Chitra
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Informazioni su questo libro

Chitra è una delle opere teatrali più note del premio Nobel Rabindranath Tagore. Alla sua prima uscita, nel 1914, colpì soprattutto per gli aspetti femministi (per l’epoca) che caratterizzavano il personaggio principale. Tratto dal Mahabharata, il dramma di Tagore è caratterizzato da una forma lirica che lo accomuna alle sue splendide poesie, è così ricco di fascino che, dopo averlo letto più volte, lo si può rileggere con la stessa passione e coinvolgimento per scoprire nuove e sorprendenti bellezze.

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INTRODUZIONE

Dalla remotissima delle letterature arriva fino a noi una certa forma di dramma, alla quale ci riesce difficile assegnare un posto che le dia nel nostro paese diritto di cittadinanza. L’India decrepita ci parla dal fondo dei suoi secoli con una voce fresca, ingenua, di una dolcezza infantile, che suona quasi nuova ai nostri orecchi.
Noi occidentali di oggi non sappiamo più essere ingenui, o per meglio dire, non siamo. L’arte dell’ingenuità non s’impara. Si è ingenui o non si è. Ed è appunto questa ingenuità di sensazioni immediate, di pensiero spontaneo, di paurosa ammirazione, che produce i grandiosi poemi delle incolte società primitive: incolte, cioè non corrotte. Oggi, da noi, il poeta è troppo ragionatore. Vuole ad ogni costo esser vero, e sdrucciola nel reale, cioè nel falso, poiché non è dato a noi veder le cose come sono, e il vero è sempre fuori del reale.
Il Tagore, così nei suoi drammi e nelle sue liriche come fino ad un certo punto nella sua filosofia, vuole esser poeta, e tale è veramente nel più squisito senso della parola. È antico ed è modernissimo. Vive col pensiero nel presente, in mezzo alla nostra società, e ci porta lontano fino al mondo fantastico di Valmichi, di Sudraka, di Bavabuti, di Calidasa.
Non serve qui fare sfoggio di una facile erudizione, mettendo a sacco le Enciclopedie. In queste potrà attingere chi ne abbia vaghezza i caratteri della lingua e della letteratura indiana, i nomi, le date, le opere, le scuole e via discorrendo. Per più ampie e sostanziali informazioni si consultino anche il Langlois, il Wilson, il Colebrooke, e quanti altri ne hanno scritto in opere speciali e nei volumi delle Asiatic Researches.
Poesia, scienza, morale, religione si collegano, anzi fanno un sol complesso di idee e di manifestazioni nella poesia indiana, più o meno tale. Il codice di Manù è disteso in versi e così pure molti trattati di filosofia. S’intende però che né in questi né in quello andremmo a cercar la poesia.
Il Tagore, come più sopra è detto, riesce ad assumere fisonomia moderna, benché dell’antico conservi molti caratteri fra i più spiccati. Ha tentato, forse senza pur saperlo, un innesto, e questo gli è così ben riuscito da metter subito fuori i germogli più rigogliosi e promettenti. La singolare letteratura esuberante di fantasia e di misticismo, sposata alla mentalità moderna, non che snaturarsi, ha conferito all’arte un certo speciale atteggiamento tra il concreto e l’astratto, che a momenti ci abbaglia con lampi di verità e di bellezza, a momenti ci sgomenta davanti al mistero, c’infonde una soave malinconia, ci solleva nelle pure regioni dello spirito, e ad ogni modo ci costringe a meditare.
Uno fra i principali canoni estetici del Tagore si desume da queste parole del suo Sādhanā: “In arte, affannandoci dietro l’originalità, noi perdiamo di vista il vero, che è antico ma sempre nuovo”.
Ma dov’è e qual è questo vero ch’egli cerca?
Nell’arte plastica, checché si dica dai sacerdoti della critica, noi guardiamo soprattutto alla forma, alla linea, alla rispondenza ed armonia delle parti: a questa verità di superficie le nostre esigenze si acquetano. L’Apollo del Belvedere, la Venere Medicea e in genere tutti i capolavori dell’arte greca, sono belli all’occhio del riguardante, anche quando non siano altro che pura e semplice espressione di bellezza visibile, poiché la bellezza ha il suo significato e compie l’ufficio suo nell’emozione stessa che suscita. Nella poesia invece, pur tenendo conto della forma, noi andiamo oltre e domandiamo l’idea che la determina. E nel Tagore l’idea abbonda, la quale gli germoglia dentro insieme col sentimento e vi si avvinghia così tenace da formar con esso tutt’una cosa. Dell’idea egli è così invasato da trascurare ogni sorta di artifizio, di lenocinio, di astuzia, che possa lusingar l’orecchio. Egli ha in orrore il verso che suona e che non crea. Nel Gitanjali dice francamente che il suo canto non ha pompa di vesti e di monili. Avendo qualche cosa da dirci, un suo pensiero da comunicarci, di questo unicamente è sollecito; e se a noi, qua e là, non riesce di afferrarlo nella sua interezza, la colpa va forse imputata alla non impeccabile dizione inglese, in cui il poeta ha voluto presentare al mondo occidentale l’opera sua.
Per Tagore, come per ogni altro poeta indiano, il dramma non è che un poema fatto per esser visto; e tal poema è di sua natura indirizzato ad un fine morale. Esso somiglia, secondo l’espressione di un loro scrittore, alla dolcificazione di una bevanda salutare. Ricordiate il nostro Torquato:
Così all’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso;
succhi amari, ingannato, intanto egli beve,
e dall’inganno suo vita riceve.
Oltre a ciò, in lui come nei suoi predecessori più o meno famosi, l’amore che negli altri generi di poesia è spesso lascivo, non appare mai assolutamente sensuale nel dramma, dal quale è anche escluso l’adulterio – che è tanta parte del nostro teatro – e che con tanta arroganza vien predicato nel Kotuka Sarvaswa: “La legge dice, Non fare adulterio... Parola insensata! Sia nostra guida ciò che i sapienti e gli stessi Numi osservano, non già precetti da essi tenuti in non cale. Indra deluse la moglie di Goiama; Siandra rapì la fidanzata del suo maestro; Iama sedusse la sposa di Pandù sotto la forma del marito; e Mahadeva corruppe le donne di tutti i pastori di Vrindavana. Solo i folli panditi, reputandosi grandi savi, han fatto colpa di queste cose. Ma mi diranno: – È precetto dei Risi. – Ebbene? Erano tutti impostori, condannavano piaceri che ad essi negava l’età cadente, e sol per invidia vietavano altrui i godimenti a loro interdetti. Vero, verissimo; mai non udimmo predicare dottrina così ortodossa”.
Ma qui si limita l’affinità dell’autore di Chitra coi suoi connazionali. Non complicazione di orditura, non necessità che il protagonista sia quasi sempre un nume, non il solito e abusato confidente, non il giullare (il vita e il vidusaka), non il prologo. L’autore entra subito in medias res, va diritto al suo scopo, e la sua protasi ci porta di balzo nel cuore dell’azione con la pittoresca avventura di caccia, dalla quale Chitra ritorna scornata ed afflitta.
Chitra è da capo a fondo un inno di glorificazione alla donna, un inno come nessuno ha mai intonato: alla donna, come il poeta la concepisce e forse come è veramente; ma non già, si badi bene, alla donna visibile. La bellezza visibile e tangibile, la prepotenza delle forme, l’incanto a cui non si resiste, non ha alcun valore in confronto della bellezza che non si vede con gli occhi del corpo. La prima bellezza è una qualità, la seconda una sostanza; quella abbaglia, questa innamora e conquide; l’una sfiorisce e muore, l’altra è di sua natura eterna. Rileggete, per intender meglio, la lirica XLIX del Giardiniere:
“Tengo le sue mani e la stringo al petto.
Provo a empir le mie braccia della sua bellezza, a rubare il suo dolce sorriso coi baci, e a bere i suoi sguardi neri...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. CHITRA
  3. Indice
  4. Intro
  5. INTRODUZIONE
  6. PREFAZIONE
  7. CHITRA
  8. SCENA I
  9. SCENA II
  10. SCENA III
  11. SCENA IV
  12. SCENA V
  13. SCENA VI
  14. SCENA VII
  15. SCENA VIII
  16. SCENA IX
  17. Ringraziamenti