Storie che contano
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Storie che contano

Problemi immaginari per matematici reali

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Storie che contano

Problemi immaginari per matematici reali

Informazioni su questo libro

Meglio i giochi matematici o le intriganti biografie dei grandi geni della storia? Meglio le due cose insieme, ben mescolate! I Rudi Mathematici ci raccontano alcuni protagonisti della matematica in momenti cruciali delle loro vite (reali) mentre risolvono alcuni quesiti (immaginari) che nella realtà non hanno mai davvero affrontato. Troviamo così Isaac Newton alle prese con un caso di omicidio, oppure un crucciato John Von Neumann che ruba caramelle e discetta sulla lunghezza dell'equatore mentre la Terra rischia di saltare in aria. Per non parlare delle passioni emotive di un presidente del consiglio italiano e di quelle francesi di un ormai vecchio Leonardo da Vinci. E di come Paul Erdos, G.H. Hardy, Emmy Nöther e molti altri avrebbero potuto incantarci se mai avessimo avuto la fortuna di conoscerli.

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Informazioni

Lettere per i figli

Da San Giacomo a San Giacomo. Ai suoi occhi scettici non poteva sembrare altro che un giro a vuoto, inutile come l’identità dei nomi dei luoghi di partenza e di arrivo palesava con razionale innocenza. Eppure vedeva già i primi camminatori, a primavera appena iniziata, dal luminoso finestrone della stanza più alta del suo castello, quella che aveva eletto a suo laboratorio; quella che ormai frequentava sempre meno, per le troppe scale da salire e scendere e perché il lavoro gli costava sempre più fatica.
Li vedeva, ed ogni volta si stupiva; la teoria dei pellegrini cominciava in perfetta sincronia con l’arrivo della bella stagione: dapprima solo qualche temerario, voglioso d’essere l’avanguardia di quell’esercito fatto di uomini, donne, vecchi e bambini. Poi sempre di più, in un crescendo che ripopolava la strada da nord verso sud, e che avrebbe toccato il suo massimo più o meno durante il solstizio d’estate. Solo allora sarebbe cominciato il flusso inverso, il segno del ritorno alla normalità, con i primi che ripercorrevano la strada diretti di nuovo a nord, più magri nel corpo e purificati nell’anima; o almeno così credevano.
Si carezzò ancora una volta la lunga barba bianca, che risplendeva candida sulla tunica grigia che indossava; la stessa veste con la quale era solito coricarsi la sera. La strada camminata da migliaia di piedi si intravedeva appena, perché l’imponente mole del castello grande, quello del re, copriva quasi tutta la visuale: ma i pochi tratti di strada visibili erano più che sufficienti a rivelare i primi traffici dei cercatori di perdono e indulgenza. Partiti dalla gran torre della chiesa di Saint Jacques, che si diceva fosse stata voluta da Carlo Magno in persona sulla riva destra della Senna a Parigi, affrontavano le mille miglia che li avrebbero portati fino a Santiago de Compostela, nella propaggine più occidentale della Spagna. Passo dopo passo, per un milione di volte, e poi altrettante al ritorno.
Guardò quell’avanguardia a lungo, e poi rivolse lo sguardo a ovest. Sarebbero arrivati alla fine della Terra, o quasi: dove cominciava l’oceano, quel mare che, come gli altri, da giovane credeva fosse vuoto e quasi infinito. Invece da più di un quarto di secolo era solcato da navi esploratrici e guerriere, che partivano dalle coste occidentali di Spagna e Portogallo per tornare piene di ricchezze e meraviglie del mondo nuovo che, proprio in mezzo a quel mare, avevano scoperto. E pensava che se avesse avuto l’età giusta (proprio quella dei primi camminatori che da Parigi scendevano verso Orleans e Tours, passavano davanti alla sua casa e proseguivano, guidati dalla loro fede inspiegabile, verso Bordeaux, scalavano i Pirenei, piegavano verso Burgos, Leon e infine Santiago), se avesse avuto anche lui quell’età ormai perduta per sempre li avrebbe forse imitati, ma certo non per fermarsi a pregare nella chiesa di un santo diventato famoso soprattutto per aver massacrato centinaia di mori, bensì per cercare un imbarco verso quelle terre occidentali dense di segreti.
Si allontanò dalla finestra: per lui, per i suoi anni, quell’aria di marzo era ancora fredda; e se la sua mente poteva immaginare quel milione di passi devoti, il suo corpo faticò a mettere in fila i dieci che lo separavano dal finestrone al cavalletto dove stava appoggiato il suo dipinto preferito. La tavola di legno di pioppo era rimasta per mesi la sola opera che ancora si dilettava a ritoccare, ma ormai più con il pensiero che con il pennello. Quando riusciva ad alzarsi dal letto, quando la malattia gli consentiva di abbandonare il giaciglio sul quale ormai passava quasi tutto il suo tempo, finiva sempre davanti a lei, a quella dama che sorrideva soprattutto con gli occhi, e che, novella Galatea, sembrava regalare il suo sguardo proprio e soltanto a lui, il suo creatore.
Scelse il pennello più piccolo che aveva, saggiò con le dita la consistenza del piccolissimo ciuffo di peli di tasso, poi lo inumidì passandolo appena tra le labbra. Un minuscolo vasetto di colore preparato con cura cedette una frazione di tintura alla punta del pennello, che venne poi diretta verso il centro del quadro, sulla bocca della donna ritratta, su quella piega soffusa dove le labbra si incontravano e decidevano di tornare ad essere guancia. La goccia di colore non arrivò a posarsi sulla tavola. Restò a lungo sospesa, a pochissima distanza dal quadro, ma non diventò parte di esso: dopo un’attesa assai lunga, finì per tornare indietro, appoggiata sulla tavolozza, colore anonimo tra anonimi colori, senza più la possibilità di ottenere quell’immortalità che aveva appena sfiorato.
Salaì entrò subito dopo, di corsa, quasi a sacramentare l’avvento dell’irruenza giovanile e demoniaca. Non era in realtà più tanto giovane, visto che quella che stava cominciando era già per lui la trentanovesima primavera, ma Gian Giacomo Caprotti, che gli amici chiamavano Saladino o Salaì per ricordarne l’affinità con il diavolo, sarebbe rimasto giovane e irruente per tutta la vita.
«Maestro, ancora a giocar con la Monna? Con il colore che hai riversato sopra quel pezzo di legno si poteva affrescare tutta Santa Maria del Fiore!»
Leonardo di ser Piero da Vinci non si degnò di voltarsi, continuando a esaminare, da vicinissimo, ogni più piccolo tratto di colore sulla tavola. «Ci sono cose che non imparerai mai, Salaì» disse infine, con voce stanca, «e a questo ormai mi sono rassegnato. I discepoli a volte superano i maestri, altre volte non ne raggiungono l’abilità, ma in ogni caso restano persone diverse. E ci sono cose che non è possibile insegnare, che restano privilegio della maestra più grande, la Natura. Ma ammetto che speravo almeno di insegnarti a non confondere i dipinti, a chiamarli con il nome giusto e a trattarli con il giusto rispetto. L’unico che continua a lavorare a una Monna sei tu, in questa casa…»
«Ah, l’hai vista, allora!» rise entusiasta Salaì. «Ti piace la mia Monna Vanna? Non è forse bella quanto la tua Monna Lisa? Anzi, lasciamelo dire, è anche meglio, non fosse altro perché le ho tolto quei vestiti scuri e pesanti con cui tu hai intabarrato la povera Gherardini!»
«Salaino, se il demonio esistesse certo non dubiterei che tu abbia preso vita dai suoi fetidi lombi. Ma la natura mai m’ha mostrato diavoli, a parte te, forse. Quello strano incrocio tra maschio e femmina, quella figura nuda che hai dipinto con tanta foga e lussuria è opera tua, e hai ben diritto a chiamarla come meglio ti garba. Ma te l’ho già detto e ripetuto, non farti vanto d’aver spogliato la mia dama, non chiamar più quel tuo ritratto “Joconda nuda”: un po’ perché ben poco ha a che vedere con le mie opere, un po’ perché neppure questo mio ritratto è una Gioconda, una Monna Lisa Gherardini. Quante volte te lo devo ripetere, quante volte te l’ho ripetuto, ormai?»
Salaì rise quella risata di chi non è solito cercare giustificazioni: «Maestro, ma come puoi chiedermi di ricordare i nomi di tutto quel che è passato sotto i tuoi pennelli? La mia Vanna l’ho dipinta con l’idea di render un po’ più femmina la signora che tu tanto curi e ritocchi, e che in cuor mio davvero credevo fosse la giovane sposa di quel Giocondo che te ne chiese un ritratto per le nozze, giù a Fiorenza. Non è lei, dunque? E se non lo è, che differenza fa, in fondo? Un nome è solo un nome, conta poco per le femmine in carne e ossa, figuriamoci per quelle dipinte».
«Non fai attenzione, non guardi i dettagli, non sei curioso» disse Leonardo a bassa voce, «come puoi sperare di diventare un buon pittore? Solo perché sai mescolar colori sulla tavolozza, solo perché sai scegliere il pennello adatto per uno sfondo?»
«Certo no, maestro mio! Io son pittore e artista perché so vedere il bello, e lo so riportare sulle tele, sulle pale, sui muri!»
«Vedere il bello, dici» sospirò Leonardo, «e come fai a vederlo e a riconoscerlo, senza la curiosità? Credi che la bellezza sia come le vesti delle cortigiane, che cambiano ad ogni stagione? La bellezza è prima di tutto verità, la verità nient’altro che conoscenza, e la conoscenza s’alimenta di curiosità. Eri curioso, ieri, quando ti dissi d’osservare il paesaggio d’Amboise dopo il temporale?»
Salaì si lasciò cadere stanco sull’unica seggiola della stanza: «Non era ieri, Leonardo, era una settimana fa. Ma l’hai passata quasi tutta a letto, posso capire che non ricordi. Comunque sì, l’ho poi guardato, quel noioso paesaggio. Vuoi che te lo dipinga?»
«No, voglio che me lo racconti.»
Caprotti sbuffò, annoiato. «Tanto lo so, vuoi solo sapere che ho notato quella stranezza, quell’arcobaleno doppio: ebbene l’ho visto, e allora? Te lo posso dipingere, davvero, magari sullo sfondo di Lisa, anche se non è Lisa. Dipingere è più facile che raccontare a parole, e più efficace.»
«Potrei persino concordare su quest’ultima tua frase» rispose Leonardo, «se solo fossi sicuro che la tua pittura fosse figlia dell’osservazione attenta e rigorosa. Arcobaleno doppio, è vero, c’era: e volevo che lo notassi. Ma non sai dirmi altro?»
«Che c’è mai da dire? Un’iride è bella, un paio d’iridi lo sono forse un po’ di più… una delle due era un po’ meno luminosa, forse; ma se dovessi riprodurle forse le farei di pari luce e bellezza: colpirebbero più gli occhi di chi guarda.»
«Chi guarda spesso non vede. E tu sei tra questi spettatori distratti, discepolo mio. Hai occhi bellissimi e meravigliosi capelli, tu: ma se i tuoi capelli svolgono bene il loro compito, che è quello di tenerti calda la testa e renderti attraente ai tuoi simili, gli occhi non sono altrettanto diligenti. Anch’essi ti fanno avvenente, e certo ti aiutano a non metter piedi in fallo, ma a guardare il mondo non sono poi tanto adatti.»
Leonardo si avvicinò stancamente alla sedia, ma Salaì non fece il gesto di alzarsi e offrirgliela. «I tuoi occhi» continuò il vecchio pittore, «non hanno visto che l’iride separa in due parti distinte il colore del cielo, una più chiara, l’altra più scura. Lo fa sempre, anche quand’è unica e non doppia, anche se il cambio di colore a volte è più evidente, a volte meno. I tuoi occhi non si sono soffermati sui colori dei due arcobaleni, e forse dovrei perlomeno rallegrarmi che abbiano notato la differenza di intensità luminosa: ma come hai potuto non vedere che la serie dei colori è invertita, dal primo al secondo? Che è un po’ come se un arcobaleno fosse l’immagine dell’altro riprodotta allo specchio, un po’ più tenue nella brillantezza, ma del tutto opposta e rovesciata come la mano manca lo è rispetto alla mano dritta?»
Salaì si corrucciò un po’, come mostravano le rughe che si formavano sulla fronte: «Davvero? Non l’ho notato, è vero…» Ma le rughe si spianarono in fretta: «Fa davvero differenza, maestro? E non potrebbe essere un caso, un capriccio naturale e irripetibile? Dovessi disegnare anche solo un arcobaleno, non saprei neppure ricordare bene l’ordine dei colori, ma son certo che lo saprei far riconoscere a chi mirasse il mio dipinto, e che quelli lo troverebbero certo bello assai».
«Può esserci bellezza nella falsità? Sono tanti a crederlo, ormai, e vedo bene che sei tra questi. Tanti clienti mi chiedono non più di metterli nella luce migliore, che è vanità piccola e lecita, ma di cambiarne le fattezze, di donar loro sguardi che non hanno, vigore e forme mai possedute. Credono di saper cosa sia la bellezza, e la ritengono superiore alla verità che sempre più spesso declassano a inutile orpello. Io invece credo che il mondo fisico sia assai più meraviglioso e potente di ogni volubile gusto umano. Credo che occorra scoprir la forma dei muscoli delle braccia nei cadaveri, se si vuol ben dipingere un San Cristoforo che usa i suoi per trasportare il Bambino da una riva all’altra del fiume; che serva studiare come si muovono le acque, se è necessario costruire dighe per irrorare i campi, e così far crescere il grano che diventerà il pane; che a ben riprodurre le ali degli uccelli si finirà per volare; che a ben copiare la forma dei pesci si arriverà a nuotare e a respirare sotto il pelo dell’acqua. E credo che questa sia la vera bellezza, bellezza in grado di crescere e produrne di nuova.»
Indicò con il braccio sinistro teso la finestra: «L’iride, là fuori; sarà la centesima che ho visto, nella mia vita, e posso assicurarti che l’ordine dei suoi colori è sempre il medesimo, e che quando è doppia sempre, sempre la seconda ha i colori invertiti. Questo i miei occhi me lo dicono, me l’han detto. Mi dicono anche che è necessaria la pioggia e il sole per generarlo, e che talvolta, in piccolo, bastano le gocce di una fontanella per creare un simulacro di arcobaleno anche qui sulla Terra, lontano dal cielo. E se la mia testa non sa spiegarmi il meccanismo che genera, da acqua e luce, una simile meraviglia, un arco di cerchio perfetto e multicolore, di una cosa sono certo: che qualcuno prima o poi ne capirà la ragione e i meccanismi, a forza di osservarlo. E che questa sua conoscenza ne genererà subito altre, al par d’una valanga: si capirà perché la curva di luce è un pezzo di cerchio e non di ellisse o di parabola, si capirà perché il secondo è rovesciato, si saprà se potrebbe o non potrebbe essercene un terzo. È questa la vera bellezza, Giacomo. Non dar retta alle mode, a coloro che pensano che la bellezza sia indipendente, o addirittura nemica della conoscenza: potrebbe mai essere meno bello un arcobaleno, se oltre a goderne l’aspetto sapessimo anche cosa lo genera, o se imparassimo a generarlo noi uomini?»
«Mi stai facendo una lezione, maestro?»
«E che altro posso fare, se “maestro” mi chiami?» rispose severo Leonardo. «Anzi» continuò, «se dev’esser lezione, che lo sia davvero, e completa: che potrebbe anche esser l’ultima, oramai. Dov’è Francesco?»
«Il tuo beniamino messer Melzi è a Tours, maestro. Dovrebbe tornare domani» rispose Salaì con un po’ di sarcasmo.
«Peccato, forse lui avrebbe potuto mostrarti, da pari a pari, come si leggono i quadri, e come li si possa identificare. Ma a dirla tutta, io penso e credo che per questo possa bastare assai meno che un artista, sarà sufficiente chiedere a chi con gli occhi sa vedere, e non solo guardare. Scendi dabbasso, Salaì, e dì a Maturina di venire quassù. Portatevi appresso un paio di sedie.»
Salaì scoppiò a ridere, d’una risata però non troppo allegra: «Maturina? La fantesca? Ma se quassù non viene mai, per tuo esplicito ordine, peraltro…»
«Adesso qui la voglio» ribadì Leonardo, «e forse è bene che venga più spesso, ora che di nettar la stanza da solo io non ho più le forze.»
Con una smorfia a mezza via tra l’incredulità e la sufficienza, Salaì prese a scendere verso il pianterreno, dove Maturina aveva il suo regno di governante, cuoca, cameriera e amministratrice della magione. Sotto la cuffia bianca le rughe dichiaravano impietosamente i suoi quasi cinquant’anni, e la sua voce da contralto non aveva ancora perso l’accento toscano, nonostante ormai da tempo vivesse in quella terra francese. Dall’alto, Leonardo non riusciva a risolvere le parole che i due sotto si scambiavano, ma il tono affrettato e tenorile di Salaì sembrava far da controcanto agli acuti della fantesca. Dopo un po’, fu di nuovo il solo Salaì ad affacciarsi nello studio.
«Maestro, Maturina dice che non può venire. Poco fa un pellegrino ha bussato, e lei l’ha accolto da buona cristiana, come tu le hai sempre ordinato di fare. Il viandante ha quasi finito il pane che ella gli ha offerto, ma sembra non volersene ancora andare. Parla un po’ d’italiano ma ha accento strano, forse olandese o tedesco, e né la fantesca né io siam certi di capire cosa chiede… ma Maturina pensa, secondo me a ragione, che non sia opportuno cacciarlo senza aver capito prima cosa vuole, né lasciarlo solo dabbasso per obbedire al tuo ordine di venir quassù.»
«Oh, quante difficoltà inutili…» sospirò Leonardo, «che salga anche lui, che male può fare? Se ha la pazienza che si richiede a chi cammina mille miglia per andar da chiesa a chiesa, avrà ben pure la pazienza di aspettare che un povero vecchio finisca una lezione sulla pittura, no?»
In breve, la piccola stanza si riempì di sedie e persone. Leonardo squadrò per pochi istanti il pellegrino, curvo per l’ingombro della sedia e dei suoi bagagli, il cui aspetto sembrava poco usuale per un cercatore di indulgenze; ma non gli lasciò neppure il tempo di finire la sua presentazione e i suoi ringraziamenti, rinviando a più tardi i convenevoli del caso. La fantesca teneva la sua sedia fra le braccia come fosse un neonato: si trovava in evidente imbarazzo al piano alto della casa. Finché si trattava di preparare i pasti e tenere in ordine le stanze, non temeva di apostrofare i due discepoli di Leonardo con piglio di governante, e neanche di mettere da parte un po’ di timidezza nei confronti del padrone di casa, ma lassù, nello studio dell’artista, si sentiva fuori posto.
L’imbarazzo crebbe a dismisura quando, prima ancora che si sedesse, Leonardo si rivolse proprio a lei: «Maturina, cara protettrice di questa mia casa! Vorresti per favore venir qua vicino, che abbisogno di un tuo giudizio su questa mia opera?»
La fantesca si schermì: «Ho bell’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. (quasi delle) Istruzioni per l’uso
  3. Mezzaluna calante
  4. Lettere per i figli
  5. La neve fa la differenza
  6. Una passione analitica
  7. Evidenti ragioni di simmetria
  8. Corrispondenti di guerra
  9. Terra bruciata
  10. Party particolare
  11. Per un pugno di riferimenti
  12. Ringraziamenti