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Postcoloniale italiano. Tra letteratura e storia
Informazioni su questo libro
In questo volume viene affrontato, con approfondimenti su testi ed episodi storici, il problema della rimozione del passato coloniale italiano con i suoi effetti persistenti nella nostra cultura e con il conseguente tardivo sviluppo degli studi in materia.Viene utilizzata una metodologia interdisciplinare interessata all'immaginario interculturale, alle questioni linguistiche, alla produzione di testi in lingua italiana da parte di autori ed autrici translingui provenienti, in particolare, dai paesi del Corno d'Africa: pratiche di scrittura "meticcia", utili a narrare il passato coloniale, le memorie perdute e le rimozioni drammatiche, frutto delle asimmetrie postcoloniali.
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Informazioni
Argomento
Scienze socialiCategoria
SociologiaCapitolo primo
Dislocazioni. Gli studi postcoloniali in Italia: contesti, elaborazioni, problemi
Roberto Derobertis
La tragedia inizia quando le cose abbandonano il loro posto abituale, come quando l’Europa lascia il suo sicuro fortino tra il poliziotto e il fornaio per dare un’occhiata al cuore di tenebra.
Chinua Achebe, Un’immagine dell’Africa
Storicizzare, contestualizzare: l’Italia nella condizione postcoloniale
Una cronaca pubblicata sull’edizione online del quotidiano «La Stampa» a proposito della liberazione della città di Bani Walid durante la Guerra in Libia nel 2011, racconta:
A mezzogiorno, quando la bandiera della nuova Libia è finalmente in cima alla Moschea, quando Bani Walid è libera davvero, arriva anche Alì, il vecchietto sdentato, l’unico che non se n’era mai andato dalla città. […] Alì lo sdentato intona una canzone che sentiva da ragazzo, «O sole mio», nella piazza di Bani Walid.1
Al di là dell’enfasi giornalistica per la vittoria dei “ribelli” sostenuti dai bombardamenti della NATO, il breve brano dice molte cose. Che «Alì, il vecchietto» è l’esempio vivente della «violenza epistemica»2 del colonialismo italiano di cui O sole mio è una traccia culturale. Che gli interessi italiani nella guerra per la liberazione della Libia da Muhammar Gheddafi e dagli uomini del suo regime ha rimesso al centro quel territorio come frontiera (neo)coloniale: ieri limite estremo del colonialismo italiano in Nord Africa; durante il regime gheddafiano – in particolare a ridosso della lunga negoziazione e della sigla (2008) del Trattato di amicizia e partenariato italo-libico – frontiera esterna per filtrare i migranti provenienti dall’Africa occidentale e dalle ex colonie di Eritrea, Etiopia e Somalia. Le cifre distintive di questa complessa relazione storico-politica sono la violenza e l’internamento. Infatti, durante il periodo coloniale il controllo del territorio era garantito dai campi di prigionia (e poi di concentramento per ebrei libici) in cui venivano rinchiusi i resistenti libici; mentre durante il regime di Gheddafi le famigerate prigioni dislocate nel deserto nei pressi del confine libico meridionale, dove in celle sovraffollate centinaia migranti vivono senza cibo né servizi igienici e vengono sottoposti a torture, servivano a sostenere le politiche razziste italiane. Con la partecipazione alla Guerra del 2011 (cento anni dopo la campagna coloniale dell’autunno del 1911) l’Italia ha provato a garantirsi sia che la Libia restasse la sua frontiera esterna a sud, sia l’approvvigionamento di idrocarburi.
Questa intricata trama storica dice, in primo luogo, che la modernità è coloniale e che essa in qualche modo informa e determina anche il nostro presente: come ha notato Sandro Mezzadra, le forme del confinamento e del razzismo, i campi di concentramento e altri dispositivi sono delle vere e proprie «anticipazioni coloniali»3. Che la storia del colonialismo italiano, esclusa dall’autobiografia nazionale, incombe sul presente. Quindi, che il colonialismo europeo ha sempre incontrato forme di resistenza e rivolta e il loro fallimento non impedisce che nell’oggi quelle resistenze trovino nuove ragioni d’essere. Spesso le rivolte anticoloniali hanno anch’esse rappresentato un’anticipazione e un modello per le lotte delle classi subalterne nei paesi colonizzatori. A questo proposito è utile ribadire che colonizzatori e colonizzati si sono sempre influenzati reciprocamente, attraverso un movimento bidirezionale che ha reso le loro geografie, culture e storie talmente aggrovigliate da rendere impossibile il recupero di origini e tradizioni che preesistano alla modernità coloniale, rendendo necessario «lavorare alla costruzione di un quadro più complesso della modernità»4.
Osservato dal punto di vista della critica postcoloniale, questo movimento conflittuale tra disciplinamento e resistenza, tra confinamento e sconfinamento in un quadro globale, increspa lo spazio-tempo liscio del liberalismo democratico occidentale che concepisce lo svolgimento della vita delle nazioni come un susseguirsi di crescita capitalistica e (molto più lenti) processi di emancipazione sociale. Allo stesso tempo è la dimensione nazionale a essere messa in crisi: ovvero l’idea che ciò che è avvenuto nelle singole nazioni europee, a seguito del colonialismo, possa essere interpretato dentro singole cornici nazionali e non in stretta relazione con quello che contemporaneamente accadeva nelle colonie. Dunque, evocare e mettere all’opera la cassetta degli attrezzi della critica postcoloniale nel contesto italiano non deve illudere sulla possibilità di stringere una sorta di cordone sanitario intorno al nostro impegno nell’affrontare il quadro più ampio dentro cui siamo collocati. In questo quadro stanno insieme la costruzione della TAV Torino-Lione, che promette di devastare la Val di Susa e il progetto di costruzione di una centrale nucleare sulle montagne di Sahyadri nei pressi di Jaitapur sulla costa occidentale indiana, una delle aree a maggior biodiversità del mondo5, nel nome di un non ben definito “sviluppo tecnologico” e del profitto del capitalismo transnazionale. In questo quadro stanno insieme le lavoratrici del tessile in Bangladesh6, che lottano per i diritti sociali e per l’aumento del salario e quelle morte a Barletta il 3 ottobre 2011 – schiacciate nel sottoscala dove lavoravano in nero dopo il crollo dell’intera palazzina – tutte imbrigliate nella rete globale delle delocalizzazioni della produzione di massa, del ribasso del costo del lavoro e dei prezzi e della svalutazione del lavoro vivo. Allo stesso tempo, però, occorre fare ancora i conti con il contesto nazionale e con il ruolo degli intellettuali e delle istituzioni. Nelle sue lezioni sulle rappresentazioni degli intellettuali Edward W. Said sosteneva:
Ciascuno di noi vive in una società determinata, e appartiene a una nazione caratterizzata da una lingua, da una tradizione e da una situazione storica specifica. In che misura gli intellettuali sono al servizio di queste realtà e in che misure si oppongono ad esse? Lo stesso si può dire del rapporto degli intellettuali con le istituzioni (università, chiesa, gruppi professionali) e con i grandi poteri internazionali, che ai giorni nostri hanno cooptato l’intellighenzia in misura straordinaria.7
...Indice dei contenuti
- CoverImage
- Franca Sinopoli (a cura di) Postcoloniale italiano
- 1. DEROBERTIS - Dislocazioni. Gli studi postcoloniali in Italia
- 2. MOLL - Image - immaginario
- 3. NEGRO - Un giorno sarai la nostra voce che racconta
- 4. SIROTTI - Riflessioni su lingua, retorica e stile in due autrici postcoloniali italiane
- 5. BRIONI - Pratiche meticce
- 6. DE VIVO - Alla ricerca della memoria perduta
- 7. COMBERIATI - Tripoli 1970. Esodo di corpi ammassati, celati, rimossi
- 8. MORONE - Asimmetrie postcoloniali
- 9. ABSTRACTS
- 10. Autori