Moltitudine, solitudine
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Wakefield - Bartleby lo scrivano - L'uomo della folla. Tre racconti

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Moltitudine, solitudine

Wakefield - Bartleby lo scrivano - L'uomo della folla. Tre racconti

Informazioni su questo libro

Il titolo di questa piccola antologia, Moltitudine, solitudine, è firmato da Baudelaire ed è tratto da Le folle, un poemetto in prosa del 1861 ispirato dall'Uomo della folla di Poe. Wakefield, l'Uomo della folla e Bartleby sono personaggi assimilabili allo spettro evocato da Baudelaire, o quanto meno sono uomini inseguiti da creature dell'oscuro. I tre racconti sono esemplari della grandezza di tre fra i massimi scrittori dell'epoca e tuttavia marcano anche una sorta di anomalia, una tappa singolare nell'arco delle rispettive parabole creative.Mentre "uno spettro si aggira per l'Europa", lo spettro, l'incubo che si aggira invece sulle pagine dei romanzi e dei racconti scritti in quei decenni non è più la creatura d'oltretomba che infesta castelli aviti e dimore isolate nella brughiera: l'armamentario gotico che ha sostenuto la letteratura fantastica dalla fine del Settecento fino alla metà del secolo seguente sbiadisce per lasciare spazio a nuove paure, insinuate tra i muri sporchi degli slum, nei fumi delle fabbriche, nel coagularsi incessante di genti, merci e denaro lungo le vie metropolitane. Sono spettri inurbati, creature pallide di stenti e con i nervi a pezzi, macilente o dignitose ma sempre sull'orlo della disfatta; fanno da specchio ai timori e terrori più occulti dei concittadini tra i quali si aggirano, anche in pieno giorno.

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Bartleby lo scrivano | Herman Melville

Sono un uomo piuttosto anziano. La natura delle mie occupazioni mi ha, negli ultimi trent’anni, messo in un rapporto più che ordinario con una classe d’uomini che può sembrare interessante e qualche volta singolare, e della quale, per quanto so, nulla è mai stato scritto fino ad ora: parlo dei giovani d’avvocati o scrivani. Di questi ne ho conosciuti moltissimi, per ragioni di professione e privatamente e, se volessi, saprei narrare di loro diverse storie, che potrebbero far sorridere i signori bonari e far piangere le anime sentimentali. Ma tralascio le biografie di tutti gli altri scrivani per pochi tratti della vita di Bartleby, lo scrivano più bizzarro che abbia mai visto o sentito. Mentre di tutti gli altri potrei scrivere la vita completa, nulla di simile può esser fatto per Bartleby. Non credo esista materia per una biografia intera e soddisfacente di quest’uomo. Perdita irreparabile per la letteratura. Bartleby fu uno di quegli esseri di cui nulla è accertabile, se non alla fonte originale e, nel suo caso, è una magra fonte. Quello che i miei occhi stupiti hanno visto di Bartleby, è tutto quanto so di lui; tolta, si capisce, qualche vaga notizia che si conoscerà più tardi.
Prima che io presenti lo scrivano come mi apparve per la prima volta, è opportuno che dia un qualche cenno di me stesso, dei miei employés, del mio lavoro, del mio ufficio, di tutto l’ambiente circostante; tale descrizione, infatti, è indispensabile all’adeguata comprensione del protagonista che sta per essere presentato.
In primis: io sono un uomo che, fin da giovane, ho nutrito la profonda convinzione che più facile è la vita meglio è. Perciò, sebbene appartenga a una categoria di professionisti proverbialmente attivi, eccitabili e a volte perfino turbolenti, non ho mai tollerato che qualcosa alterasse la mia tranquillità. Io sono uno di quegli avvocati senza ambizione, che non interpellano mai i giurati, né tentano in nessun altro modo di strappare il pubblico applauso; ma che nella prudente tranquillità di un comodo ritiro, trattano affari sicuri fra i titoli, le ipoteche, i contratti di gente ricca. Tutti quelli che mi conoscono mi ritengono un uomo di cui si ci può interamente fidare. Il defunto John Jacob Astor, persona che di rado indulgeva all’entusiasmo poetico, non esitò a dichiarare che la mia prima virtù era la prudenza, e la seconda, il metodo. Non parlo per vanità, ma ricordo soltanto come il defunto John Jacob Astor, nome che, lo ammetto, mi piace ripetere perché ha un suono rotondo, riecheggiante, d’oro colato, non trascurò di servirsi di me nella mia professione. E aggiungerò anche, con tutta sincerità, di non essere rimasto indifferente alla buona opinione che il defunto John Jacob Astor aveva di me.
Qualche tempo prima che avesse inizio questa breve storia, i miei affari erano molto aumentati. Mi era stata affidata la nobile e antica carica, adesso estinta nello stato di New York, di giudice dell’alta Corte. Non era una carica molto faticosa, ma piacevolmente remunerativa. Raramente io perdo la calma; ancor più raramente mi lascio prendere da pericolosa indignazione per offese o torti subiti; ma qui mi si deve permettere di essere temerario e di dichiarare che giudico l’improvvisa e violenta abrogazione della carica di giudice dell’alta Corte come un… atto prematuro; avevo infatti calcolato di goderne i benefici vita natural durante, raccolsi, invece, soltanto quelli di pochi brevi anni. Ma questo non ha importanza.
Avevo, allora, degli uffici in Wall Street, a uno dei piani superiori del n. … Da un lato essi guardavano sopra il bianco muro di un pozzo d’aereazione, che penetrava l’edificio da cima a fondo. Il panorama poteva essere giudicato un po’ insulso, mancandovi del tutto quel che i paesisti chiamano “movimento”. In tal caso, però, la vista dall’altro lato dell’ufficio offriva, se non altro, un contrasto. Da quella parte le mie finestre si aprivano sulla libera visuale di un superbo muro di mattoni anneriti dal tempo e dall’ombra costante; né occorreva un cannocchiale per goderne le segrete bellezze, perché, a vantaggio degli spettatori dalla vista corta, il muro si levava a meno di tre metri dalle mie finestre. Per essere gli edifici circostanti molto alti, e i miei uffici posti al secondo piano, l’intervallo fra questo muro e il mio aveva non poca somiglianza con una grande cisterna quadrata.
Nel periodo precedente di poco la venuta di Bartleby, io impiegavo presso di me due persone come copisti, e come fattorino un ragazzo di belle speranze. Primo, Turkey, secondo Nippers e terzo Ginger Nut. Nomi come questi non sembra si trovino tanto facilmente nella Guida commerciale. In realtà erano soprannomi, che i miei tre commessi si erano dati scambievolmente e che furono giudicati adatti a ben dipingerne le rispettive persone e i caratteri. Turkey era un inglese tozzo e asmatico, su per giù della mia età, non lontano, cioè, dalla sessantina. La mattina, si sarebbe potuto dire che la sua faccia aveva un bel colore florido, ma dopo le dodici (dico mezzogiorno!), ora del suo pranzo, ardeva come una graticola di stufa piena di un fuoco natalizio e continuava ad ardere, ma gradatamente attenuandosi, fino alle sei pomeridiane circa, dopo di che, io perdevo di vista il proprietario di quella faccia, la quale, raggiungendo il suo meridiano splendore col sole, sembrava tramontare con lui, per poi tornare a levarsi, toccare il culmine e declinare il giorno successivo, con la medesima regolarità e immutata gloria. Nel corso della mia vita ho avuto modo di conoscere parecchie strane coincidenze, fra le quali non ultima la grave alterazione delle capacità di lavoro di Turkey, che cominciava esattamente ogni giorno nel critico momento in cui egli spiegava il maggior fulgore del suo viso rosso e sfolgorante, per durare il resto delle ventiquattro ore. Non che egli rimanesse completamente in ozio, o si rifiutasse di compiere i suoi doveri; tutt’altro. Il male era che egli diventava troppo attivo. V’era in lui uno strano, infiammato, turbinoso, volubile, temerario dinamismo. Tuffava la penna nel calamaio senza prudenza. Tutte le macchie che faceva sui miei inserti, vi cadevano dopo le dodici (mezzogiorno!), nelle ore meridiane. Nel pomeriggio non soltanto diveniva audace e tristemente portato a macchiare le carte, ma, in certi giorni, andava anche più in là, ed era piuttosto rumoroso. In tali occasioni, la sua faccia fiammeggiava di un accresciuto splendore, come se all’antracite fosse stato aggiunto del litantrace. Faceva uno spiacevole fracasso con la sedia: rovesciava il polverino; nell’appuntare nervosamente le penne, le spezzava tutte e le scagliava sul pavimento della stanza con improvvisa collera, si alzava e si piegava sul tavolo, scompigliando carte intorno a sé in un modo poco decoroso e ben triste a vedersi in un uomo anziano come lui. Nondimeno, come impiegato era preziosissimo per me, sotto vari aspetti, e prima delle dodici (mezzogiorno!) anche persona sveltissima, fidatissima, capace di eseguire una buona dose di lavoro, e in una maniera che difficilmente poteva esser superata; per tali ragioni ero pronto a chiudere un occhio sulle sue stravaganze, sebbene qualche volta, a dir la verità, gliele rimproverassi. Con molto garbo, però; infatti, pur essendo il più civile, anzi, il più mite e rispettoso degli uomini la mattina, nel pomeriggio, se provocato, facilmente rispondeva in modo sconsiderato e, per dir la verità, insolente. Ora, per quanto apprezzassi i suoi servigi della mattina, e fossi risoluto a non perderli, i suoi modi violenti del pomeriggio mi mettevano a disagio, ma essendo per natura pacifico e non volendo richiamare coi miti rimproveri le sue sconvenienti risposte, un sabato, a mezzogiorno, mi risolsi (il sabato egli era sempre peggiore) ad accennargli, con molta dolcezza, che adesso, aumentando l’età, sarebbe stato meglio per lui alleggerirsi di lavoro; insomma, che non v’era bisogno che egli tornasse in ufficio dopo le dodici. Anzi, avrebbe fatto meglio ad andarsene a casa, appena pranzato, a riposarsi sino all’ora del tè. Ma no; egli non intendeva rinunciare alle sue prestazioni pomeridiane. S’infervorò in modo di più in più intollerabile, mentre con foga oratoria insisteva, gesticolando con un lungo righello, all’altro capo della stanza, che se i suoi servigi erano utili la mattina perché mai non sarebbero stati a maggior ragione indispensabili nel pomeriggio?
“Con tutto il dovuto rispetto, signore”, disse Turkey in questa occasione, “io mi ritengo il vostro braccio destro. La mattina non faccio altro che riordinare e spiegare le mie schiere; ma nel dopopranzo mi metto alla loro testa, e gagliardamente carico il nemico così!” e avanzò una violenta stoccata col righello.
“Ma le macchie, Turkey”, replicai.
“Giusto!, ma, con tutto il rispetto, signore, guardate i miei capelli. Invecchio. Dovete ammettere, signore, che una macchia o due in un caldo pomeriggio, non si possono rimproverare alla canizie. La vecchiaia, anche se macchia il foglio, è rispettabile. Con tutto il rispetto, signore, invecchiamo tutti e due.”
Era difficile resistere a questo accenno. Ad ogni modo, vidi che di andarsene non voleva sentir parlare. Così mi rassegnai a lasciarlo stare, stabilendo, nondimeno, che durante il pomeriggio non gli avrei lasciato fra le mani se non le carte meno importanti.
Nippers, il secondo della lista, era un giovane di circa venticinque anni, baffuto, dal viso terreo e, nell’insieme, dall’aspetto un po’ piratesco. Sempre l’ho sospettato vittima di due malvagi poteri: l’ambizione e la cattiva digestione. L’ambizione si manifestava in una sua insofferenza dei compiti di semplice scrivano, nella ingiustificata usurpazione di affari strettamente professionali, come, per esempio, la compilazione di qualche documento legale. La cattiva digestione sembrava indicata da un occasionale nervosismo e dalla ghignante irritabilità che gli facevano digrignare, in modo molto udibile, i denti a ogni errore commesso nel copiare, dalle non necessarie imprecazioni, sibilate anziché dette, nel fervore del lavoro e, specialmente, dal suo continuo malcontento per l’altezza del tavolo a cui lavorava. Per quanto capace di ingegnosissime trovate meccaniche, Nippers non riusciva mai a collocare la tavola nel modo che gli conveniva. Vi metteva sotto biette di legno, rincalzi d’ogni genere, pezzi di cartone; e giunse fino a t...

Indice dei contenuti

  1. Questo libro
  2. L’uomo della folla | Edgar Allan Poe
  3. Wakefield | Nathaniel Hawthorne
  4. Bartleby lo scrivano | Herman Melville
  5. Avvertenza
  6. Metropolis | Roberta Mazzanti
  7. Bibliografia