
- 208 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Le narrazioni sono molto di più del racconto di un'esperienza. Esse permettono alla memoria e al pensiero di esteriorizzarsi nella lingua parlata. In tal modo diventano la moneta contante che i membri di una società si scambiano per accordarsi o dissentire, insomma per creare cultura. Attraverso le narrazioni le persone divengono compiutamente umane, perché dispongono di un modo per riflettere su quello che hanno dentro di sé proprio raccontandolo agli altri.
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Informazioni
VI
Il Sé autobiografico
SANDRINO E IL FERROVIERE
Il film Il ferroviere venne diretto e interpretato da Pietro Germi nel 1956. Ambientato nella povera Italia del dopoguerra che appena cominciava a lasciarsi alle spalle l’antica cultura contadina, il film offre un crudo spaccato sulle miserie che ancora circondavano la famiglia operaia che, sebbene di stampo ancora patriarcale, già denunziava i primi desideri di emancipazione dalla figura del padre-padrone.
In una casa in cui la madre svolge la parte di una presenza silenziosa ma consapevole, si consuma il dramma di un macchinista delle ferrovie, Andrea, che dopo avere investito col treno un suicida fermo sui binari e sfiorato un disastro ferroviario, assistito al tradimento della propria figlia nei confronti del marito e alla conseguente separazione, nonché fallito con l’educazione del figlio maggiore, si isola dalla famiglia e dagli amici, perde il rispetto di se stesso e si comporta da crumiro nel corso di una lotta sindacale, chiudendosi quindi in una straziante solitudine interiore dalla quale, ormai già minato da una grave malattia, riesce infine ad uscire proprio grazie all’amore e alla solidarietà di coloro che aveva maggiormente respinto e sottostimato.
Una notte, in una sequenza particolarmente toccante, il figlio minore, Sandro, scivola nel letto della madre e le chiede chi avesse ragione tra Giulia, la sorella maggiore, e il padre che, durante un litigio, aveva alzato le mani su di lei. La domanda di Sandro però esprime un più ampio bisogno di comprendere cosa stia succedendo nella sua famiglia: non solo tra Giulia ed il padre, ma anche tra Giulia e suo marito, tra il fratello maggiore, Marcello, e il padre, e infine anche tra il padre e la madre. La madre sembra capire questo bisogno più profondo e cerca di spiegare le ragioni che portano alla rottura tra le persone, ma al tempo stesso, come talvolta succede in quei momenti di confidenza e di intimità anche con i bambini piccoli, confessa i propri travagli e la propria angoscia.
«Mamma», dice Sandro, «Giulia dice che capirò quando sarò grande, ma io voglio capire adesso. Ma insomma chi aveva ragione, Giulia o papà?»; «Tutti e due», gli risponde la mamma, «come di solito succede quando si litiga. Il fatto è che si sta insieme degli anni e non si parla abbastanza, ci si tiene il muso perché… chi lo sa perché. A volta comincia con una stupidaggine, ci si urta per delle cose per cui basterebbe parlare un po’ e invece niente. Si tira avanti con il rancore dentro che ti avvelena tutta l’esistenza a poco a poco senza che tu te ne accorga. Finché un giorno… finché un giorno succede quello che hai visto Sandrino, diventa troppo difficile fare la pace perché ognuno crede di avere ragione e se ne sta per i fatti suoi dicendo magari di essere tranquillo»; «Ma allora Giulia mi ha detto una bugia, dicendomi che è tranquilla?», replica Sandro. E la mamma: «No, non sta bene come non sto bene io, nessuno di noi sta bene, né tuo padre, né Marcello e nemmeno tu, Sandrino mio!».
Questa sequenza illumina molti scorci di vita familiare: il bisogno che i bambini hanno di comprendere quello che succede nel mondo adulto, e in particolare il desiderio di capire la figura del padre; l’intimità tra madre e figlio in un momento così particolare come è quello della sera, prima di addormentarsi; la capacità di una madre di parlare al figlio spiegando e confessando una realtà così difficile e complessa. Il tutto sembra dominato dal dramma della comunicazione.
La madre comunica al figlio quanti e quali problemi insorgano quando le persone non parlano abbastanza tra loro. Sembra che le cose non dette si accumulino, rendendo sempre più difficile aprirsi, creando così un terribile circolo vizioso, finché è quasi impossibile tornare indietro. L’animo si ingombra di ammassi di sentimenti e ragioni inespresse che avvelenano, il rancore dei presunti torti subiti rafforza la sicurezza di avere ragione e fa smarrire la speranza di potersi intendere, creando la sensazione che non ne valga più la pena. Tutto, in questa sequenza, chiama in causa un “dentro” e un “fuori”: gli effetti del rimuginare dentro di sé e la difficoltà di capire veramente quando non si ha il coraggio e la pazienza di parlare.
In questo capitolo parleremo appunto di questo “dentro” e di questo “fuori” e ne parleremo a proposito di due importanti processi: la memoria autobiografica e la narrazione autobiografica. Usualmente questi due processi sono tra loro collegati, tuttavia questo collegamento può avvenire in molti modi: alcuni sono vantaggiosi per il Sé e le sue relazioni con gli altri, mentre altri sono dannosi. Cercheremo di capire meglio cosa tutto ciò significhi nei termini di una teoria della narrazione.
Nel far questo stabiliremo un collegamento tra il tema della memoria autobiografica e quello delle storie trattato nel capitolo precedente. L’analisi delle storie ha avuto infatti un’indubbia influenza sugli studi dedicati alla memoria personale e collettiva, proprio perché essa assume talvolta la struttura di una storia. Nell’ultima parte di questo capitolo vedremo infine cosa accade quando la memoria si coordina alla storia divenendo narrazione autobiografica e come tutto questo cambi la concezione del Sé.
LA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
Come abbiamo già visto, la memoria collettiva è presente sia nella mente delle persone, sia dentro artefatti come storie tramandate per via orale, libri, monumenti, regole di condotta, ecc. La memoria collettiva riguarda tutti quegli avvenimenti che sono di interesse per la collettività. In questo essa si distingue dalla memoria personale, che si riferisce invece agli eventi della persona singola, o a eventi di carattere collettivo ma ricordati in modo più soggettivo. Ma cos’è, più precisamente questa memoria personale, o autobiografica?
Essa può essere definita come la memoria degli eventi della propria vita, ricordati dall’unica prospettiva del Sé in rapporto con gli altri (Nelson e Fivush, 2004). La memoria autobiografica gioca pertanto un ruolo di primo piano nella costruzione del Sé e del senso d’identità della persona. Ritorneremo ancora su questa definizione. Per il momento è importante aggiungere che la memoria autobiografica non costituisce un’entità unitaria, ma è composta da molteplici sistemi. Alcune memorie sono mantenute sotto forma di episodi (la volta che sono caduto di bicicletta), altre sotto forma di conoscenze (so di aver imparato ad andare in bicicletta al mare), altre come procedure (saper andare in bicicletta), altre ancora come voci di persone o immagini vaghe, schemi, sensazioni, rumori, odori (quello della resina nella pineta di Viareggio). In certi casi le memorie vengono rappresentate in modo narrativo, per cui un episodio come l’essere caduto di bicicletta, o la conoscenza di aver imparato ad andare in bicicletta al mare, possono svilupparsi sotto forma di storia: i miei genitori mi avevano preso una bicicletta a noleggio quando ero al mare in Versilia ed io, cercando di imparare ad andarci, mi ritrovai per terra.
Tutti questi modi di ricordare sono stati oggetto di classificazioni. Soffermiamoci, intanto, su una di esse, per cercare di mettere un po’ d’ordine in questa intricata foresta che è la memoria autobiografica. Bauer (1993) ha distinto tre sistemi principali di memoria: quello episodico, quello semantico (recuperando la nota distinzione di Tulving) e quello narrativo. Evolutivamente i tre sistemi si sviluppano in modo successivo (Figura 6.1). Non è del tutto chiaro ancora se si sviluppi prima quello episodico o quello semantico, ma sta di fatto che questi due sistemi, che almeno inizialmente possono sopravvivere anche senza l’intervento del linguaggio, si sviluppano prima del sistema narrativo. Quando il bambino comincia a parlare ed è in grado di trasporre le proprie memorie in modo verbale, dando loro la classica struttura del prima-dopo e descrivendo un’azione che si svolge nel tempo, allora possiamo dire che anche il sistema di memoria narrativa ha avuto inizio. Quando i tre sistemi hanno raggiunto un grado sufficiente di sviluppo, una parte dei ricordi episodici e semantici possono essere narrati. Ed è a questo punto che la memoria autobiografica può cominciare a funzionare.
Quando si dice che il bambino è in grado di esporre i propri ricordi in modo narrativo, almeno al di sotto dei quattro o cinque anni, non si vuol dire che egli è in grado di raccontare una storia vera e propria. Si tratta piuttosto di un misto di eventi generici e specifici, dove ciò che è normale e ciò che è un po’ diverso dal normale sono coordinati insieme attraverso particelle grammaticali, come “sempre”, “qualche volta”, “mai”, ecc., e dove il senso del tempo è scandito da altri dispositivi linguistici, come “poi”, “dopo”, ecc. Vediamo adesso un paio di esempi.
Un bambino di quattro anni dice cosa fa di solito prima di andare a letto: «Prima guardo la tv, poi riordino i giochi, faccio il bagno, mi metto il pigiama. Una volta la mamma e una volta il babbo mi leggono una storia. Io l’ascolto e poi mi addormento. Bevo, qualche volta! No sempre. Poi faccio le preghiere e dico S. Maria e mi dà un bacino» (Smorti, 2003). Si noti l’uso delle particelle “prima” e “poi” e l’importanza che vengono ad assumere le indicazioni temporali che indicano la normalità o meno di certi eventi (“una volta”, “qualche volta”, “sempre”).

Figura 6.1 – I tre subsistemi della memoria autobiografica (Bauer, 1993). Il cerchio rappresenta l’area della memoria autobiografica.
Una bambina di quattro anni descrive la sua giornata: «Domani, quando ci alziamo dal letto, prima io, papà e mamma, si fa colazione… colazione, come facciamo sempre, e poi andiamo a giocare, e subito dopo quando papà arriva, viene da noi Carl, e poi giochiamo per un po’, e poi Carl e Emily tutti e due vanno in macchina con qualcuno, e andiamo all’asilo nido, e poi quando arriviamo, usciamo tutti dalla macchina e entriamo nell’asilo, e papà ci dà un bacio, poi noi andiamo, e poi noi lo salutiamo, poi lui va a lavorare, e noi andiamo a giocare all’asilo nido. Non sarà divertente? Perché qualche volta io vado all’asilo nido, perché è un giorno di asilo. Qualche volta io sto con Tanta tutta la settimana, e qualche volta noi giochiamo a mamma e papà. Ma di solito, qualche volta, io uhm, vado all’asilo nido. Ma oggi vado all’asilo nido la mattina. La mattina papà, quando… di solito, facciamo colazione come facciamo sempre…» (Lucariello, 1997).
Anche in questo caso emerge l’importanza dell’uso di particelle che servono a distinguere normalità, eccezione o diacronicità. Esiste inoltre un certo rapporto tra eventi generici e specifici («Domani, quando ci alziamo dal letto, prima io, papà e mamma, si fa colazione… colazione, come facciamo sempre»).
È importante esaminare la relazione che lega tra loro eventi generici e specifici. Intanto i ricordi trasposti nella memoria narrativa tendono a schematizzarsi quando siano simili ad altri che si ripetono. Osserviamo infatti la seguente sequenza: «ieri papà mi ha portato all’asilo con la macchina»; «oggi papà mi ha portato all’asilo con la macchina»; «questa settimana papà mi ha portato all’asilo con la macchina». L’ultima frase costituisce una forma di generalizzazione a partire dalle prime due. Questa schematizzazione, a partire dalla ripetizione di episodi simili, conduce a quella che Neisser (1981) ha definito “memoria repisodica” (Figura 6.2). La memoria repisodica (termine derivante dalla crasi delle due parole inglesi “repeat” e “episode”) è una forma di memoria episodica di eventi ripetuti ed è simile ad uno script autobiografico (Figura 6.3). In secondo luogo ogni evento intrattiene anche rapporti di inclusione dentro eventi più generali. Per esempio, la sensazione di smarrimento provata da Mario all’esame di Anatomia (Event Specific Knowledge) è inserita dentro la memoria più ampia riguardante la preparazione del suo primo esame universitario (General Events) che a sua volta è inserita dentro la memoria del suo primo anno all’università (Life Time Periods). Lo schema seguente rappresenta l’organizzazione gerarchica della memoria autobiografica.

Figura 6.2
| Ricordi autobiografici in forma narrativa: | Memoria repisodica (Neisser, 1981): | Conoscenza autobiografica, o script: |
| «Ieri papà mi ha portato all’asilo con la macchina, oggi papà mi ha portato all’asilo con la macchina…» | «Questa settimana papà mi ha portato all’asilo con la macchina» | «Papà usa sempre la macchina per portarmi all’asilo» |
Figura 6.3
1. Life Time Periods: conoscenze generali che denotano periodi di tempo molto lunghi (anni): «Il mio primo anno di Università».
2. General Events: conoscenze di periodi misurabili in mesi, settimane, giorni: «Quel mese in cui preparai il mio primo esame».
3. Event Specific Knowledge: conoscenza di eventi come immagini, sensazioni, odori, ecc., associati a un’esperienza (sistema indipendente): «La sensazione di smarrimento quando mi trovai solo davanti al professore».
La schematizzazione del ricordo, dovuta alla memoria repisodica o alla inclusione in strutture più ampie e generiche, offre il grosso vantaggio di tenere insieme più informazioni che, se rimanessero tra loro indipendenti, richiederebbero un carico di memoria più alto. A questi vantaggi vanno però aggiunti degli svantaggi. Infatti la schematizzazione, assimilando tra loro i ricordi, o perché simili o perché accaduti nello stesso periodo di tempo, rende difficile conservare la memoria della singola esperienza vissuta, in altre parole la persona rischia di confondere quel dato evento con altri simili o di non ritrovarlo all’interno di un dato periodo di tempo.
Questi vantaggi e questi svantaggi servono ai due opposti scopi che la memoria autobiografica si prefigge (Conway, 2005). Uno è quello di rappresentare la realtà così come essa è (obbedienza al principio di corrispondenza tra rappresentazione e realtà: altrimenti che vantaggio avrebbe il ricordare?). Ma, allo stesso tempo, la memoria autobiografica si prefigge anche lo scopo di attribuire un significato a quella rappresentazione e, per far questo, deve collocarla in un contesto di altri ricordi. Ora, questa operazione obbedisce ad un principio di coerenza. Se ho il ricordo di essere cascato di bicicletta e so che non ne possedevo una, è molto probabile che possa pensare che ci andassi sopra perché i miei genitori me l’avevano presa a nolo, e dove se non nella pineta di Viareggio dove i miei mi portavano in vacanza d’estate? Tutto torna o sembra tornare. Questo ricordo potrebbe essere intitolato: “In che modo ho imparato ad andare in bicicletta”.
Come si può capire, la memoria sembra sforzarsi di trovare un significato a quel particolare ricordo inserendolo dentro una trama più ampia, in modo da formare un tutto coerente. Tuttavia questa coerenza non riguarda solo il rapporto di un ricordo con gli altri, ma finisce per coinvolgere contesti ancora più ampi relativi al Sé. Insomma, lo scopo della memoria non è solo quello di rappresentare la realtà ma anche quello di rappresentare il Sé o, in altri termini, per dirla con Conway (2005), quello di sorreggere un Sé efficiente e coerente. Ambedue questi scopi – quello della corrispondenza e quello della coerenza – sono adattivi per l’organismo, il primo perché salvaguarda il rispetto della realtà e il secondo perché soddisfa le esigenze del Sé. Tuttavia l’esigenza di coerenza funziona a detrimento dell’esigenza di corrispondenza e viceversa. In altre parole, se la nostra rappresentazione del passato è così accurata da contenere ogni dettaglio, diventa molto difficile dare un significato complessivo a quello che si ricorda. D’altra parte, una ricostruzione estremamente coerente del proprio passato, suscita dubbi circa la sua effettiva autenticità.
I due principi agiscono in modo diverso a seconda del tipo di eventi. Nella memoria a breve termine, prevalendo gli scopi immediati del lavoro da svolgere, la corrispondenza prevale sulla coerenza. L’individuo ha la necessità di ricordare dettagli importanti della sua giornata passata, chi ha visto, dove ha appoggiato le chiavi della macchina e così via. Al contrario, nella memoria a lungo termine, prevalendo scopi di più lunga portata, l’esigenza di coerenza prevale su quella di corrispondenza. Per esempio, uno studente può avere la necessità di ricordare se ha sostenuto l’esame A prima dell’esame B perché vuole assicurarsi che l’esame B sia valido. In questo caso, nel ricordo, il periodo di tempo in cui l’esame si è svolto e l’ordine di successione dei diversi esami avrà il sopravvento sulle domande che gli ha rivolto il professore.
Riprendiamo ora l’iniziale definizione di memoria autobiografica: «La memoria autobiografica è la memoria degli eventi della propria vita, ricordati dall’unica prospettiva del Sé in rapporto con gli altri». Risulta ora più chiaro cosa significhi l’espressione «nella prospettiva del Sé». La memoria autobiografica deve assolvere al compito di rappresentare gli eventi in modo coerente alla esigenze del Sé. L’aggiunta finale «in rapporto con gli altri» sta ad indicare che il Sé non è da intendersi come qualcosa di chiuso, animato da bisogni solipsistici, ma in interazione, come vedremo tra breve.
Prima però domandiamoci ancora: quali sono i criteri in base ai quali il Sé valuta un ricordo come coerente? Secondo alcuni autori (Conway, 2005) essi sono costituiti dai temi del Sé. I temi del Sé sono delle organizzazioni del Sé caratterizzate dai compiti evolutivi che la persona ha dovuto affrontare e dal modo in cui ha cercato di realizzarli. I temi del Sé influenzano la codifica dei ricordi autobiografici e, quando un tema diventa attivo, viene attivat...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Collana
- Frontespizio
- Colophon
- Il libro
- L’autore
- Indice
- Introduzione
- Parte prima. Cultura e memorie
- I. Il confronto fra culture
- II. Il tempo storico
- III. Le memorie collettive
- Parte seconda. Storie e autobiografia
- IV. Le storie collettive
- V. La mente e le storie
- VI. Il Sé autobiografico
- Parte terza. Storie e comprensione dei fatti umani
- VII. Storie plausibili per mondi possibili
- VIII. Le storie e il pensiero comune
- IX. Pensare per storie
- X. Il pensiero narrativo come ragionamento acrobatico
- XI. Il confronto tra pensieri
- Conclusioni
- Bibliografia