Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane
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Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane

Traduzione di Cesare Pavese

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Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane

Traduzione di Cesare Pavese

Informazioni su questo libro

Il celebre romanzo semiautobiografico Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane ( A Portrait of the Artist as a Young Man ), di James Joyce, venne pubblicato per la prima volta in volume nel 1916. L'autore vi narra gli anni formativi della vita di Stephen Dedalus e il suo risveglio intellettuale, filosofico e religioso, in una progressiva ribellione contro le convenzioni irlandesi e cattoliche con le quali è cresciuto. Nel libro, qua tradotto da Cesare Pavese, si notano alcune tecniche tipiche del modernismo, che troveranno la loro massima espressione nel capolavoro Ulisse.

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CAPITOLO V.

Vuotò fino al fondiglio la sua terza tazza di tè acquoso e si mise a masticare le briciole di pane fritto che erano disseminate intorno, fissando lo sguardo dentro la pozza buia del recipiente. Lo strato di grasso giallo era stato tolto via come quando si fa una buca nella brughiera, e la pozzettina che c’era sotto gli ricordò l’acqua scura, color torba, del bagno di Clongowes. La scatola delle polizze di pegno, vicino al suo gomito, era stata appena allora rovistata e Stephen prese oziosamente una dopo l’altra, tra le dita unte, le bollette turchine e bianche, scarabocchiate, sporche di sabbia, tutte pieghe e recanti il nome del pignorante come Daly o MacEvoy.
1 paio stivaletti.
1 soprabito.
3 varie e 1 pannolino.
1 paio calz. uomo.
Poi le mise via e fissò pensieroso il coperchio della scatola macchiettata dai pidocchi e domandò distrattamente: - Di quanto è avanti ora l’orologio?
Sua madre raddrizzò la sveglia logora, che stava distesa sul fianco al centro della mensola del camino, finché il quadrante mostrò le dodici meno un quarto, e poi tornò a deporla sul fianco.
- Di un’ora e venticinque minuti - disse. - L’ora giusta è adesso le dieci e venti. Sa il cielo se devi sbrigarti per arrivare in tempo alle lezioni.
- Fammi il posto per lavarmi - disse Stephen.
- Katy, fai il posto a Stephen che deve lavarsi.
- Boody, fai il posto a Stephen che deve lavarsi.
- Non posso, io vado a prendere il turchinetto. Preparalo tu, Maggie.
Quando la catinella smaltata fu introdotta nel buco della toeletta e il vecchio guanto per lavarsi buttato lì accanto, Stephen lasciò che sua madre gli stropicciasse il collo e gli scavasse nelle pieghe delle orecchie e negli interstizi delle pinne nasali.
- È una gran brutta cosa - disse la donna - quando uno studente universitario è tanto sporco che sua mamma deve lavarlo.
- Ma se ti piace tanto - disse Stephen calmo.
Un sibilo da spaccar le orecchie venne dal piano superiore e sua madre gli cacciò tra le mani un grembiale bagnato, dicendo: - Asciugati e vattene fuori, per l’amor di Dio.
Un secondo sibilo stridente, prolungato irosamente, fece accorrere una delle ragazze ai piedi della scala.
- Sì, papà.
- Non è ancora uscito quel vaccone d’un fannullone di tuo fratello?
- Sì, papà.
- Davvero?
- Sì, papà.
- Uhm...
La ragazza ritornò facendogli segno di far presto e andarsene in silenzio dalla porta posteriore. Stephen rise e disse: - Ha un’idea curiosa dei generi, se crede che vaccone sia maschile.
- Ah, è una vergogna marcia, per te, - disse la madre - e verrà un giorno che ti pentirai del minuto che hai messo i piedi in quel luogo. Vedo io come sei cambiato.
- Buon giorno a tutti - disse Stephen sorridendo e baciandosi, in segno d’addio, la punta delle dita.
Il vicolo dietro il terrazzo era tutto allagato e, mentre vi discendeva adagio, scegliendo dove posare i piedi tra i mucchi d’immondizie fradicie, udì una monaca pazza che strillava nel manicomio del convento al di là del muro.
- Gesù! Oh Gesù! Gesù!
Si scacciò quel suono dalle orecchie con un’irosa scossa del capo e corse innanzi, incespicando nei rifiuti in putrefazione, col cuore già morso dalla nausea e dall’amarezza. Il sibilo del padre, i borbottii della madre, lo strillo di una demente invisibile erano per lui ora altrettante voci che offendevano e minacciavano di umiliare l’orgoglio della sua giovinezza. Scacciava dal cuore, imprecando, persino i loro echi; ma quando camminò giù per il viale e sentì la grigia luce mattutina cadergli intorno attraverso i rami sgocciolanti e aspirò lo strano odore selvaggio delle foglie e delle cortecce bagnate, l’anima gli si liberò dalle tristezze.
Gli alberi del viale carichi di pioggia evocavano in lui, come sempre, ricordi delle ragazze e delle donne nei drammi di Gerhart Hauptmann; e il ricordo di quelle pallide tristezze si mescolava in un umore di gioia tranquilla con la fragranza che cadeva dai rami bagnati. La sua passeggiata mattutina attraverso la città era cominciata; e sapeva già prima che, passando per le distese paludose di Fairview, avrebbe pensato alla claustrale prosa, venata d’argento, di Newman; che, camminando per la via della Spiaggia Nord e gettando occhiate oziose alle vetrine di commestibili, avrebbe richiamato l’umor cupo di Guido Cavalcanti e avrebbe sorriso; che, passando davanti agli squadratori di pietre di Baird in piazza Talbot, lo spirito di Ibsen gli avrebbe alitato addosso come un vento stimolante, uno spirito di ribelle bellezza giovanile; e che passando davanti a una sudicia bottega di cose di mare, oltre il Liffey, avrebbe ripetuto la canzone di Ben Jonson che comincia: Non ero più stanco dove giacevo.
La sua mente, quand’era stanca di perseguire l’essenza del bello tra le parole spettrali di Aristotele o di san Tommaso, si volgeva sovente a cercare un piacere nelle squisite canzoni degli Elisabettiani. La sua mente, nell’abito di un monaco dubitante, si fermava sovente in ombra sotto le finestre di quel secolo, ascoltando la musica grave e beffarda dei liutisti o il riso franco delle cortigiane, finché una risata troppo grossolana, una frase, macchiata dal tempo, di un orgoglio falso e libertino, urtava la sua dignità monacale e lo faceva allontanare dal suo nascondiglio.
Il tesoro di scienza, su cui si diceva che Stephen passasse i suoi giorni, assorto al punto d’esser stato strappato ai compagni di gioventù, si riduceva a una raccolta di magre sentenze tratte dalla poetica e dalla psicologia di Aristotele e una Synopsis Philosophiae Scholasticæ ad mentem divi Thomæ. Il suo pensiero era un limbo di dubbio e di sfiducia verso se stesso, acceso a tratti dai lampi dell’intuizione, ma lampi di un fulgore così limpido che in quei momenti il mondo gli scompariva ai piedi come divorato dal fuoco e in seguito la lingua gli si appesantiva e i suoi occhi incontravano senza rispondere gli occhi degli altri, perché sentiva che lo spirito della bellezza lo aveva avvolto come un mantello e che, almeno in sogno, aveva conosciuto la grandezza. Ma quando questa breve dignità di silenzio non lo sosteneva più, Stephen era felice di trovarsi ancora in mezzo a vite comuni, continuando, tra lo squallore, il frastuono e l’inerzia della città, la sua strada senza paure e col cuore leggero.
Vicino allo steccato del canale incontrò il tisico dalla faccia di bambola e dal cappello senza tesa, che gli veniva incontro a piccoli passi giù per la china del ponte, strettamente abbottonato nel soprabito color cioccolata e l’ombrello chiuso, scostato dal corpo di un palmo o due, come la bacchetta di un rabdomante. Debbono essere le undici, pensò Stephen, e diede un’occhiata in una latteria per veder l’ora. Il pendolo della latteria gli disse ch’erano le cinque meno cinque, ma allontanandosi sentì un qualche pendolo vicino, ma invisibile, battere con rapida precisione undici rintocchi. Rise a sentirli, perché ciò lo faceva pensare a MacCann; e rivide quella figura tozza con la giubba da cacciatore, i calzoncini e una barbetta bionda dritta al vento, sull’angolo di Hopkins, e sentì che diceva: - Dedalus, siete un essere antisociale, avvolto nel vostro io. Io no. Sono un democratico, io, e voglio lavorare e agire per la libertà e l’uguaglianza sociale di tutte le classi e i sessi degli Stati Uniti dell’Europa futura.
Le undici! Dunque, in ritardo anche per quella lezione. Che giorno della settimana era? Si fermò davanti a un giornalaio per leggere i titoli di un cartellone. Giovedì. Dalle dieci alle undici, inglese; dalle undici alle dodici, francese; dalle dodici all’una, fisica. Immaginò tra sé la lezione d’inglese e si sentì, anche a quella distanza, irrequieto e disperato. Vide le teste dei compagni docilmente curvate a scrivere sui taccuini i punti che dicevano loro di annotare, definizioni nominali, definizioni essenziali, esempi, date di nascita o di morte, opere principali, un parere critico favorevole e, vicino, uno sfavorevole. Ma la sua testa non era curvata, perché i suoi pensieri vagabondavano liberi e, guardasse in giro nella piccola classe di studenti o fuori dalla finestra attraverso le aiuole desolate del giardino, lo assaliva un odore d’inamabile umidità sotterranea e di decomposizione. Un’altra testa oltre la sua, proprio davanti a lui, nei primi banchi, era piantata risolutamente sopra le figure curve dei compagni: come la testa di un sacerdote che senza umiltà interceda davanti al tabernacolo per gli umili devoti che gli stanno intorno. Come accadeva che, pensando a Cranly, non riusciva mai a evocarsi dinanzi l’immagine intera del corpo, ma soltanto quella della testa e della faccia? Anche ora, sullo sfondo della cortina grigia del mattino, se lo vedeva innanzi come il fantasma di un sogno, come il volto di una testa staccata, una maschera funebre, incoronata alla fronte dai rigidi capelli neri irti, come da una corona di ferro. Era una faccia sacerdotale, sacerdotale nel suo pallore, col suo largo naso pinnuto, con le ombre sotto gli occhi e lungo le mascelle, sacerdotale nelle labbra lunghe, esangui e debolmente sorridenti, e Stephen ricordando a un tratto come aveva raccontato a Cranly tutti i propri tumulti, l’inquietudine e gli aneliti di ogni suo giorno e ogni sua notte, per non sentirsi rispondere altro che dal silenzio attento dell’amico, si sarebbe detto volentieri che quella era la faccia di un sacerdote colpevole intento ad ascoltare confessioni di persone che non aveva il potere di assolvere, se non fosse stato che nella memoria risentiva la fissità di quegli scuri occhi femminili.
Attraverso questa immagine ebbe la visione di una strana e scura caverna di speculazione, ma se ne distolse subito, accorgendosi che non era ancor l’ora di entrarvi. Ma la pianta tenebrosa dell’impassibilità dell’amico pareva diffondere nell’aria circostante un’esaltazione sottile e mortale; e Stephen si sorprese a osservare a destra e a sinistra parole casuali, stolidamente stupefatto che queste parole si fossero così in silenzio vuotate del loro senso immediato, finché ogni più banale insegna di negozio gli legò la mente come un incantesimo e l’anima gli si raggrinzò, sospirando invecchiata, mentre lui procedeva per un vicolo tra gli avanzi ammucchiati di una lingua morta. La sua coscienza della lingua gli sfuggiva dal cervello e sgocciolava via nelle parole stesse, che andavano associandosi e dissociandosi in ritmi capricciosi:
L’edera piange sopra il muro,
piange e si frange sopra il muro,
l’edera gialla sopra il muro,
l’edera, l’edera sul muro.
Si era mai sentita una tiritera simile? Dio del cielo! Chi aveva mai sentito l’edera che piange sopra un muro? L’edera gialla: questo andava. L’avorio giallo anche. E l’edera avorio, allora?
La parola gli splendeva ora nel cervello, più limpida, più lucente di qualunque avorio segato dalle zanne variegate degli elefanti. Avorio, ivory, ivoire, ebur. Uno dei primi esempi che aveva imparato in latino era stato: India mittit ebur; e ricordò la scaltra faccia nordica del rettore che gli aveva insegnato a volgere le Metamorfosi di Ovidio in un inglese aulico, reso bizzarro dalla menzione di porcelli, cocci di terraglia e fette di lardo. Aveva imparato quel poco che sapeva delle leggi della versificazione latina da un libro lacero scritto da un sacerdote portoghese.
Contrahit orator, variant in carmine vates.
Le crisi, le vittorie e le secessioni della storia romana gli erano state presentate con le trite parole in tanto discrimine e lui aveva cercato di penetrare lo sguardo nella vita sociale della Città delle città attraverso le parole implere ollam denariorum, che il rettore aveva reso in modo sonante come «riempire un vaso di denari». Le pagine del suo Orazio consunto dal tempo non erano mai fredde al tatto, neanche quando aveva le dita intirizzite: erano pagine umane, e cinquant’anni prima erano state sfogliate dalle dita umane di John Duncan Inverarity e dal fratello di questi, William Malcolm Inverarity. Sì, erano nobili nomi quelli, sull’offuscata risguardia del libro e, anche per un povero latinista come lui, quei versi offuscati erano così fragranti come se fossero stati per tutti quegli anni avvolti nel mirto, nella lavanda e nella verbena; ma tuttavia lo addolorava pensare che lui non sarebbe mai stato altro che un timido ospite al banchetto della cultura di questo mondo e che la sapienza monacale, secondo i termini della quale si affaticava a foggiarsi una filosofia estetica, non era stimata, nel secolo in cui viveva, più dei sottili e curiosi vocabolari dell’araldica e della falconeria.
L’isolato grigio della Trinità alla sua sinistra, piantato pesantemente nell’ignoranza della città come una pietra smorta incastonata in un anello massiccio, gli riportò la mente in terra; e mentre s’arrabattava in un modo e nell’altro a liberarsi i piedi dalle pastoie della coscienza riformata, capitò addosso alla grottesca statua del poeta nazionale dell’Irlanda.
La guardò senza ira: perché, sebbene la mollezza del corpo e dell’anima strisciasse là sopra come una invisibile verminaia, dai piedi pigri su per le pieghe del mantello fino intorno alla testa servile, la statua pareva umilmente conscia della sua indegnità. Era un Firbolg con un mantello da Milesio preso a prestito; e Stephen pensò al suo amico Davin, lo studente contadino. Era tra loro un soprannome scherzoso, ma il giovane campagnolo se lo pigliava con disinvoltura.
- Ma sì, Stevie, ho la testa dura, mi dici. Chiamami come vuoi.
La versione familiare del suo nome di battesimo sulle labbra dell’amico a Stephen era piaciuta non appena l’aveva sentita, perché lui era altrettanto formale nei discorsi con gli altri quanto gli altri erano con lui. Sovente, mentre sedeva nelle stanze di Davin in Grantham Street, ammirando le belle scarpe dell’amico allineate alla parete a paio a paio e ripetendo per le semplici orecchie dell’amico versi e cadenze altrui che non erano che i veli del suo desiderio e delle sue disperazioni, la rozza mente da Firbolg del suo ascoltatore l’aveva attirato e poi respinto. L’attiravano una tranquilla innata cortesia d’attenzione o un’espressione bizzarra del vecchio parlare inglese o la forza del suo gusto per i violenti esercizi fisici (Davin era stato un ammiratore di Michael Cusack il Gaelico); lo respingevano, bruscamente, una grossolanità d’intelligenza o ottusità di sentimento o un vuoto terrore che sbarrava gli occhi a Davin, il terrore che ossessiona l’anima di un affamato villaggio irlandese, dove il coprifuoco è ancora lo spavento di ogni notte.
Accanto ai suoi ricordi delle prodi imprese dello zio Mat Davin, l’atleta, il giovane campagnolo adorava le dolorose tradizioni dell’Irlanda. Le chiacchiere dei compagni, che facevano di tutto per rendere la piatta vita del collegio significante a ogni costo, amavano rappresentarlo come un giovane feniano. La balia gli aveva insegnato l’irlandese e gli aveva plasmato la rozza immaginazione alle luci incerte dei miti d’Irlanda. Dinanzi ai miti, sui quali nessuna mano individuale aveva mai tracciato una linea di bellezza, e ai massicci racconti che venivano differenziandosi scendendo giù per i cicli, Davin stava nello stesso atteggiamento che verso la religione cattolica romana, l’atteggiamento di un servo leale dallo spirito ottuso. A tutti i pensieri o sentimenti che gli venissero dall’Inghilterra o attraverso la cultura inglese, la sua mente si armava di ostilità in obbedienza a una parola d’ordine: e del mondo che si stendeva al di là dell’Inghilterra non conosceva che la legione straniera di Francia, dove parlava di arruolarsi.
Mettendo insieme quest’ambizione coll’umore del giovanotto, Stephen lo aveva chiamato una delle oche domestiche: e c’era persino una punta di irritazione in questo titolo, indirizzata precisamente contro quella riluttanza dell’amico alla parola e all’azione, che a Stephen pareva drizzarsi così sovente tra la propria mente avida di speculazione e le abitudini misteriose della vita irlandese.
Una notte il giovane campagnolo, punto nell’anima dai discorsi violenti o stravaganti nei quali Stephen si rifugiava dopo i freddi silenzi di rivolta intellet...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. DEDALUS. RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE
  3. Indice
  4. Intro
  5. DEDALUS
  6. CAPITOLO I.
  7. CAPITOLO II.
  8. CAPITOLO III.
  9. CAPITOLO IV.
  10. CAPITOLO V.
  11. Ringraziamenti