1. La realtà spirituale e il valore dell’essere.
Per provare a rispondere alle ultime questioni del capitolo precedente, occorre insistere sui temi della riflessione metafisica, “allo stesso modo in cui si gira e rigira intorno ad un luogo difficilmente accessibile”. Non è semplice, infatti, esprimere il mistero dell’essere.
Non posso trattare l’essere come tratto un oggetto o un sostantivo; propriamente, non posso com-prenderlo, ma contemprarlo come presenza; non racchiuderlo in un sistema “per me”, ma raccoglierlo nel mio stesso raccogliermi; in una parola, parteciparlo.
La “legittimità” di queste affermazioni metafisiche, da cosa mi deriva? Secondo Marcel, “in generale legittimità significa conformità ad una norma stabilita preliminarmente. Ma la natura particolare ed il carattere molto spesso avventuroso della ricerca metafisica ci fanno dubitare della validità di simili norme applicate alla metafisica stessa”.
In gioco, infatti, ci sono le condizioni di possibilità delle affermazioni intelligibili. Come individuarle? Non posso procedere arbitrariamente, senza un orientamento ben preciso della ricerca. Quale, allora, la “bussola”? Per Marcel non ci sono dubbi: “La nostra bussola, il nostro punto di riferimento non può essere altro che l’esperienza, considerata come una presenza massiccia, su cui deve fondarsi ogni nostra affermazione. Essa, considerata nell’indivisibile molteplicità dei suoi aspetti non è un’idea cui ci si deve “conformare”, ma ciò di cui si deve assolutamente tener conto, quando ci s’impegna, non dico a conoscere l’essere, perché è ormai chiaro che l’essere non è un oggetto da conoscere, ma a penetrare, ad avvicinarsi concretamente all’essere”. A riconoscerlo. L’esperienza, meglio la nostra esperienza, dato che quella di Marcel è una metafisica del “noi siamo”, è l’insieme di eventi vissuti e questi dicono la presenza degli altri e dell’universo, il dispiegarsi del loro essere che partecipa il mio. Partecipazione che, come detto, non è solamente “sostegno” esistenziale ma, in un senso ben preciso, anche ontologico: Gli eventi non sono in rapporto al pensiero come qualcosa di fortuito, accessorio e “contingente”, funzionali alla scoperta, nell’ambito della loro concretezza, di presunte strutture trascendentali del cogito da cui far dipendere la legittimità della ricerca metafisica. Essi incidono nell’unicità del mio essere, tanto che posso parlare di coessere 5. La mia vita stessa, partecipandosi, è evento che fa essere, incontro che trasforma me e gli altri; non posso puntualizzarlo, esaurirne la portata esistenziale nell’ambito ristretto di concetti, poiché è mistero. Se la vita è mistero, così come ogni forma di pensiero e riflessione inscritta in essa, si chiarisce meglio il perché Marcel parli sì di un mistero del conoscere, ma in rapporto non tanto “all’essere affermato quanto all’essere affermantesi”, tenendo presente proprio il dinamismo esistenziale dell’esperienza e il suo dispiegarsi come evento. Ogni tentativo di fissare il logos, di caratterizzarlo affermandone fondamenti oggettivi, si rivela illusorio. Del resto l’oggettività pura è un mito: portiamo sempre noi stessi, la nostra storia, in quel che affermiamo.
Come parlare dunque di legittimità metafisica che valga per tutti? Eccoci di nuovo alle prese con la ricerca dell universale, dell’universale concreto. Credo che la risposta tentata da Marcel sia in quel che è al centro della sua riflessione: l’interiorità, l’anima, lo spirito. Egli afferma nell’ultima lezione del 1949, ad Aberdeen: “In generale possiamo dire che la difficoltà maggiore con cui abbiamo avuto continuamente a che fare sta proprio nel fatto che lo spirituale sembra pretendere alla dignità di un’esistenza separata, mentre in realtà esso si costituisce veramente come spirituale solo a condizione di incarnarsi”.
Il nostro linguaggio ci espone continuamente al rischio di res-ificare ciò che è assolutamente irrappresentabile, facendoci fraintendere in senso spaziale quanto affermato, oppure dandocene un’immagine eterea, disincarnata e perciò più facilmente concepibile come impersonale, magari ipostatizzata e mascherata da una prospettiva trascendentale.
Nel tentativo di evitare un tale fraintendimento, possiamo affermare, in un’accezione analoga, che lo spirito è la luce propria al mistero di ciascuno, che si rivela nell’esistenza incarnata e rimanda al mistero stesso dell’essere, alla sua Fonte che stiamo cercando di “approcciare”.
Ispirandosi al platonismo, per Marcel la metafisica “concreta” è una “metafisica della luce”. Continuando il paragone con Platone, si può dire che per Marcel lo spirito è affine alla noèsis quale intuizione del Vero, come il sentire e il pensare sono più vicini al logos dialettico che dalla diànoia può elevarsi al nous. Se in Platone quest’ultima esclude la sensibilità del corpo nel raccogliere ad unità la molteplicità dei ritmi interni alla dialettica delle Idee, in Marcel la “Pianura della Verità” è l’esperienza stessa entro cui lo spirito contempla il mistero di sé e il mistero dell’essere, della realtà. “Se, come io credo, vi è una dialettica ascendente in un senso che non è poi talmente differente, come si potrebbe pensare, dal significato platonico, questa dialettica è duplice, essa si riferisce sia a una realtà, sia all’essere che ne coglie l’essenza”.
Indubitabilità del “certo esistenziale”, “intuizione riflessiva”, “idea profonda”, progressivo incalzare della domanda metafisica, “appetito dell’essere”, inquietudine della ricerca, “essere in cammino”, percepire il “sentimento di una promessa” che lega il passato all’avvenire, vicino e distante, in un Qui assoluto, sono tutti aspetti dello spirito. Possiamo raccoglierli in uno solo: la consapevolezza del proprio valore, di quell’altrui e dell’universo; valore positivo da riconoscere. L’essere, infatti, non si dà senza il valore, ma, ed è questo di capitale importanza per noi, paradossalmente non è così evidente alla coscienza: un “Mondo in frantumi” può facilmente eclissarlo. La riflessione recuperatrice di Marcel s’impegna proprio a ridestarne in noi la consapevolezza: ciò significa concretamente recuperare l’ “indice esistenziale”. L’epifania del valore, per così dire, non è una verità che s’impone in maniera cogente.
Sostanzialmente affidata a un’esperienza di gratuità dell’essere, più specificatamente dipende dalla possibilità di accorgerci del mistero, da quei condizionamenti e realtà che favoriscono o impediscono tale accorgimento, e dal modo in cui ciò avviene. La prima questione riguarda la contrapposizione tra l’atteggiamento egocentrico e oggettivo legato alla prospettiva dell’avere, da un lato, e l’apertura partecipativa all’essere, dall’altro; la seconda questione, invece, chiama in causa la riflessione metafisica marceliana che, inizialmente compiuta nell’ambito di un’ontologia delle presenze, perviene in seguito ad un’ontologia dell’invocazione. Che significa? L’analisi che segue si propone di chiarire queste specificità.
2. Dall’ontologia della presenza all’ontologia dell’invocazione.
La necessità di insistere, di continuare a riflettere sui “risultati” raggiunti dall’indagine metafisica, ha portato allo scoperto ulteriori questioni – non “problemi” – circa la legittimità della ricerca e il valore dell’essere.
Non sembra si siano date risposte esaurienti, nonostante l’orizzonte ben preciso della ricerca, l’esperienza. Difficoltà e altezza delle questioni o debolezza intrinseca alle prospettive metafisiche?
Quella di Marcel non è un’indagine sistematica, non pretende di esaurire ogni domanda sulla realtà, anzi. L’assetto euristico della sua metafisica concreta vuole ribadire l’impossibilità di convogliare in strutture concettuali, valide universalmente, il mistero dell’essere. Non avremo mai, allora, la possibilità di affermare metafisicamente qualcosa che valga per tutti? L’universalità della concettualizzazione di per sé non corrisponde, non è la realtà dell’essere; quest’ultima è da vivere, esperire. Se un’universalità c’è, è quella che emerge dalla contemplazione del coessere, dalla partecipazione.
Non un universale basato sul pensiero oggettivo, ma un universale basato sull’incontro con gli altri, sulla comunione spirituale. Partecipando tutto me stesso, incarnandomi, riconosco gli altri come loro riconoscono me. Riconoscersi reciprocamente è riconoscere il valore del proprio mistero. Un’esperienza che tutti possono provare in una sorta di circolo ermeneutico: poiché mi incarno, partecipo, riconosco e apprezzo il mistero; poiché sono capace di apprezzare, riconoscere il valore dell’essere, sento meglio l’esigenza dell’incarnazione. Credo sia questa la “trasformazione” che avviene in noi, in virtù della “dialettica ascendente” verso la realtà, come la intende Marcel. Essa, però, non si dà automaticamente e può essere disconosciuto, come vedremo tra poco, e l’apprezzamento presentarsi in forma negativa, di disprezzo.
Ho la possibilità di avvertire e mettere in risalto l’ineffabilità dell’esistenza, il mistero in quanto presenza e il suo inesauribile valore ontologico, a partire dalla vita. Ecco perché posso parlare dello spirito e in condizioni migliori, proprio attenendomi all’esperienza, “bussola” della nostra indagine.
Non si danno risposte oggettive alle questioni metafisiche come invece avviene nelle scienze. L’impossibilità di verificare non discredita la ricerca filosofica ma dice l’impossibilità di fermarsi, l’indigenza, la penìa dello spirito e il suo carattere erotico. Prima ancora di essere riflessione, quella ontologica è un’esigenza, un’inquietudine.
Le presenze non posso trattarle come oggetti ma solo “evocarle”, “invocarle”. Che significa?
“Essendo la presenza, come abbiamo detto, al di là della comprensione, non avendo cioè presa su di essa l’atto intellettu...