Confessione
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Confessione

Informazioni su questo libro

La "Confessione" occupa un posto di rilievo fra gli scritti autobiografici di Tolstoi. La pubblicazione del libro sconvolse l'opinione pubblica sia in Russia che all'estero suscitando notevole ammirazione dovuta non solo alla carica polemica e accusatrice dell'opera, ma anche alle sue qualità artistiche che Stasov definì niente meno che "mirabili". Una parola-chiave molto importante e ricorrente è il pronome personale "io" che è la parola più frequente: appare 766 volte e si trova in una posizione forte (è la prima parola del testo). Questo a sottolineare sia l'importanza della soggettività nell'universo artistico della "Confessione", sia il ruolo predominante dell'atteggiamento introverso nel tipo psicologico dell'autore. Tolstoj afferma che: "Non avendo trovato la spiegazione nella conoscenza, ho cominciato a cercarla nella vita." In altre parole l'autore passa all'analisi di casi concreti per risalire alle leggi generali dell'universo.
Nel testo si racchiude e sintetizza l'intero pensiero tolstoiano in tema di fede, a partire dalla formazione di quel quesito che attanaglia tutti gli uomini, alle riflessioni da questo scaturite, agli studi ed alle possibili soluzioni. Lo scrittore ripercorre le strade che prima di lui sono state tracciate dai passati filosofi e, come alcuni di essi, pensa anch'egli al suicidio. Tuttavia, non è in quest'ultima strada che Tolstoj troverà conforto. Infatti, è solo avvicinandosi alla vita di campagna, alla semplicità ed all'amore verso il prossimo che lo stesso riuscirà a placare le proprie inquietudini. Egli sceglie e trova la fede e, nella sua versione più autentica, la risoluzione alle proprie domande, alla propria crisi spirituale nonché la fonte della propria conversione morale.
Il testo è estremamente intenso e complesso: la parte finale della "Confessione" spicca per chiarezza, lucidità e soprattutto coerenza logica e narrativa, piuttosto che per il tenebroso simbolismo onirico a cui è stato spesso associato: pare ragionevole assimilarla ad un'allegoria che riassume in forma figurativa il messaggio principale dell'opera, il quale, senza pretendere qui di dare un'interpretazione esaustiva, risiede nel passaggio dall'instabilità all'equilibrio.

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Informazioni

1.

Sono stato battezzato e educato nella fede cristiana ortodossa. Me la insegnarono fino dall'infanzia e durante tutto il periodo della adolescenza e della prima giovinezza. Ma quando, a diciotto anni, abbandonai l'università al secondo corso, io non credevo ormai più a nulla di quello che mi avevano insegnato.
A giudicare da alcuni ricordi, non ho neanche mai creduto seriamente, avevo soltanto fiducia in quello che mi insegnavano e in quello che professavano davanti a me i grandi; però quella fiducia era molto vacillante.
Quando avevo undici anni, un ragazzo, che è morto da molto tempo, Volondin'ka M., il quale studiava in un ginnasio, venendo a passare una domenica da noi ci annunziò, come ultima novità, la scoperta che aveva fatto al ginnasio. La scoperta consisteva in questo, che Dio non c'è e che tutto quel che ci insegnano non sono altro che frottole (questo accadeva nel 1838). Ricordo che i miei fratelli maggiori si interessarono a questa novità e chiamarono a consulto anche me. Noi tutti, ricordo, ci animammo molto e accogliemmo questa notizia come qualcosa di molto interessante e di possibilissimo.
Ricordo anche che, quando mio fratello maggiore Dimitrij, mentre era studente all'università, improvvisamente, con la passionalità propria della sua natura, abbracciò la fede e cominciò ad assistere a tutti i servizi divini, a digiunare, a condurre una vita pura e morale, noi tutti, e anche i più anziani, in continuazione lo mettevamo in ridicolo e, chi sa poi perché, lo soprannominammo Noè.
Ricordo come Musin-Puskin, allora curatore dell'università di Kazan', avendoci invitati a casa sua a ballare, beffardamente cercasse di convincere mio fratello, che si rifiutava, con l'argomento che anche David aveva danzato dinnanzi all'arca. Io simpatizzavo allora con questi scherzi dei più anziani e ne traevo la seguente conclusione: studiare il catechismo è necessario, andare in chiesa è necessario, ma non bisogna prendere tutto ciò troppo sul serio. Ricordo ancora che, molto giovane, leggevo Voltaire e che le sue irrisioni non solo non mi ripugnavano, ma anzi mi divertivano molto.
Il mio distacco dalla fede avvenne in me così come avveniva ed avviene ora nelle persone del nostro tipo di cultura. Esso, mi sembra, nella maggioranza dei casi avviene così: gli uomini vivono come vivono tutti, e tutti vivono fondandosi su princìpi che non solo non hanno nulla in comune con la dottrina della fede, ma che per lo più sono contrari ad essa; la dottrina della fede non ha una sua parte nella vita, e nelle relazioni con le altre persone non accade mai di imbattersi in essa, così come nella nostra vita non ci accade mai di consultarla; la dottrina della fede viene professata in un qualche luogo, lontano dalla vita e indipendentemente da essa. Se ci troviamo ad avere a che fare con essa, è soltanto come con un fenomeno esterno, non collegato con la vita.
Dalla vita di un uomo, dalle sue azioni, oggi come anche allora, non si può in alcun modo venire a sapere se egli è credente o no. Seppure vi è una differenza tra coloro che manifestamente professano l'ortodossia e coloro che la negano, essa non è certo a favore dei primi. Come oggi anche allora la dichiarata accettazione e professione dell'ortodossia per lo più si riscontrava in persone ottuse, crudeli e immorali, e che si ritenevano molto importanti. Mentre l'intelligenza, l'onestà, la rettitudine, la coscienza morale per lo più si incontravano in persone che si riconoscevano non credenti.
Nelle scuole insegnano il catechismo e mandano gli allievi in chiesa: ai funzionari chiedono attestati di frequenza alla comunione. Ma un uomo della nostra cerchia che non studia più, e che non si trova a prestar servizio statale, anche oggi, ma ancor più in passato poteva aver vissuto decine d'anni senza ricordarsi neppure una volta di vivere in mezzo a dei cristiani e di essere egli stesso considerato uno che professa la fede cristiana ortodossa.
È così che oggi, come in passato, la dottrina della fede, accettata sulla fiducia e sostenuta da pressione esterna, a poco a poco si esaurisce sotto l'influenza di conoscenze e di esperienze di vita antitetiche alla dottrina stessa, e un uomo molto spesso vive a lungo immaginandosi che sia integra in lui quella dottrina della fede che gli è stata comunicata fin dall'infanzia, mentre da tempo non ve n'è più alcuna traccia.
S., uomo intelligente e sincero, mi raccontava come smise di credere. Aveva ormai circa ventisei anni quando, trovandosi a caccia, accampato per la notte, secondo la vecchia abitudine presa fin dall'infanzia, la sera si inginocchiò per la preghiera. Il fratello maggiore che si trovava a caccia con lui se ne stava sdraiato sul fieno e lo guardava. Quando S. ebbe finito e si accinse a coricarsi suo fratello gli disse: "Ma tu lo fai ancora?". Ed essi non si dissero nient'altro. S. da quel giorno smise di genuflettersi a pregare e di andare in chiesa. E sono ormai trent'anni che non prega, non si comunica e non va in chiesa. E ciò non perché egli conoscesse quali fossero le convinzioni di suo fratello e fosse d'accordo con lui, non perché egli avesse deciso qualcosa in cuor suo, ma soltanto perché la parola detta dal fratello era stata come la spinta data con un dito a un muro che era già pronto a crollare per il suo stesso peso; quella parola era stata il segnale del fatto che là dove egli credeva che fosse la fede da tempo ormai c'era un posto vuoto, e perciò le parole che diceva e i segni della croce e le genuflessioni che egli faceva mentre pregava erano atti del tutto privi di senso. Avendone riconosciuta l'insensatezza egli non poteva continuare a compierli.
Così è potuto accadere e accade, penso, alla stragrande maggioranza degli uomini. Parlo delle persone del nostro tipo di cultura, parlo delle persone sincere con se stesse e non di coloro che dell'oggetto stesso della fede si fanno un mezzo per raggiungere dei fini transitori, quali che essi siano. (Queste persone sono i più radicali non credenti, poiché, se per loro la fede è un mezzo per raggiungere un qualsivoglia scopo di vita, essa davvero non è più fede). Queste persone del nostro tipo di cultura si trovano in una posizione in cui la luce del sapere e della vita ha fatto crollare un edificio fittizio, sia che esse se ne siano già accorte ed abbiano lasciato libero quel posto, sia che non se ne siano ancora accorte.
La dottrina della fede che mi era stata insegnata fin dall'infanzia è scomparsa in me, così come negli altri, con l'unica differenza che, siccome avevo cominciato molto presto a leggere e a pensare, il mio rifiuto della dottrina e della fede assai presto divenne cosciente. Fin dall'età di sedici anni avevo smesso di inginocchiarmi per la preghiera, e avevo smesso di andare in chiesa per mia iniziativa e di digiunare. Cessai di credere in quello che mi era stato insegnato sin dall'infanzia, ma in qualche cosa credevo.
In che cosa credevo non avrei potuto assolutamente dirlo. Credevo anche in Dio o, più semplicemente, non negavo Dio ma in quale Dio non avrei potuto dirlo; io non negavo neppure Cristo né il suo insegnamento ma in che cosa consistesse il suo insegnamento, anche questo non avrei potuto dirlo.
Oggi, ricordando quel tempo, vedo chiaramente che la mia fede - ciò che all'infuori degli istinti animali muoveva la mia vita - l'unica autentica mia fede in quel tempo era la fede nel perfezionamento. Ma in che cosa consistesse il perfezionamento e quale fosse il suo fine, non avrei potuto dirlo. Io mi sforzavo di perfezionarmi intellettualmente, imparavo tutto quel che potevo, tutto quello verso cui la vita mi spingeva; mi sforzavo di perfezionare la mia volontà: mi ero compilato delle regole che mi sforzavo di seguire; mi perfezionavo fisicamente, esercitando la forza e la destrezza con ogni specie di attività e allenandomi alla resistenza e alla pazienza con privazioni di ogni specie. E tutto ciò io lo consideravo perfezionamento. L'inizio di tutto era stato, si capisce, il perfezionamento morale, ma presto era stato sostituito dal perfezionamento in generale, cioè dal desiderio di essere migliore non dinnanzi a me stesso o dinnanzi a Dio, bensì dal desiderio di essere migliore dinnanzi agli altri uomini. E molto presto questa aspirazione ad essere migliore dinnanzi agli uomini fu sostituita dal desiderio di essere più forte degli altri uomini, cioè più celebre, più importante, più ricco degli altri.
 

2.

Un giorno o l'altro racconterò la storia della mia vita, storia commovente e istruttiva in quei dieci anni della mia giovinezza. Penso che molti, moltissimi abbiano passato le stesse prove. Io con tutta l'anima desideravo essere buono; ma ero giovane, preda delle passioni, ed ero solo, completamente solo quando cercavo il bene. Ogni volta, quando tentavo di manifestare quello che formava il mio più intimo desiderio: cio che volevo essere moralmente buono, io incontravo disprezzo e canzonature; ma non appena mi abbandonavo a ripugnanti passioni, mi lodavano e mi incoraggiavano. L'ambizione, l'amore del potere, la cupidigia, la lussuria, la superbia, l'ira, la vendetta: tutto questo veniva rispettato. Quando mi abbandonavo a queste passioni diventavo simile a un grande e sentivo che erano contenti di me. La mia buona zietta, con la quale vivevo, che era l'essere più puro di questo mondo, mi diceva sempre che nient'altro avrebbe desiderato per me quanto che io avessi una relazione con una donna sposata: "Rien ne forme un jeune homme comme une liaison avec une femme comme il faut"; ed ella mi augurava anche un'altra fortuna: quella di essere aiutante di campo e, meglio di tutto aiutante di campo addetto al sovrano; e poi, felicità suprema, che io sposassi una ragazza molto ricca perché, in conseguenza di tale matrimonio, potessi avere quanti più schiavi possibile. Non posso ricordare quegli anni senza orrore, senza disgusto, senza un dolore al cuore. Uccidevo uomini in guerra, li sfidavo a duello per ucciderli, continuavo a perdere al gioco, dilapidavo il frutto del lavoro dei muziki, e somministravo loro punizioni, commettevo adulterio, ingannavo. Menzogna, ruberia, fornicazioni di ogni genere, ubriachezza, violenza, assassinio... Non vi era delitto che io non commettessi e per tutto questo i miei coetanei mi lodavano e mi consideravano un uomo relativamente morale.
Così vissi dieci anni.
Nel frattempo mi misi a scrivere per vanagloria, per cupidigia e per superbia. Nei miei scritti facevo ciò che facevo nella vita. Per avere la gloria e i denari in vista dei quali scrivevo, bisognava nascondere il bene e mostrare il male. E io facevo proprio così. Quante volte mi sono ingegnato di nascondere nei miei scritti, sotto una patina di indifferenza e perfino di leggera ironia, le aspirazioni al bene che costituivano il senso della mia vita. E questo io raggiunsi, che mi lodarono.
A ventisei anni, dopo la guerra, andai a Pietroburgo e mi legai con gli scrittori. Mi accolsero come uno di loro e mi adularono. Non feci in tempo a guardarmi intorno che le opinioni sulla vita di quegli uomini con i quali mi ero legato - proprie al ceto degli scrittori - si erano impadronite di me e avevano già completamente cancellato in me tutti i precedenti tentativi di diventare migliore. Quelle opinioni fornirono alla dissolutezza della mia vita la teoria che la giustificava.
L'opinione sulla vita di quegli uomini, miei consoci nello scrivere, era questa: che la vita in generale va avanti e si sviluppa e che in questo sviluppo la parte principale è quella di noi, uomini di pensiero, ma tra gli uomini di pensiero l'influenza maggiore l'abbiamo noi artisti, poeti. La nostra vocazione è quella di insegnare agli uomini. Affinché a ognuno di noi non si presentasse questa naturale domanda: che cosa so io e che cosa devo insegnare?, in tale teoria veniva spiegato che ciò non era necessario saperlo e che l'artista e il poeta insegnano inconsciamente. Io venivo considerato un poeta e un artista meraviglioso, e perciò era per me molto naturale adottare tale teoria. Io - artista, poeta - scrivevo, insegnavo senza sapere io stesso che cosa. Per questo mi pagavano, ed io avevo un buonissimo mangiare, alloggio, donne, società, e avevo la gloria. Di conseguenza quello che insegnavo andava molto bene.
Tale fede nell'importanza della poesia e nello sviluppo della vita era un vero culto ed io ero uno dei suoi sacerdoti. Essere un suo sacerdote era molto vantaggioso e piacevole. Ed io abbastanza a lungo vissi in tale fede senza dubitare della sua verità. Ma durante il secondo e particolarmente durante il terzo anno di quella vita, cominciai a dubitare dell'infallibilità di quella fede e cominciai ad analizzarla. Primo motivo di dubbio fu il fatto che avevo cominciato ad osservare che non tutti i sacerdoti di quel culto erano d'accordo tra loro. Gli uni dicevano: noi siamo i maestri migliori e più utili, noi insegnamo ciò che è necessario e gli altri insegnano in modo sbagliato. E gli altri dicevano: noi siamo nel vero e voi insegnate in modo sbagliato. Ed essi discutevano, litigavano, si ingiuriavano, si ingannavano, si imbrogliavano l'un l'altro. Inoltre fra loro c'erano molte persone che non si preoccupavano neppure di chi fosse nel giusto e chi no, ma semplicemente avevano raggiunto i loro scopi interessati con l'aiuto di questa nostra attività. Tutto ciò mi spinse a dubitare della sincerità della nostra fede.
Oltretutto, dopo aver messo in dubbio la sincerità della fede degli scrittori, osservai più attentamente i suoi sacerdoti e mi convinsi che quasi tutti i sacerdoti di quella fede, cioè gli scrittori, erano persone immorali e per la maggior parte persone cattive, delle nullità, per carattere molto inferiori alle persone che avevo incontrato prima nella mia vita scioperata e nella mia vita militare, ma sicuri e contenti di sé come solo possono esserlo o gli uomini che sono veramente santi oppure quelli che non sanno neppure cosa sia la santità. Quegli uomini mi diventarono odiosi ed io diventai odioso a me stesso e capii che quella fede era un inganno.
Ma lo strano è che per quanto avessi capito ben presto tutta la menzogna di quella fede e l'avessi rinnegata, pur tuttavia al rango datomi da quella gente - al rango di artista, di poeta, di maestro - io non rinunziai. Ingenuamente mi figuravo di essere poeta, artista, di poter insegnare a tutti, senza sapere io stesso che cosa insegnavo. E così continuavo a fare.
Dal contatto con quegli uomini ricavai un nuovo vizio: una superbia spinta fino alla morbosità e la folle sicurezza di essere chiamato ad insegnare agli uomini senza sapere io stesso che cosa. Ora ricordare quel tempo, ricordare il mio stato d'animo d'allora e lo stato d'animo di quelle persone (come loro, del resto, ve ne sono ancora a migliaia) per me è penoso e terribile e ridicolo; mi suscita esattamente la stessa sensazione che si prova in un manicomio.
Noi tutti allora eravamo convinti che bisognasse parlare e parlare, scrivere, stampare il più possibile e il più presto possibile, che tutto ciò fosse necessario per il bene dell'umanità. E noi, a migliaia, smentendoci e ingiuriandoci l'un l'altro, non facevamo che pubblicare, scrivere, per istruire gli altri. E, senza accorgerci che non sapevamo nulla, che al più semplice problema della vita - che cosa è bene, che cosa è male? - non sapevamo cosa rispondere, noi tutti senza ascoltarci l'un l'altro parlavamo tutti contemporaneamente, talvolta indulgendo e lodandoci l'uno con l'altro affinché anche con noi fossero indulgenti e ci lodassero, e talvolta invece irritandoci e urlando uno più forte dell'altro, proprio come in un manicomio.
Migliaia di operai giorno e notte lavoravano fino allo stremo delle forze, componevano, stampavano milioni di parole e la posta le propagava a tutta la Russia e noi sempre di più continuavamo a insegnare, insegnare, insegnare e non arrivavamo mai ad insegnare tutto ed eravamo sempre impermaliti perché ci davano poco ascolto.
Terribilmente strano, ma ora per me chiarissimo. La vera intima teoria nostra era questa: fare in modo di avere quanti più denari e lodi possibile. Per raggiungere questo scopo noi non sapevamo far altro che scrivere libretti e giornali. E questo facevamo. Ma affinché noi si potesse fare una cosa talmente inutile, pur essendo persuasi di essere persone molto importanti, avevamo bisogno anche di una teoria che giustificasse la nostra attività. Ed ecco che inventammo quanto segue: tutto ciò che è reale è razionale. E tutto ciò che è reale si sviluppa. Ma tutto si sviluppa per mezzo dell'istruzione. E l'istruzione si misura dalla diffusione dei libri, dei giornali. Ma a noi pagano denari e ci rispettano perché scriviamo libri e giornali, quindi noi siamo gli uomini migliori e più utili. Questa teoria sarebbe andata molto bene se noi tutti fossimo stati d'accordo; ma giacché contro ogni idea espressa da uno veniva sempre fuori un'idea diametralmente opposta, espressa da un altro, questo stesso fatto avrebbe dovuto farci ricredere. Ma di questo noi non ci accorgevamo. Ci pagavano, e le persone del nostro partito ci lodavano, di conseguenza ci ritenevamo nel giusto.
Ora è chiaro per me che non vi era nessuna differenza rispetto a un manicomio; ma allora lo sospettavo soltanto vagamente e, soltanto, come tutti i pazzi, davo del pazzo a tutti salvo che a me.

3.

Così vissi, dedito a questa follia, ancora per sei anni, fino al mio matrimonio. Nel frattempo andai all'estero. La vita in Europa e il contatto con uomini europei colti e d'avanguardia mi confermò ancor più in quella fede nel perfezionamento in generale di cui mi ero fatto una ragione di vita, poiché quella stessa fede io la trovai anche in loro. Tale fede prese in me la solita forma, quella che essa ha presso la maggioranza degli uomini colti del nostro tempo. Tale fede veniva espressa con la parola "progresso". Allora mi sembrava che con questa parola si esprimesse qualcosa. Io non capivo ancora che, tormentato, come ogni uomo vivente, dal problema di come fosse meglio per me vivere, io, rispondendo: vivere in conformità col progresso, dicevo esattamente quello che avrebbe detto un uomo, dalle onde e dal vento trasportato su una barchetta, di fronte al problema principale e unico per lui: "Dove dirigersi?" se egli, senza rispondere alla domanda, dicesse: "Da qualche parte sarò portato".
Allora io non me ne accorgevo. Solo raramente non la ragione bensì il sentimento si ribellava contro questa superstizione, tipica del nostro tempo, per mezzo della quale gli uomini nascondono a se stessi la propria incomprensione della vita. Così, quando ero a Parigi, la vista di una esecuzione capitale mi rivelò quanto fosse fragile la mia superstizione del progresso. Quando vidi come la testa si staccava dal corpo e come l'una e l'altro, separatamente, andavano a sbattere nella cassa, allora capii, non con l'intelligenza, ma con tutto il mio essere, che non vi è alcuna teoria della razionalità dell'esistente e del progresso che possa giustificare un simile atto e che quand'anche tutti gli uomini al mondo, fin dalla sua creazione, basandosi su teorie quali che siano, trovassero che ciò fosse necessario, io so che ciò non è necessario, che ciò è male e che, quindi, arbitro di quel che è bene e necessario non è quel che di...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. La dialettica del sé nella “Confessione” di Lev Tolstoi
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