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La conquista del pane
Informazioni su questo libro
Lavorando ad abolire la divisione fra padroni e schiavi, noi lavoriamo alla felicità degli uni e degli altri, alla felicità dell'umanità.L'idea borghese è stata quella di perorare sui grandi principi, o, per meglio dire, sulle grandi menzogne. L'idea popolare sarà quella che tenderà ad assicurare il pane per tutti. E, nel mentre che i borghesi e i lavoratori imborghesiti si atteggeranno a grandi uomini nelle loro conventicole parlamentari, nel mentre che «la gente pratica» discuterà a non più finirla sulle forme di governo, noi, «gli utopisti», dovremo pensare al pane quotidiano.
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Informazioni
Argomento
Politics & International RelationsCategoria
AnarchismLe nostre ricchezze
I
L’umanità ha assai progredito da quelle remote età in cui l’uomo, tagliando nella selce rozzi strumenti, viveva degl’incerti prodotti della caccia e non lasciava in eredità ai suoi figliuoli che un ricovero sotto le rocce e dei poveri utensili di pietra, nonché la Natura immensa, incompresa, terribile, colla quale essi dovevano entrare in lotta per mantenere la loro meschina esistenza.
In questo lungo periodo di agitazione, che è durato per migliaia e migliaia d’anni, il genere umano ha nondimeno accumulato inauditi tesori. Ha dissodato il suolo, prosciugato le paludi, è penetrato nelle foreste, ha tracciato strade; ha costruito, inventato, osservato, ragionato; ha creato degli strumenti complicati, ha strappato alla natura i suoi segreti, ha domato il vapore; tanto che, oggi, al suo nascere, il figlio dell’uomo civilizzato trova a sua disposizione un capitale che gli permette di ottenere, con niente altro che il suo lavoro combinato col lavoro altrui, delle ricchezze sorpassanti i sogni degli Orientali nelle loro novelle delle Mille e una notte.
Il suolo è, in parte, dissodato, pronto a ricevere l’intelligente lavorazione e le scelte sementi, ad adornarsi di lussureggianti raccolti, più che non ne occorra per soddisfare a tutti i bisogni dell’umanità. I mezzi di coltivazione son conosciuti.
Sul vergine suolo delle praterie americane, cento uomini aiutati da macchine potenti producono in pochi mesi il grano necessario per la vita di diecimila persone durante tutto un anno. Là dove l’uomo vuol raddoppiare, triplicare, centuplicare il suo rapporto di produzione, non ha che da «formare» il suolo adatto, dare ad ogni pianta le cure convenienti, ed otterrà dei raccolti prodigiosi. E mentre il cacciatore doveva in altri tempi rendersi padrone di cento chilometri quadrati di terreno per potervi ricavare il nutrimento della sua famiglia, l’uomo civilizzato fa crescere, con difficoltà infinitamente minori e con maggior sicurezza, tutto ciò che gli occorre per far vivere i suoi su di una diecimillesima parte di quello spazio.
Il clima non è più un ostacolo. Quando manca il sole, l’uomo lo sostituisce col calore artificiale, in attesa di creare anche la luce per sviluppare la vegetazione. Con del vetro e dei tubi di acqua calda, raccoglie su di un dato spazio dieci volte maggiori prodotti che non ne raccogliesse prima.
I prodigi che si sono compiuti nell’industria sono ancora più sorprendenti. Con quegli esseri intelligenti, che sono le macchine moderne – frutto di tre o quattro generazioni d’inventori, la maggior parte sconosciuti – cento uomini fabbricano di che vestire dieci mila uomini durante due anni. Nelle miniere di carbone, bene organizzate, cento uomini estraggono ogni anno tanto combustibile da riscaldare diecimila famiglie sotto un clima rigoroso. E vedemmo ultimamente sorgere in pochi mesi al Campo di Marte1 un’intera meravigliosa città, senza che per questo i lavori regolari della nazione francese subissero la menoma interruzione.
E se, nell’industria come nell’agricoltura e come nell’insieme della nostra organizzazione sociale, le fatiche dei nostri antenati non sono di profitto che ad un ristrettissimo numero di noi, non è per questo meno accertato che l’umanità potrebbe sin d’ora concedersi un’esistenza di ricchezza e di lusso, coi soli servitori di acciaio e di ferro ch’essa possiede, le macchine.
Sì certo, noi siamo ricchi, infinitamente più ricchi di quel che non si pensi. Ricchi per quel che già possediamo; ancora più ricchi per quel che possiamo produrre cogli attuali meccanismi; infinitamente più ricchi per quel che potremmo ottenere dal nostro suolo, dalle nostre manifatture, dalla nostra scienza e dal nostro sapere tecnico, se tutto ciò fosse applicato a procurare il benessere universale.
II
Noi siam ricchi nelle società civilizzate. Perché dunque d’intorno a noi questa miseria? Perché questo penoso lavoro delle masse, sino all’abbrutimento? Perché quest’incertezza del domani, anche per i lavoratori meglio retribuiti, in mezzo a tante ricchezze tramandateci in eredità dal passato, e malgrado i grandi e potenti mezzi di produzione che darebbero l’agiatezza a tutti, in compenso di poche ore di lavoro giornaliero?
I socialisti l’hanno detto e ridetto mille volte. Ogni giorno lo ripetono e lo dimostrano con argomenti dedotti da tutte le scienze. Perché tutto ciò che è necessario alla produzione – il suolo, le miniere, le macchine, i mezzi di comunicazione, l’alimento, l’alloggio, l’educazione, la scienza tutto, infine, è stato accaparrato da alcuni nel corso di questa lunga storia di saccheggi, di esodi, di guerre, d’ignoranza e di oppressione, che l’umanità ha vissuto prima d’aver imparato a domar le forze della Natura.
Perché, prevalendosi dei pretesi diritti acquistati nel passato, essi si appropriano oggi dei due terzi dei prodotti del lavoro umano che disperdono poi nello spreco più insensato, più scandaloso, perché, avendo ridotto le masse a non aver dinanzi a loro di che vivere un mese o anche otto giorni, essi non permettono all’uomo di lavorare che quando egli consente a lasciarsi togliere da loro la parte del leone; perché gl’impediscono di produrre ciò di cui ha bisogno, e lo costringono a produrre non già ciò che sarebbe necessario agli altri, ma quel che assicura i maggiori guadagni allo sfruttatore.
Tutto il socialismo è qui.
Ecco infatti un paese civilizzato. Le foreste che una volta l’ingombravano sono state allargate, le paludi prosciugate, il clima reso salubre. Il paese è diventato abitabile. Il suolo che non produceva una volta che delle erbe selvagge, fornisce ora delle messi copiose. Le rocce che dominavano le vallate son ripartite ora in recinti dove s’arrampicano le viti dal frutto dorato. Delle piante selvatiche, le quali prima non producevano che un frutto agro – una radice impossibile a mangiarsi – sono state trasformate per mezzo di successive coltivazioni, in legumi succulenti, in alberi carichi di frutta squisita.
Migliaia di vie lastricate e ferrate intersecano la terra, forano le montagne; la locomotiva fischia nelle gole selvaggie delle Alpi, del Caucaso, dell’Imalaia. I fiumi furono resi navigabili; le coste, accuratamente scandagliate e precisate, sono di facile accesso, e dei porti artificiali, faticosamente scavati e riparati dai furori dell’Oceano, servono di rifugio ai bastimenti. Le rocce sono scavate in pozzi profondi; e labirinti di gallerie sotterranee si estendono colà dove vi è carbone da estrarre, minerale da raccogliere. In tutti i punti dove le strade si incrociano, son sorte città, che, diventate sempre più vaste, racchiudono nel loro seno tutti i tesori dell’industria, dell’arte, della scienza.
Intere generazioni, nate e morte nella miseria, oppresse e maltrattate dai loro padroni, spossate dal lavoro, hanno trasmesso al secolo decimonono questa immensa eredità.
Milioni d’uomini, durante migliaia d’anni, hanno lavorato ad abbattere boscaglie, prosciugare paludi, tracciare strade, arginare fiumi. Ogni ettaro di suolo coltivato in Europa è stato inaffiato dai sudori di molteplici razze; ogni strada ha una storia di fatiche, di lavoro sovrumano, di sofferenze di popolo. Ogni miglio di strada ferrata, ogni metro di galleria, hanno ricevuto il loro battesimo di sangue umano.
I pozzi delle miniere portano ancora le fresche intaccature fatte nella roccia dal braccio dello zappatore. Da un polo all’altro, le gallerie sotterranee potrebbero essere marcate colla tomba d’un minatore ucciso nel fior dell’età o da un’esplosione, o da una frana, o da un’inondazione, e niuno ignora quanti pianti, quante privazioni, quante miserie senza nome, ciascuna di queste tombe sia costata alla famiglia che viveva del magro salario dell’uomo sepolto sotto le ruine.
Le città, collegate fra di loro da reti di ferrovie e da linee di navigazione, sono organismi che hanno vissuto dei secoli. Scavatene il suolo, e troverete le vestigia sovrapposte di strade, case, teatri, arene, edifici pubblici. Approfonditene la storia, e vedrete come la civilizzazione della città, la sua industria, il suo genio si siano lentamente sviluppati e maturati col concorso di tutti i suoi abitanti, prima di essere diventati ciò che sono oggidì.
Ed anche ora, il valore di ogni casa, di ogni officina, di ogni fabbrica, di ogni magazzino, non è fatto che col lavoro accumulato dalle migliaia di lavoratori sepolti sotto terra; e non si mantiene che con lo sforzo delle legioni d’uomini che abitano quel punto del globo. Ciascun atomo di ciò che noi chiamiamo la ricchezza delle nazioni, non acquista il suo valore che perché è una parte di quest’immenso tutto. Che cosa sarebbero gli immensi depositi di Londra o i grandi magazzini di Parigi se non fossero situati in quei grandi centri del commercio internazionale?
Che diventerebbero le nostre miniere, le nostre fabbriche, i nostri cantieri e le nostre ferrovie, senza i mucchi di merci trasportate ogni giorno per terra e per mare?
Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.
Persino il pensiero, persino le invenzioni, son fatti collettivi nati dal passato e dal presente. Sono migliaia d’inventori, conosciuti o sconosciuti, morti nella miseria, i quali hanno preparato le successive invenzioni di ciascuna di queste macchine in cui l’uomo ammira il proprio genio. Sono migliaia di scrittori, di poeti, di dotti, i quali hanno lavorato per perfezionare la dottrina, per dissipare l’errore, per creare infine quest’atmosfera di pensiero scientifico, senza la quale nessuna delle meraviglie del nostro secolo non si sarebbe prodotta. Ma queste migliaia di filosofi, di poeti, di dotti, d’inventori, non erano anch’essi il prodotto del lavorìo dei secoli passati prima di loro? E non furono, durante tutta la loro vita, nutriti e aiutati, sì fisicamente che moralmente, da legioni di lavoratori e di artigiani di ogni specie? Non attinsero essi la loro forza d’impulsione da tutto ciò che li circondava?
Il genio di un Seguin, d’un Mayer, d’un Grove2 hanno fatto certamente più che tutti i capitalisti del mondo per slanciare l’industria verso nuovi orizzonti, ma questi geni stessi son figli dell’industria nonché della scienza. Imperocché bisognò che migliaia di macchine a vapore trasformassero d’anno in anno, sotto gli occhi di tutti, il calore in forza dinamica, e questa forza a sua volta in suono, luce ed elettricità, prima che queste intelligenze geniali avessero proclamato l’origine meccanica e l’unità delle forze fisiche. E se noi, figli del secolo decimonono, abbiam compreso finalmente quest’idea, se noi abbiamo saputo applicarla, egli è perché noi vi eravamo stati preparati dall’esperienza di ogni giorno e di ogni ora. Anche i pensatori del secolo scorso l’avevano traveduta ed enunciata: ma essa rimase incompresa, giacché il secolo decimot...
Indice dei contenuti
- CoverImage
- 0.Petr_Kropotkin_La_conquista_del_pane
- 1.Le_nostre_ricchezze
- 2.L_agiatezza_per_tutti
- 3.Il_comunismo_anarchico
- 4.L_espropriazione
- 5.Le_derrate
- 6.L_alloggio
- 7.Le_vestimenta
- 8.Vie_e_mezzi
- 9.I_bisogni_di_lusso
- 10.Il_lavoro_gradevole
- 11.Il_libero_accordo
- 12.Obiezioni
- 13.Il_salariato_collettivista
- 14.Consumo_e_produzione
- 15.Divisione_del_lavoro
- 16.Il_decentramento_delle_industrie
- 17.L_agricoltura