CAPITOLO NONO
Conflitto psichico e funzionamento mentale normale
Nel capitolo precedente abbiamo concentrato prevalentemente l’attenzione su quelle conseguenze del conflitto psichico classificabili come patologiche. In questo capitolo verrà posto l’accento sull’estremo opposto della gamma degli stati psichici. Prenderemo in esame aspetti dello sviluppo della personalità che, sebbene intimamente correlati al conflitto psichico, possono tuttavia venir classificati come normali piuttosto che come anormali.
Abbiamo già osservato che in questo campo la differenza fra ciò che si definisce normale e ciò che si definisce patologico si risolve, in concreto, in una differenza di grado. Non si tratta di una differenza qualitativa. Perciò è impossibile, a meno che non si operi su una base puramente arbitraria, distinguere nettamente fra una conseguenza di un conflitto psichico che sia al limite dell’anormalità e un’altra che sia al limite della normalità. Il campo del normale e dell’anormale sfumano l’uno nell’altro come avviene ai colori dell’arcobaleno.
D’altro canto vi sono molteplici conseguenze del conflitto psichico la cui normalità è indiscutibile. È sovente possibile osservare tali fenomeni normali nel corso dell’analisi di pazienti nevrotici. È proprio in questa situazione che si presenta l’opportunità di scoprire le origini complesse e il significato inconscio di fenomeni normali, circostanza che non si sarebbe mai verificata se l’individuo non fosse sottoposto all’analisi. Ed è proprio sulla base di tale esperienza analitica che tenteremo, nel presente capitolo, di illustrare il rapporto intercorrente fra i conflitti psichici e gli aspetti normali dello sviluppo della personalità, quali i tratti del carattere, la scelta della professione, del partner sessuale, ecc. Tratteremo inoltre di altri aspetti della vita mentale normale i cui legami con il conflitto psichico sono dimostrabili, ma circa i quali i dati desunti dalla psicoanalisi individuale risultano meno soddisfacenti o abbondanti, e cioè le fiabe, i miti, le leggende, la religione, la morale, ecc. In questi ultimi esempi le nostre conclusioni saranno fondate in parte sull’esperienza dovuta all’analisi di singoli pazienti e in parte su ciò che la psicoanalisi può suggerire a proposito della natura umana in generale.
L’interesse della psicoanalisi circa i tratti del carattere fu in un primo tempo diretto a evidenziare i loro rapporti con i desideri pulsionali dell’infanzia. Freud (1908a) suggerì l’esistenza di una relazione fra le vicende dell’erotismo anale nell’infanzia e la metodicità, la parsimonia e l’ostinazione nella vita adulta, nonché fra i desideri a carattere fallico dell’infanzia e l’ambizione in età posteriore. Altri psicoanalisti seguirono in questo campo la direzione indicata da Freud. Come conseguenza di questo atteggiamento si sviluppò una nomenclatura relativa ai tipi di carattere che derivava dalla connessione spesso osservabile fra i tratti del carattere e una particolare fase dello sviluppo libidico. Gli analisti parlarono di caratteri, o tratti del carattere, orali, anali o fallici. L’esperienza clinica risultante dal rapporto con numerosi pazienti fornì un supporto concreto alla originaria supposizione freudiana secondo cui i tratti di carattere sopra menzionati deriverebbero sovente da desideri anali e da conflitti risalenti alla prima infanzia. Il termine “anale” è stato applicato anche a individui particolarmente disordinati, sporchi e trascurati, per la medesima ragione. La fiducia in se stessi, l’ottimismo e la generosità, così come il loro contrario, sono stati descritti, sulla base di analoghe considerazioni, come tratti di carattere orale, mentre l’ambizione e il bisogno di approvazione e di consensi sono stati etichettati come fallici.
Questa classificazione poggia sulla teoria delle pulsioni, in particolare della pulsione libidica. Essa riflette il rilievo posto sull’aspetto pulsionale della vita psichica che caratterizzò la prima fase dello sviluppo della psicologia psicoanalitica. Fu solo gradualmente che si sviluppò una maggiore conoscenza della complessità della via che conduce dai desideri pulsionali dell’infanzia e dai conflitti a cui essi danno origine, alla vita mentale e al comportamento degli adulti. Negli esempi seguenti si è tentato di indicare sia il grado di complessità cui può giungere questa via, sia il modo in cui le esperienze della vita di ciascun individuo possono contribuire a determinare il risultato finale.
Il primo esempio si riferisce al caso di una donna di 25-26 anni nel cui stile di vita il tratto di carattere di una caritatevole generosità era molto evidente. Ella si sottopose all’analisi perché accusava sintomi nevrotici alquanto gravi. Nel corso dell’analisi venne alla luce il fatto che la sua carità era strettamente legata ai conflitti infantili non meno di quanto lo erano i suoi sintomi nevrotici: tuttavia la si doveva classificare in senso stretto come un tratto normale del carattere, in quanto era fonte di soddisfazione per la paziente, non le causava danni ed era socialmente accettabile. Veniamo ora a esporre i dati relativi al caso.
A partire dalla primissima infanzia la paziente era stata separata dalla madre per lunghi periodi. Le circostanze in cui erano avvenute tali separazioni chiarirono il fatto che, anche nei periodi trascorsi insieme, il rapporto della paziente con la madre doveva essere stato estremamente insoddisfacente e frustrante. I legami intensamente ambivalenti con la madre e i conflitti che da essi si generarono risultavano di primaria importanza per ogni aspetto della sintomatologia nevrotica della paziente. Inoltre proprio ad essi risalivano le cause della sua carità. Fin dai primi anni di vita ella aveva assunto un atteggiamento protettivo verso i fratelli minori, bambini trascurati come lei e come lei esposti agli imprevedibili umori e atteggiamenti della madre. Sebbene fosse di poco maggiore di loro – tutti erano nati nell’arco di pochi anni – la paziente si era eretta a protettrice dei fratellini, prendeva le loro parti, cercava di evitare loro le punizioni, li consolava quando erano tristi, comportandosi più da madre che da sorella. Agiva nei loro confronti come una “buona” mamma si comporterebbe con i suoi figli. Da adulta aveva sperimentato ed estrinsecato lo stesso impulso ad aiutare la “povera gente” maltrattata del nostro grande mondo. Si era appassionatamente dedicata a questa opera di carità nella quale devolveva generosamente tempo, fatica e denaro. Insieme alla sua generosità verso gli oppressi vi erano in lei disprezzo e odio per gli oppressori, per il sistema. Coloro che soccorreva erano inconsciamente eguagliati a se stessa e ai fratelli da bambini. Quelli che odiava erano inconsciamente eguagliati con la madre, quale era apparsa loro al tempo dell’infanzia. Mediante il suo odio per gli oppressori dei deboli ella si prendeva ora quella vendetta sulla madre che aveva desiderato quando era bambina. Mediante la generosità verso i succubi ella forniva inconsciamente a sé e ai fratellini una madre fidata e disponibile, in luogo della madre incostante ed egocentrica che avevano avuto nella realtà.
Dunque, il duraturo e interno desiderio di una madre amorosa e devota e insieme l’odio e il desiderio di vendetta costituivano le principali cause dell’importanza assunta per la paziente dal particolare tipo di attività caritatevole da lei svolta da adulta. Altre forme di carità esercitavano su di lei scarsa attrattiva. Quando vi si dedicava, lo faceva in maniera tanto superficiale da apparire in netto contrasto con la fervente devozione suscitata dagli oggetti preferiti della sua amorevole generosità. Ecco dunque l’esempio di un tratto di carattere normale che deriva chiaramente dai bisogni e dalle frustrazioni pulsionali risalenti alla prima infanzia della paziente.
Il secondo esempio si riferisce a un paziente di trent’anni di cui erano caratteristiche la gentilezza, la simpatia, la sensibilità e lo spirito di cooperazione. Come la prima paziente, l’uomo soffriva di notevoli disturbi nevrotici, ma, per quanto riguarda gli aspetti particolari sopra esposti, si comportava come lo stereotipo ideale di ciò che egli era realmente: il prodotto di una famiglia dell’alta borghesia, benestante e profondamente morale, e delle migliori scuole. Le “buone maniere”, si sarebbe detto, erano naturali in lui come l’atto di respirare e, se non fosse stato per quanto emerse nel corso dell’analisi, si sarebbe stati inclini ad attribuire la sua “naturale” correttezza di comportamento al fatto che tali maniere gli erano state insegnate fin da bambino. Risultava chiaro inoltre che questo aspetto della sua personalità costituiva un tratto di carattere normale sotto tutti i punti di vista. Esso infatti era socialmente accettabile, e, lungi dal causare al paziente disagio o sofferenza, il suo piacevole, spontaneo, sensato modo di affrontare la vita gli aveva sovente procurato dei vantaggi. Anch’egli aveva talvolta i suoi momenti di scoraggiamento o di preoccupazione, come avviene a tutti quando un fallimento o un pericolo ci minacciano, ma in lui queste emozioni erano di breve durata. Aveva prontamente adottato le giudiziose opinioni secondo le quali ciò che non si può cambiare si deve sopportare, una persona ha più successo se è affascinante che se si lamenta, e se uno “va per la sua strada” e si attiene a ciò che da lui ci si aspetta che faccia, le cose non potranno che andare in modo soddisfacente. «Un filosofo, un secondo Esopo», direte. Invece, in realtà, non il talento filosofico ma piuttosto le dure realtà della sua infanzia avevano talmente rinforzato le virtù convenzionali del suo ambiente culturale, che esse erano divenute per lui una parte di vitale importanza, una parte necessaria della sua personalità. All’età di nove anni il paziente era stato improvvisamente minacciato dalla prospettiva di perdere la persona che costituiva per lui il più importante membro adulto della famiglia. Per tre giorni egli era stato acutamente e profondamente depresso. Poi, fortunatamente, il pericolo di quella perdita era passato, ma mai in modo permanente, per quanto lo riguardava. La possibilità dell’abbandono era sempre rimasta presente nella sua mente. Egli aveva reagito in due maniere opposte. La prima consisteva nel convincersi, con il proprio comportamento, che ciò che temeva non si sarebbe mai verificato. La seconda si esprimeva nel suo prepararsi al momento in cui l’evento si sarebbe inevitabilmente prodotto, in modo da non ritrovarsi impotente di fronte ad esso e da non farsene travolgere. La prima gamma di reazioni concerneva nella sua sostanza l’atto di respingere desideri e comportamenti di natura pulsionale. Prima della minacciata perdita il paziente era stato un ragazzo dal temperamento impetuoso con occasionali accessi d’ira. Non fu più così. Da quel periodo, al momento in cui si era sottoposto all’analisi, il paziente non ricordava nemmeno una occasione in cui si fosse sentito veramente arrabbiato. Anche le sue attività sessuali vennero limitate, sebbene non certo in maniera così drastica. Egli divenne, in altre parole, proprio un bravo ragazzo, e non si rese più colpevole di quel comportamento aggressivo e sessuale cui era certo fosse da attribuire la minaccia di abbandono che aveva sperimentato a nove anni. La seconda gamma di reazioni consisteva essenzialmente in una identificazione con l’adulto di cui temeva la perdita. Egli divenne, come quell’adulto, gentile, sensibile, pratico e di un incrollabile ottimismo. Divenne capace di “badare a se stesso”, grazie a questa identificazione, e più tardi lo fece in senso letterale, quando lasciò nella prima adolescenza la propria abitazione per frequentare da interno la scuola. In questo caso, come nel precedente, è chiara l’esistenza di una stretta connessione fra il conflitto psichico e il trauma dell’infanzia e un tratto di carattere normale e utile della tarda infanzia e della vita adulta. Le maniere corrette e sempre misurate del paziente e il suo accattivante ottimismo non erano soltanto il risultato della sua educazione. Tali caratteristiche erano fortemente motivate dalla convinzione che un carattere bizzoso o un comportamento scorretto avrebbero determinato un nuovo abbandono, come quello che egli aveva quasi subito all’età di nove anni. Inoltre esse erano il risultato della sua identificazione con l’adulto che aveva quasi perduto in quell’occasione. In altri termini, questi tratti di carattere particolarmente normali e utili all’adattamento erano intimamente connessi sia al trauma e al conflitto infantili del paziente che ai suoi sintomi nevrotici. La loro motivazione nasceva dalle medesime origini.
Abbiamo già notato, nel capitolo V, l’importanza del meccanismo della identificazione nella formazione del Super-io durante il periodo edipico. La formazione del Super-io è un argomento sul quale ritorneremo più avanti nel corso del presente capitolo. Per ora desideriamo sottolineare che non tutte le identificazioni del periodo edipico sono collegate alla formazione del Super-io. Alcune, per esempio, si producono come espressione, solo superficialmente mascherata, dei desideri sessuali e competitivi del bambino. È caratteristica comune per un bambino l’avere il desiderio conscio di essere esattamente come il proprio padre, che egli tanto ammira e invidia, e non è raro che un tale desiderio persista nella vita adulta, così che il figlio diviene in vari modi una replica psicologica del padre. Lo stesso risulta vero, in misura sovente significativa, nei rapporti fra madre e figlia. In questi casi il genitore e il bambino possono avere gesti simili, identiche espressioni facciali, lo stesso modo di camminare, di parlare, di ridere, la stessa riservatezza o vivacità quando sono in compagnia, ecc. In realtà, ciò che sembra somiglianza fisica fra genitore e figli talvolta non lo è affatto ed è invece identità di comportamento. È il risultato non tanto di caratteristiche fisiche ereditarie quanto di tratti psicologicamente determinati, cioè di identificazioni inconsce che si sono prodotte durante l’infanzia, spesso come espressione del desiderio infantile di essere il genitore con cui il bambino si è identificato secondo varie modalità.
L’ammirazione e l’invidia dei bambini non sono rivolte esclusivamente verso i loro genitori, sebbene, per quanto sappiamo, siano questi i loro principali oggetti. I bambini provano sentimenti simili, sovente molto intensi, verso i fratelli, sentimenti che possono avere una parte considerevole nella vita pulsionale del bambino e nei conflitti e nelle formazioni di compromesso che ne conseguono. Era questo il caso in una giovane donna che nutriva per la musica un notevole interesse senza vocazione. Ella amava ascoltare concerti, aveva un’educazione musicale ottima per un dilettante e aveva studiato per alcuni anni il violoncello, uno strumento che amava suonare, pur senza compiere mai progressi di rilievo. In tutto ciò ella imitava non la madre bensì la sorella maggiore, che era già da tempo un’affermata concertista. Il padre teneva nella massima considerazione il talento musicale e i successi della figlia maggiore. Fin dall’infanzia la paziente aveva avuto l’impressione che la sorella fosse la preferita del padre grazie alle sue doti musicali, e aveva studiato la musica per imitare la sorella, con la speranza di poter rivaleggiare con lei per ottenere l’affetto del padre. Il successivo sviluppo dell’interesse per la musica di questa paziente era stato tale da poter essere definito come normale. Si trattava di una componente piacevole e secondaria della sua vita, come lo è per la maggior parte degli appassionati di musica nella nostra società. Tuttavia non vi è dubbio circa il fatto che l’interesse della paziente per la musica aveva tratto origine dal suo complesso edipico, cioè dalla sua rivalità infantile con la sorella per ottenere l’amore del padre. Inoltre fu possibile notare, nel corso dell’analisi, come anche nella vita adulta le attività musicali della paziente mantenessero ancora una significatività edipica. Una volta, per esempio, ella riferì un sogno nel quale suonava in un’orchestra. Le sue associazioni riportarono alla luce i ricordi di un musicista di cui era stata innamorata un certo numero di anni prima, e che, come ella aveva appreso di recente, era divenuto direttore di un’orchestra famosa. Come ella disse, quest’uomo non era affatto simile a suo padre nell’età o nell’aspetto fisico, tuttavia glielo richiamava sempre alla memoria, forse a causa del fatto che usava la medesima acqua di colonia come lozione dopobarba. Dunque, le sue associazioni chiarirono in primo luogo che il contenuto latente del sogno era un desiderio edipico di unione sessuale con il padre, e in secondo luogo che questo desiderio si era espresso in forma mascherata come fantasia (sogno) di “fare musica” con un uomo che ella aveva amato “molto tempo fa”. La musica manteneva ancora per lei, a livello inconscio, la sua originaria significanza edipica.
La medesima relazione può essere colta fra la vita pulsionale dell’infanzia e caratteristiche normali della vita adulta, quali la scelta di una professione e di un partner nella vita sessuale. È difficile fornire esempi esaurienti, desumendoli dalla propria esperienza, circa la scelta della professione, in quanto si corre il rischio di mancare all’etica professionale. Tuttavia, anche esempi abbreviati e mimetizzati possono sufficientemente indurre il lettore a convincersi almeno in parte della correttezza dell’asserzione che intendiamo illustrare.
Un ostetrico di cinquant’anni era il maggiore di sei fratelli. Egli e tutti i suoi fratelli e sorelle erano nati in una casa di campagna dove il paziente aveva trascorso l’infanzia. Ogni parto costituiva un evento di grande rilievo, verso il quale il paziente provava un’intensa curiosità, ma a cui non gli era mai stato consentito di assistere, sebbene la nascita degli animali gli fosse spettacolo familiare fin dai primi anni di vita. La curiosità sessuale era stata un fattore importante nel determinare la vita lavorativa di questo paziente. Oltre che a soddisfare la sua curiosità, la scelta professionale obbediva ad altri intenti, anch’essi inconsci. Da un lato, essa gratificava il suo desiderio di essere superiore al padre, che si era sempre mostrato deferente e sottomesso al medico che seguiva la madre del paziente nelle sue frequenti gravidanze. Dall’altro, essa rinforzava le sue difese contro l’ira che lo invadeva a ogni gravidanza contro la madre e il nuovo nato. Nella professione di ostetrico egli era gentile e ben disposto verso le madri e i bambini, non ferocemente rabbioso e conseguentemente sopraffatto dai sensi di colpa come era stato nell’infanzia. Infine, come ostetrico, si sentiva competente e fiducioso in se stesso a ogni nascita di bimbo, anziché insignificante e impotente come si era sentito da ragazzo.
Un altro paziente, medico, fra i trenta e i quarant’anni, era stato separato dalla madre per alcune settimane, all’età di quattro anni, perché la donna aveva dovuto ricoverarsi in ospedale per sottoporsi a un delicato intervento chirurgico. Fra le principali conseguenze di quell’esperienza per la vita del paziente vi fu la decisione di diventare medico, ed esattamente chirurgo, un dottore, cioè, che “taglia”, come egli aveva spiegato dopo di allora a chi gli chiedeva che cosa avrebbe fatto da grande. L’ambivalenza verso la madre appare chiara e venne ampiamente confermata negli anni successivi attraverso l’analisi. Fare il chirurgo significava da un lato stare accanto alla madre anziché separato da lei, curarla ed essere il suo eroe. Nello stesso tempo significava ferirla e punirla per la sua infedeltà e il suo abbandono.
Un terzo paziente, che si era sottoposto all’analisi verso i trent’anni, faceva da mediatore nelle cause di lavoro. Come il paziente stesso ricordò, il trauma principale dei suoi primi anni di vita era stato una separazione forzata dalla madre nella prima infanzia. Egli era stato mandato a frequentare la scuola come interno quando aveva solo sei anni. Il motivo evidente del suo esilio era il fatto che i genitori avevano litigato e si erano separati. Il paziente ebbe numerose difficoltà nevrotiche negli anni successivi, ma ottenne anche un rilevante successo come intermediario nei conflitti di lavoro. Era instancabile nei suoi sforzi di risolvere i dissidi fra le due parti in ogni causa di lavoro di cui si occupava e riusciva in genere a evitare un’aperta rottura fra di esse. Sosteneva consapevolmente l’opinione secondo cui non esiste dissidio, fra i contendenti in una disputa, che non possa essere risolto in modo soddisfacente, qualora le parti si siedano a un tavolo e discutano. In questo caso la separazione del paziente dai suoi genitori aveva suscitato un intenso desiderio che essi cessassero la polemica e si riunissero in modo che egli potesse nuovamente ritrovarsi con loro e in particolare con la madre. Nel corso di tutta la vita il paziente aveva lavorato per mantenere unite le persone con cui veniva in contatto affinché esse non si separassero, come avevano fatto i suoi genitori, lasciando i lavoratori senza tetto, in senso figurato, come egli lo era stato, letteralmente, all’età di sei anni. Siamo nuovamente in presenza di un trauma infantile che si esprime inconsciamente in una normale scelta di professione nella vita adulta.
Se si prende in esame la relazione fra la vita pulsionale dell’infanzia e la successiva scelta di un partner sessuale, ci si trova di fronte a una imbarazzante molteplicità di esempi. Le connessioni fra i due eventi sono così variamente configurate e profonde che la difficoltà principale consiste nel fornire alcune indicazioni circa la loro complessità. Stabilire la loro semplice esistenza è un compito di scarsa importanza, e ciò non deve stupire. È sufficiente riflettere sul fatto che nella vita di ciascuno i primi oggetti sessuali sono edizioni successive di quelli infantili. E ciò è vero tanto per gli individui normali o lievemente nevrotici che per i soggetti gravemente nevrotici. Un esempio o due saranno sufficienti per illustrare qualcosa che può essere ampiamente confermato anche da un’osservazione relativamente superficiale.
Un giovanotto si era innamorato e si era sposato con una donna che, come egli stesso aveva allora riconosciuto, assomigliava a lui nelle caratteristiche fisiche quali la struttura, l’altezza e la fisionomia. Il paziente non aveva, tuttavia, alcuna idea che tale somiglianza fisica avesse costituito uno dei motivi per cui la donna lo aveva attratto. Solo più tardi, quando era in analisi, si accorse che il fatto che si somigliassero tanto da sembrare fr...