FLORENCE MAY
«Ricordi personali»
da
LA VITA DI JOHANNES BRAHMS
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Non c’è bisogno di dire che accettai con entusiasmo la gentile offerta di Frau Schumann; decidemmo allora che avrebbe sentito il parere del Signor Brahms in merito alla sua disponibilità a darmi qualche lezione di pianoforte. Se avesse acconsentito, l’accordo si sarebbe considerato concluso, soggetto solo all’approvazione di mio padre che era sul punto di lasciare Londra per raggiungermi a Lichtental. L’indomani Frau Schumann mi informò che Brahms aveva accettato, e qualche giorno dopo, ricevuto il consenso da parte di mio padre, furono sistemati tutti i convenevoli e si decise che avrei avuto da Brahms due lezioni a settimana. «Dovete chiedergli di suonare per voi» disse Frau Schumann «e se vi darà la possibilità di ascoltarlo davvero, allora, solo allora, comincerete a conoscere Brahms.»
Brahms insegnante di pianoforte
Brahms univa in sé tutte le qualità che si suppone esistano in un maestro di pianoforte ideale; non una sola volta pensai diversamente. Non voglio fare della poesia, tanto più che lui stesso non avrebbe gradito. Simili lezioni potevano provenire solo da un uomo del genere. Fino ad oggi, non ho mai dimenticato la meraviglia di quelle lezioni e il suo donarle, né la gioia e lo stupore di aver avuto il destino di riceverle.
Era severo e assoluto; era gentile, paziente e incoraggiante; non era solo chiaro, era egli stesso Luce; conosceva tutto e sapeva insegnare; insegnava, con i metodi più semplici, ogni dettaglio tecnico; era costante nel suo sforzo di far cogliere al suo allievo il pieno significato musicale di qualsiasi pezzo avesse tra le mani, ed era sempre puntuale.
Non posso che trasmettere una debole impressione di ciò che quelle lezioni furono per me. Fin dalla prima ora in cui caddi sotto la sua diretta influenza musicale, sentii che si trattava di una forza che avrebbe continuato ad agire in me fino alla fine della mia vita. Tuttavia, potrei forse arricchire la concezione che di lui hanno gli amanti della sua musica descrivendone il carattere e le doti in un modo in cui finora – per quanto ne so – nessuno ha fatto. I dettagli personali che vi racconterò hanno lo scopo di mostrare quel lato del carattere di Brahms che conobbi così bene; di mostrarlo come l’insegnante e l’amico capace, sincero, incoraggiante, ispirato e ispiratore.
Ricordando ciò che Frau Schumann aveva detto riguardo alla sua abilità nell’assistermi sul piano della tecnica, ancor prima di iniziare la lezione, gli spiegai le mie difficoltà e gli chiesi di aiutarmi. «Sì» rispose «questa è la prima cosa da fare.» Dopo avermi sentito suonare un brano di Clementi tratto dal Gradus ad Parnassum, si mise subito all’opera per sciogliere e armonizzare le mie dita. A partire da quello stesso giorno, mi sottopose gradualmente a un intero corso di formazione tecnica, mostrandomi come lavorare al meglio per raggiungere il mio scopo su scale, arpeggi, trilli, doppie note e ottave.
Non solo mi spiegò come lavorare, ma all’inizio mi fece esercitare per gran parte delle lezioni, mentre lui, totalmente assorto, restava seduto a guardarmi le dita dicendomi dove sbagliavo nel muoverle e indicandomi con un movimento della sua stessa mano la posizione migliore.
Non credeva che per me fosse utile la pratica giornaliera degli esercizi ordinari a cinque dita, preferendo creare esercizi traendoli dai brani nei quali ero impegnata. Possedeva una grande abilità nell’aggirare i passaggi difficili e mi insegnò a suonarli non per come erano scritti, ma con altri accenti e varie figure, con il risultato che quando ci tornavo sopra le difficoltà erano notevolmente diminuite o spesso scomparse totalmente. «Come posso suonare questo passo?» gli chiedevo con la fiducia, mai delusa, che avrebbe trovato una scorciatoia per spianarmi la strada.
Il suo metodo per rilassare il polso devo dire che era originale. In ogni caso non lo vidi né udii mai se non da lui: in quindici giorni mi rilassò il polso con una modesta fatica da parte mia.
Come si mise a ridere un giorno, quando trionfante gli feci vedere che una delle mie nocche, allora piuttosto rigida e prominente, era rientrata e gli dissi: «Siete stato voi!».
Può sembrare incredibile, ma è nientemeno che la verità: dopo poche settimane di lavoro con lui l’aspetto delle mie mani era cambiato completamente. Così mio padre scrisse a mia madre: «Le sue mani sono completamente diverse da come le aveva; hanno perso ogni spigolosità ed è vero, come lei dice, che le nocche stanno scomparendo. Ho rinunciato all’idea di portarla a spasso con me, non permette a nulla di interferire con il suo studio del pianoforte. È entusiasmante la sua ammirazione per Brahms, dice che ha una pazienza incredibile e che tiene soprattutto al lavoro sulle dita».
Non si irritò mai, non fu mai indifferente, ma mi stimolò, aiutò e incoraggiò sempre. Un giorno, quando gli lamentai le carenze della mia precedente formazione tecnica e l’attuale difficoltà alle dita che ne derivava, mi disse: «Andrà tutto bene, ma non succederà in una settimana né in quattro».
Accorgendomi dello straordinario valore dei miei studi di tecnica con lui, avrei voluto che non si sentisse frenato, almeno all’inizio, dal propormi molti pezzi su cui lavorare. «Questo» disse «è molto giusto.» Iniziai a lavorare per piccole parti alla volta. Ecco un estratto di una delle mie lettere. La copio esattamente com’è, senza alterare il testo disattento che una ragazza scrisse in fretta e furia alla sua famiglia, in un intervallo di tempo tra un’esercitazione e l’altra:
«Le mie lezioni con Brahms sono veramente deliziose; non solo le lezioni in sé, mi fa sentire come se dovessi esercitarmi tutto il giorno e tutta la notte. Ho iniziato a mangiare molto al solo scopo di potermi esercitare! È così paziente, e si addolora così tanto, e io faccio ogni sorta di domanda, e le lezioni sono troppo piacevoli. A volte non riesco a capire le sue lezioni, eppure non si arrabbia mai per qualche sciocchezza, dice solo: “Ah, questo è molto difficile”. Un’ora di lezione, non è nulla. Sistematicamente le prepara di un’ora e mezza. Mi diverto tantissimo durante le lezioni. Sa fare al pianoforte il suono di una sarabanda come se fosse un violino. Non si aspetta mai molto, e non mi dà mai troppo da imparare, si accontenta sempre di poco se vede che uno ci prova davvero».
Era estremamente esigente sulla diteggiatura, in modo che potessi fare affidamento su tutte le dita nel modo più equo possibile. Un giorno, mentre mi guardava le mani durante l’esecuzione di uno studio di Clementi dal Gradus, obiettò a proposito della mia diteggiatura e mi chiese di cambiarla. Lo feci subito, ma dissi, sapendo che non c’era pericolo che si offendesse per l’osservazione, che avevo usato quella segnata da Clementi. Brahms, non avendo in quel momento gli occhi sulla partitura, non ci aveva fatto caso, ma subito disse: «Allora di certo non dovete cambiarla,» e non volle permettermi di adottare la sua, nonostante lo pregassi. «No, no, lui sapeva come andava eseguito.»
Portai con me dall’Inghilterra le mie copie di Bach, ma l’edizione era senza diteggiatura. Brahms volle allora che acquistassi il testo con la diteggiatura di Czerny e che usassi sempre quella. Non avrei dovuto adottare altre indicazioni.
Gran parte delle lezioni fu dedicata a Bach, al Clavicembalo ben temperato e alle Suites inglesi; e man mano che il mio modo di suonare si perfezionava tecnicamente, Brahms aumentava gradualmente la quantità e la difficoltà del lavoro, dedicando sempre più tempo al significato della musica che studiavo.
Il suo fraseggio, come mi insegnò, era – non c’è bisogno di dirlo – dei più ampi, mentre era molto rigoroso nell’esigere un’attenzione accurata e precisa ai più piccoli dettagli. Questi, a volte, li trattava come un delicato ricamo che riempiva e decorava l’ampio contorno della frase, sbarazzandosi totalmente di tutto ciò che potesse interferire. Luce e ombra, inoltre, erano gestite in modo tale da contribuire a farne emergere la continuità. Tuttavia, dichiarò con grande enfasi che non teorizzava mai su questi punti; si sforzava solo di farmi capire e suonare i miei pezzi come lui stesso li aveva capiti e sentiti.
Mi faceva ripetere più e più volte, dieci o dodici se necessario, parte di un movimento di Bach, finché non era soddisfatto di come iniziassi a realizzare i suoi desideri riguardo al suono e al significato del fraseggio. Quando non riuscivo a fare subito ciò che desiderava, diceva semplicemente: «Ma è così difficile», oppure «Verrà col tempo»; mi diceva di ripetere fino a quando non si accorgeva che il suo effetto stava per nascere e poi mi lasciava completare il lavoro. Nei due o tre giorni che intercorrevano tra una lezione e l’altra, dopo essermi esercitata al pianoforte, a volte portavo gli spartiti nel bosco per cercare di entrare nella sua mente, e se, quando arrivava, vi ero parzialmente riuscita, Brahms si dilettava a mostrare la sua soddisfazione. Il suo viso si illuminava e, con generosità, affermava: «Molto bene, tutto giusto; Frau Schumann sarebbe molto sorpresa di sentirvi suonare così» oppure «Stupirà Frau Schumann».
Malgrado la sua straordinaria coscienziosità per i dettagli, Brahms era totalmente esente dalla pedanteria e dalla tendenza a mettere ansia o nervosismo nell’allievo. Aveva grande piacere nel lodare, e se gli suonavo qualcosa per la prima volta in un modo che gli piaceva, niente l’avrebbe indotto a suggerire una parola o una modifica. «Va veramente bene; non ho nient’altro da dirvi» avrebbe detto; e anche se mi fossi sentita delusa nel non aver ricevuto alcuna osservazione e l’avessi supplicato di darmi qualche suggerimento, lui, irremovibile, avrebbe risposto: «No, va bene così; andiamo avanti». Questione finita.
Una mattina mio padre entrò nella stanza alla fine di una lezione e chiese a Brahms: «È stata brava, oggi?». «Seer fein» (molto brava) rispose, e rivolgendosi improvvisamente a me, aggiunse in tono perentorio: «Ditelo a vostro padre». Fui all’altezza della situazione e prontamente tradussi: «Il Signor Brahms dice di non essere molto soddisfatto oggi, papà». Il viso di mio padre assunse un’espressione un po’ preoccupata. Brahms guardò diritto davanti a sé, dispiaciuto e impassibile: «Gliel’ho detto» dissi.
«No, non gliel’avete detto.»
«Ma non sapete cosa gli ho detto, non conoscete l’inglese.»
«Lo conosco abbastanza da capire» affermò gelido.
«Il signor Brahms ha detto che sono stata abbastanza brava» rassicurai mio padre; poi a Brahms: «Adesso l’ho fatto».
«Sì, adesso» ammise con un’espressione compiaciuta.
Un altro giorno, nel bel mezzo di una lezione, la porta dello studio si aprì, e la mia affittacamere chiese di parlarmi. «No, signora Falk» dissi «sono impegnata e non posso vedere nessuno. Per favore esca di qui.» «Un momento, signorina» disse lei e insistette nell’entrare. Notai che aveva con sé una bella bambina di circa cinque anni che teneva in mano delle bellissime rose gialle. Frau Falk la lasciò avvicinare al pianoforte e tenne il suo discorsetto. La piccola era la figlia di un signore che abitava in una villa dei paraggi e, poiché stava col padre nel suo giardino pieno di rose, gli aveva chiesto se poteva portarne alcune alla signorina di cui sentivano spesso la musica. La piccola, vedendo che non ero sola, si fece subito timida quando mi diede i fiori e, chinando il viso, guardò in basso con le guance rosse quando si trovò di fronte le ginocchia di Brahms. Ma questo non era il genere di interruzioni che gli dispiacevano. «No» disse lui per convincerla «devi guardare la signorina e lasciare che ti ringrazi. Guardala; vuole ringraziarti.» Così rassicurammo la piccola, che alzò il viso verso di me per essere baciata, e lasciammo che Frau Falk la portasse via.
Una volta, poco dopo aver iniziato il mio lavoro con Brahms, alla fine della lezione gli chiesi se volesse suonarmi qualcosa, dicendogli che lo facevo per desiderio di Frau Schumann. Ci fu un istante di esitazione, ma poi si sedette al pianoforte. Proprio mentre stava per iniziare, girò la testa e disse timidamente: «Dovete imparare anche dagli errori». Questo fu l’inizio. Da quel giorno divenne sua abitudine suonare per una mezz’ora buona alla fine di ogni lezione. Spesso sceglieva Bach per la sua performance. Suonava a memoria uno o due dei preludi e delle fughe dal Clavicembalo ben temperato; poi riprendeva la musica e continuava a suonare o in base al suo umore o ciò che gli capitava. Quando arrivava alla fine di una composizione, io dicevo poco o niente oltre a «Ancora un po’», per paura di fermarlo, e lui girava le pagine per trovare un altro pezzo che gli piacesse. Non ricordo un suo commento, durante o dopo l’esecuzione, se non per dirmi di consegnargli un’altra partitura. Una volta sola fece res...