, a formare insieme al letto una specie di sofà. Sul lato opposto, su di una rastrelliera di pali di legno piantata in terra, erano appese le sue numerose armi, lucidate a specchio.
Nella tenda c’era un vecchio servitore. «Si sta facendo buio, Péter!» disse Abafi togliendosi l’elmo. «Manda via tutti questi servi rumorosi qua fuori; voglio stare da solo con te».
Péter obbedì all’ordine e tornò da solo.
«Toglimi questa cotta pesante dal collo» disse il padrone.
«La spalla del signore sanguina!» osservò tristemente il servo. «Meglio tagliare la maglia di ferro a metà.»
«Aspetta,» disse Abafi, liberandosi della spada, «alza da destra... fai attenzione... non tirare in fretta... così». Péter gli tolse con cautela la cotta dal collo.
«Il signore è stato fortunato con questa maglia perché altrimenti avrebbe rischiato il braccio. Porto l’acqua; il sangue ha sporcato il dolman.»
«Prima devo togliermi i vestiti, anche se faccio fatica da solo con questo braccio». Detto questo, si sbottonò la camicia con una mano.
«Signore,» disse Péter, sfilandogli piano la manica destra, «sarà meglio tagliare l’altra manica; mi pare che la spalla sia gonfia.»
«Non importa. Non hai visto nessuno?»
«Oggi ancora no; ma ieri una persona avvolta nel mantello ha guardato nella tenda con fare sospetto; ho cercato di prenderla da dietro, ma mi è sfuggita, mescolandosi tra la folla e non l’ho più vista.»
«Fulmine.»
«Sono pronto a giurare che non era lei.»
«E chi era?» disse Abafi appoggiandosi al letto. «Ma di questo parleremo dopo; adesso presto con l’acqua.»
Il servo uscì, portò presto dell’acqua in un vaso di ferro e lavò con grande cura il braccio insanguinato del suo padrone. «La ferita non è profonda,» osservò il domestico, «ma sarebbe comunque bene chiamare il vecchio Gyárfás, che non è lontano.»
«Sono d’accordo; ma prima fascialo come puoi; perché ricomincia a sanguinare.»
Péter coprì bene o male la ferita con un panno strappato e fasciò la spalla con una striscia della manica sinistra.
Abafi, appoggiandosi sul gomito sano, si sdraiò sul letto. Attraverso l’apertura della tenda, che non era lontana dal fuoco del bivacco, aveva una buona percezione delle guardie che facevano la ronda per il campo, del brusio dei soldati, del nitrire dei cavalli, del rumore delle spade, tutti quei suoni che formano il tipico fragore bellico, che rende così vivace e rumorosa la vita militare.
Poco dopo che Péter era uscito, il cavallo di Fulmine fuori cominciò a raschiare il terreno e a nitrire rumorosamente. Un bel giovane poi entrò nella tenda; era avvolto in un mantello verde e in testa aveva un semplice cappuccio rosso.
«Izidora, sei tu!» esclamò Abafi. «Anima generosa, il tuo destriero è sano e salvo; te lo riporto domani, lascialo qui a rifocillarsi stasera. Ma cosa ti porta qui?»
Izidora si tolse il mantello e la debole luce del fuoco illuminò il suo bel corpo; si avvicinò ad Abafi con fare premuroso. «Ho saputo della ferita di vostra grazia» disse «e la preoccupazione mi ha portata qui. È una ferita profonda? Dio, non me ne sono accorta subito, l’avrei fasciata sul campo di battaglia. Quanto sangue avrete perso da allora!»
«Calmati... la ferita è poca cosa. Sciogli questa fasciatura e guarda; ho mandato a chiamare Gyárfás; ma la tua manina delicata, anima devota, farà certamente meglio e più dolcemente.»
Izidora si tolse immediatamente un panno dal seno, lo poggiò sul letto, sciolse con cura la fasciatura e poi bendò di nuovo la ferita con abilità e tenerezza infinite. «Bollirò queste erbe: fanno bene;» disse mostrando un mazzolino «spero che Gyárfás approvi la mia cura. Sollevo il cuscino un po’ più in alto... Buono adesso! ... Fa ancora male?» chiese appoggiandosi ad Abafi. «Cielo! Eccomi!» improvvisamente gridò e si gettò su di lui.
In quel momento una freccia sibilò verso la testa di Abafi attraverso la tenda; ma trovò Izidora sulla sua strada.
«Ah! Cos’è questo?» gridò Abafi balzando in piedi. «Izidora, anima buona, cos’è successo? ... Cielo! Stai sanguinando… Aiuto!»
Fuori c’era un gran trambusto: grida concitate e anche qualche truce bestemmia. Abafi abbracciò Izidora, che si abbandonò tra le sue braccia: «Padre mio, o Olivér! ... Figlio mio! ... Oh, mio Dio! Come posso morire senza rivederlo!» e, dette queste parole, si stese sul suo volto un pallore mortale. Abafi l’adagiò sul letto.
«Fermati, maledetto!» gridò una voce familiare fuori dalla tenda.
Abafi corse fuori. Péter, Gyárfás e Bethlen tenevano per la gola l’uomo che aveva scoccato la freccia nella tenda esattamente verso il letto, dimostrando che sapeva bene dove mirare.
«Chi sei?» disse Bethlen. «Olivér, sei stato colpito?»
«Preferirei che avesse colpito me!» disse Abafi col dolore più profondo. «Invece sono rimasto illeso. Oh, vieni, Farkas, aiutami: la povera Fulmine forse è morta! ... E tu, Péter, corri alla tenda di Markó Deli; è là sotto nella valle, a destra, appena a trecento passi dalla tenda del principe; la riconoscerai per la bandiera verde. Prendi il mio cavallo migliore, sbrigati! ... Porta questo assassino da Pered; ne risponderà con la vita.»
«Izidora!» disse furente l’assassino. «Izidora, non tu, Abafi? Per tutti gli inferi! Come ho potuto fare un errore simile! ... Izidora,» gridò «ho colpito te? Te, per la cui vita ne getterei mille all’inferno! ... E tu vivi, Abafi! Tu, a cui era diretta la mia freccia?» e si dimenava cercando di liberarsi da coloro che lo trattenevano.
«È Brigata» si sentì dire, a malapena udibile, dalla tenda. «Oh, è orribile! ... Mio Dio, ti ringrazio che ha colpito me.»
«Lasciatemi!» disse Brigata volgendo attorno a sé uno sguardo folle. «Fatemela vedere ancora una volta, una volta sola! ... Oh, Izidora, maledetta l’ora in cui è stato costruito il mio arco! Maledetta la mano che l’ha teso! E maledetto mille volte, tu, Abafi, a cui miravo e al cui posto Izidora è stata colpita.»
Era orribile vedere Brigata alle prese con più di dieci persone che a stento riuscivano a trattenerlo.
Alla fine Brigata sembrò vacillare per il grande sforzo e non lottò più; aveva gli occhi gonfi, era disperato e riusciva a malapena a parlare, avendo la bocca coperta. «Ah,» disse «fermatevi un attimo! Vedete, sto buono e zitto come un bambino; non sto facendo niente! Legatemi le mani dietro la schiena,» continuò, girando tristemente gli occhi e porgendo le mani, «sono mansueto come un agnello! ... Ah, portatemi ancora una volta a baciare la polvere delle sue scarpe, a vedere i suoi occhi, anche furiosi, posarsi ancora una volta su di me. Cavatemi un occhio, ma fatemela vedere con l’altro per un momento e dopo» d...

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