Il lampo dell'elettrone
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Il lampo dell'elettrone

  1. 176 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il lampo dell'elettrone

Informazioni su questo libro

Per centinaia di anni la certezza è stata che l'atomo, indivisibile, rappresentasse il frammento elementare costitutivo della materia. Poi, il 30 aprile 1897, grazie a un semplice ma potente esperimento un ingegnoso scienziato inglese affermò che esisteva un corpuscolo, 1700 volte più piccolo dell'atomo di idrogeno, responsabile della propagazione dei segnali elettrici. Con la sua scoperta J.J. Thomson introdusse l'elettrone e lanciò questa piccola pallina nel campo da gioco della scienza e della tecnologia. Attraverso poco più di un secolo, la natura dell'elettrone ha conosciuto continue trasformazioni, adattandosi di volta in volta al progresso delle nostre conoscenze e alle nuove regole della scienza: dalla meccanica quantistica alla superconduzione, fino alla creazione di nuovi materiali. E con il progredire di questo gioco, con giocatori che via via si davano il cambio, abbiamo prodotto tecnologie che ci hanno cambiato la vita, come il transistor, il laser o i raggi X. Vittorio Pellegrini ci racconta questa storia affascinante, il cui finale custodisce una promessa: il bello deve ancora venire.

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Informazioni

eBook ISBN
9788875789657
Categoria
Physics

Capitolo 1

Elettroni

Un corpuscolo chiamato elettrone

«In questa lezione voglio presentare i risultati di alcuni esperimenti che hanno portato alla conclusione che i portatori dell’elettricità negativa sono corpi, che io ho chiamato corpuscoli, che hanno una massa molto più piccola di quella di un atomo di qualsiasi specie e hanno le stesse caratteristiche, indipendentemente dalla sorgente dell’elettricità negativa». Fu così che l’11 dicembre 1906 Joseph John (J.J.) Thomson esordì a Stoccolma, in occasione della cerimonia durante la quale l’Accademia svedese gli assegnò il premio Nobel per la fisica per i suoi studi sull’elettricità. Thomson aveva scoperto che l’elettricità era costituita da corpuscoli minuscoli che dalle sue ricerche risultò avessero una massa 1.700 volte circa più piccola di quella di un atomo di idrogeno, l’atomo più leggero conosciuto in natura.
Thomson stesso aveva annunciato i risultati dei suoi esperimenti in una conferenza alla prestigiosa Royal Society1 inglese. Era il 30 aprile 1897. I fisici, abituati a pensare all’atomo come a una struttura indivisibile che costituiva il mattone fondamentale di cui era fatta tutta la materia, videro le loro certezze sgretolarsi come un castello di sabbia bagnato dalle onde. Certezze che venivano da lontano. Sicurezze che affondavano le radici nella imponente filosofia greca.
Circa 2.300 anni prima, infatti, fu Democrito, allievo di Leucippo, a teorizzare l’esistenza di particelle indivisibili non percepibili dai sensi, che chiamò atomi (dal greco “non tagliabili”). E invece J.J. Thomson, fisico di Cambridge, uomo di poche parole e con imponenti baffi, pressoché sconosciuto, ebbe l’ardire di affermare che non era così, che l’atomo non era indivisibile, bensì a sua volta formato da particelle più piccole, subatomiche, e che l’elettrone, da lui scoperto con un esperimento tanto semplice quanto potente, ne era un primo esempio. «È come se ci avesse tirato per i piedi» disse, infastidito, un membro della Royal Society dopo aver ascoltato l’annuncio di Thomson.
Thomson, però, aveva ragione. Il valore della sua scoperta fu riconosciuto in tutto il mondo e lui divenne una delle figure scientifiche più influenti del XX secolo. Continuò a lavorare a Cambridge, dove nel 1918 fu nominato Master del Trinity College, lo stesso college in cui secoli prima aveva studiato e insegnato Isaac Newton. Ed è proprio accanto alla tomba di Newton, nell’abbazia di Westminster a Londra, che J.J. Thomson venne sepolto nel 1940, a testimoniare la grandezza di un uomo che con una semplice osservazione cambiò il corso della storia.

Olio

William Crookes2 divenne famoso per aver ideato uno speciale tubo di vetro con cui studiare i raggi catodici, fasci di elettroni emessi da una superficie metallica, il catodo, che si propagavano all’interno del tubo. Questa corrente elettrica era velocemente assorbita nell’aria, ma nel tubo sottovuoto si propagava anche per diversi centimetri, rendendone così possibile lo studio. Era la fine del XIX secolo e il tubo di Crookes diventò uno strumento essenziale per chi era interessato a studiare questi raggi.
Il tubo era costituito da un piccolo cono di vetro, al cui interno era presente un gas estremamente rarefatto; alle pareti interne erano saldati due elettrodi metallici tra cui si poteva applicare un’elevata tensione. Il raggio catodico era generato a seguito della scarica elettrica dovuta alla tensione applicata e si manifestava nell’osservazione della fluorescenza, cioè emissione di luce in particolare verde, sulle pareti del tubo, rivestite da una caratteristica sostanza in grado di emettere luce. L’esperimento cruciale per dimostrare che i raggi catodici erano composti dai corpuscoli elettroni fu effettuato da Thomson e i risultati, presentati nel 1897, furono successivamente pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica “Philosophical Magazine” nell’ottobre del 18973.
L’esperimento di Thomson consisteva in due parti. Dopo aver osservato che il raggio catodico poteva essere deflesso verso l’alto o il basso, applicando un campo elettrico nella direzione perpendicolare alla direzione di propagazione del raggio stesso, nella prima parte dell’esperimento J.J. Thomson applicò oltre che un campo elettrico di intensità E anche un campo magnetico di intensità H, perpendicolare sia alla direzione di propagazione del raggio catodico sia al campo elettrico applicato. Dalle leggi di Coulomb4 e Maxwell5, cardine dell’elettromagnetismo, era ben noto che questi due campi esercitavano forze opposte su corpuscoli carichi in movimento. Variando opportunamente i valori di E e H, Thomson fece in modo che le due forze si annullassero a vicenda. Determinò i valori necessari dal fatto che in quel caso non osservava alcuna deflessione del raggio catodico. Applicando ancora le leggi di Maxwell, Thomson riuscì a misurare con accuratezza la velocità v dei corpuscoli. La formula matematica era semplice e la velocità risultava data dal rapporto tra i valori del campo elettrico e magnetico: v=E/H. In tubi in cui il gas presente era particolarmente rarefatto Thomson misurò velocità molto elevate fino a un terzo della velocità della luce (cioè circa 100.000 km/s).
Avendo così determinato la velocità v dei corpuscoli, Thomson spense il campo magnetico e misurò con accuratezza la deflessione d del raggio catodico in presenza del solo campo elettrico, dopo che questo aveva percorso una lunghezza pari a l. La relazione matematica risultante gli permise di misurare il rapporto tra la carica elettrica e di questi corpuscoli e la loro massa m: e/m=2dv2/El2. Sorprendentemente J.J. Thomson scoprì che questo rapporto era sempre lo stesso anche quando cambiavano il tipo di gas nel tubo e le condizioni sperimentali come la velocità dei corpuscoli. Il valore che trovò era 1.700 volte più grande di quello relativo allo ione negativo idrogeno. I casi erano due: o il corpuscolo pesava quanto l’atomo di idrogeno (la più piccola entità di materia conosciuta fino a quel momento) ma aveva una carica elettrica enorme, 1.700 volte maggiore, o il corpuscolo aveva una massa 1.700 volte più piccola di quella dell’atomo di idrogeno.
Sebbene questa seconda ipotesi fosse del tutto incompatibile con la convinzione radicata che vedeva nell’atomo di idrogeno il mattone fondamentale e indivisibile della materia, J.J. Thomson non ebbe esitazioni. Optò senza se e senza ma per la seconda ipotesi: introdusse così la prima particella subatomica, l’elettrone, concludendo un percorso iniziato nel 1750 con Benjamin Franklin6 che per primo aveva ipotizzato che l’elettricità era composta da particelle molto particolari («subtle») e inaugurando il nuovo campo della fisica subatomica o delle particelle.
Le intuizioni di Thomson trovarono conferma in una serie di esperimenti effettuati alcuni anni dopo, tra il 1909 e il 1912, da Robert Andrew Millikan, un fisico americano dell’Università di Chicago. Nel famoso esperimento della goccia d’olio che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1923, Millikan riuscì a misurare con incredibile precisione la carica e dell’elettrone. Il fascino di questo esperimento risiede nella possibilità di effettuare una misura così precisa della carica di una particella subatomica utilizzando un sistema rudimentale. Ecco perché ancora oggi l’esperimento di Millikan viene riproposto in laboratorio agli studenti di numerose facoltà universitarie.
Già da diversi anni Millikan stava lavorando a un esperimento simile sulla scia dei risultati ottenuti nel vecchio continente da Thomson e da due suoi colleghi, Townsend e Wilson. Sia gli esperimenti del gruppo inglese sia i suoi iniziali tentativi si basarono sull’utilizzo di gocce d’acqua in caduta a causa della forza di gravità e soggette a un campo elettrico. Questi esperimenti permisero di misurare la carica dell’elettrone, ma con scarsa precisione e nonostante si fosse cercato di migliorare l’apparato sperimentale, non si ottennero risultati così significativi.
Millikan presentò i risultati finali a un congresso a Winnipeg nell’agosto del 1909. Nella misura vi erano numerosi problemi che il fisico americano non era riuscito a superare come, per esempio, il fatto che le goccioline d’acqua evaporavano rapidamente rendendo difficile la misurazione. Il congresso di Winnipeg sancì la conclusione di un lavoro che lo aveva impegnato per anni. Era riuscito a migliorare l’accuratezza della misura rispetto a quella dei colleghi inglesi, ma solo in modo marginale, perciò volle al più presto chiudere quel capitolo della sua attività di ricerca.
Tuttavia, quando si pensa di essere arrivati al capolinea, basta poco per intravedere possibilità inaspettate e fu esattamente ciò che capitò a Millikan. Sul treno del ritorno gli venne in mente un’idea semplice e geniale: una specie di uovo di Colombo facile e immediato da realizzare, ma dai risvolti potenzialmente straordinari. Appena tornato a Chicago si mise al lavoro.
L’esperimento iniziava con l’introduzione all’interno di un contenitore di olio nebulizzato in tante goccioline che si andavano a posare sopra una piastra metallica provvista di un forellino. Non più acqua, ma olio. Quasi un dettaglio, ma sufficiente per arrivare a una determinazione della carica dell’elettrone con un’incertezza di meno dell’1 per cento del valore oggi accettato. Una precisione che avrebbe indicato senza ambiguità la natura fondamentale dell’elettrone e la costanza della sua carica.
Le goccioline d’olio che attraversavano il forellino venivano a trovarsi tra due piastre metalliche, tra le quali poteva essere generato un campo elettrico applicando una differenza di potenziale. Le gocce d’olio venivano caricate elettricamente utilizzando i raggi X (scoperti alcuni anni prima e di cui parleremo nel Capitolo 7). A questo punto, Millikan iniziò a osservare il movimento delle gocce d’olio.
Nel resoconto pubblicato nel 1913 analizzò 58 goccioline differenti. In assenza della differenza di potenziale, le goccioline cadevano verso il basso a causa della forza di gravità. Conoscendo la densità dell’olio e il volume della gocciolina d’olio, Millikan poteva calcolare con precisione l’entità di questa forza. D’altro canto il campo elettrico prodotto dalla differenza di potenziale rallentava o addirittura invertiva la caduta. La forza esercitata, come predetto dalla legge di Coulomb, era proporzionale al prodotto della carica elettrica della gocciolina e il valore del campo elettrico. Bilanciando la forza di gravità con quella elettrica, Millikan riuscì a misurare con estrema precisione la carica elettrica della gocciolina d’olio. Ripeté l’esperimento tantissime volte e ogni volta con una gocciolina diversa sia per dimensione sia di conseguenza per carica elettrica. Poi riportò i valori in una tabella e notò che erano tutti multipli interi di un valore fondamentale. Nel sistema internazionale di misura, questo valore è espresso in coulomb: un coulomb rappresenta la quantità di carica elettrica trasportata in un secondo da una corrente di un ampere. In questo sistema di misura il valore della carica dell’elettrone che Millikan trovò fu di 1,5924 per 10-19 coulomb. Il valore oggi accettato è 1,602176565 per 10-19 coulomb, dove l’errore sperimentale, piccolissimo, è sulla nona cifra dopo la virgola, un valore che si discosta di meno dell’1 per cento da quello trovato da Millikan.
I risultati ottenuti da Millikan furono ampiamente discussi da numerosi scienziati, in particolare dal fisico austriaco Felix Ehrenhaft che iniziò ad analizzare in modo maniacale tutti i dati del fisico americano arrivando a conclusioni diverse. Ehrenhaft contestava al collega di aver opportunamente manipolato i dati.
Per esempio, dalle note di laboratorio si evinceva che Millikan aveva osservato circa 160 gocce d’olio, utilizzando alla fine solo i risultati ottenuti su 58. Le altre gocce erano state escluse, probabilmente perché portavano a risultati strani. Millikan scelse deliberatamente di non accettare tutti i risultati ed escludere quelli che, per varie incertezze sperimentali, non portavano al risultato verificato su un numero significativo di eventi, ma fu proprio questa controversia a ritardare fino al 1923 l’assegnazione del premio Nobel al fisico di Chicago. Alla fine, però, la comunità scientifica riconobbe il valore di quei suoi esperimenti.
Nel corso dei loro numerosi esperimenti, sia Millikan sia Ehrenhaft misurarono valori di carica elettrica frazionaria. Valori pari a 1/3, 2/3 e 1/10 della carica dell’elettrone. Mentre Millikan considerò questi valori frazionari come errori sperimentali, Ehrenhaft li usò per contestare l’esistenza di una carica elettrica elementare. In realtà, il significato di tali misure è rimasto misterioso. Con il passare degli anni la disputa tra Millikan e Ehrenhaft si affievolì sempre più, ma è curioso notare come alcuni decenni dopo proprio le cariche frazionarie sarebbero diventate le protagoniste di alcuni spettacolari fenomeni osservati in una particolare classe di materiali semiconduttori. Di questo parleremo più avanti.

Il bongo e la rinormalizzazione

E così, grazie allo studio di numerosi scienziati a cavallo tra il XIX e il XX secolo, la carica dell’elettrone si guadagnò lo status di costante fondamentale. La carica dell’elettrone è all’origine dell’interazione elettromagnetica, una delle quattro interazioni fondamentali della natura note finora. L’interazione elettromagnetica è responsabile della forza esercitata tra due corpi elettricamente carichi (repulsiva se la carica elettrica ha lo stesso segno, attrattiva in caso contrario). Della forza elettromagnetica possiamo fare esperienza diretta strofinando, per esempio, un oggetto di plastica con un panno di lana e verificando che esso attrae a sé un pezzettino di carta, se sufficientemente vicino. Fu il francese Charles Augustin de Coulomb a ricavare l’equazione che descriveva questa forza (da allora nota come forza di Coulomb), direttamente proporzionale al prodotto delle due cariche in interazione e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.
La legge scoperta da Coulomb stimolò lo sviluppo di uno studio sistematico dell’elettricità e del magnetismo che culminò un secolo dopo le ricerche di Coulomb con l’elegante teoria di Maxwell sulla propagazione delle onde elettromagnetiche. Per un caso o per una profonda simmetria delle leggi della natura la forza di Coulomb ha la stessa forma matematica della forza gravitazionale scoperta da Isaac Newton più di cento anni prima. Stessa dipendenza dalla distanza: inversamente proporzionale al quadrato della distanza relativa; ma a differenza della forza di Coulomb, quella gravitazionale descrive l’interazione tra due corpi e non dipende da quanto sono carichi elettricamente. Nell’espressione matematica della forza, il prodotto delle due cariche elettriche è sostituito da quello delle masse dei due corpi.
Nella descrizione dell’elettromagnetismo, quindi, il ruolo centrale è svolto dalla carica dell’elettrone. Se ci riflettiamo, è un fatto sorprendente che la carica di un corpo non possa essere variata con continuità ma solo a gradini, multipli di questa unità fondamentale e indivisibile. Il suo valore è noto in modo accurato grazie a osservazioni sperimentali come quella di Millikan e nel sistema internazionale di misura è pari a 1,602176634 per 10-19 coulomb7, dove come abbiamo già detto il piccolissimo errore sperimentale è sulla nona cifra dopo la virgola.
La quantizzazione della carica elettrica è un fatto misterioso e affascinante. Ogni elettrone generato in qualsiasi modo, per esempio in una reazione nucleare nella stella Alfa Centauri o illuminando un semiconduttore nel laboratorio dove ho lavorato per molti anni, possiede quel preciso valore di carica e la stessa massa, il cui valore a riposo (cioè non influenzato da correzioni relativistiche), anch’esso conosciuto con estrema accuratezza, è di appena 9,1093837015 per 10-31 chilogrammi. Inoltre la carica elettrica si conserva. Nell’universo o in ogni sistema chiuso isolato, la carica elettrica totale è costante: se un elettrone è generato in un qualsiasi processo fisico ciò significa che contestualmente si è generata anche una particella analoga di carica opposta, chiamata positrone, oppure, se si preferisce, che un altro elettrone è scomparso (annichilato) in qualche altra parte del sistema.
Queste misteriose r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione di Massimo Sideri
  5. Introduzione
  6. Capitolo 1. Elettroni
  7. Capitolo 2. È uno e sono due
  8. Capitolo 3. La scienza gerarchica
  9. Capitolo 4. La rivoluzione
  10. Capitolo 5. Futuro
  11. Capitolo 6. Tecnologia
  12. Capitolo 7. E luce fu
  13. Conclusioni