Parte II
Il possibile dell’ecologia:
come la tecnologia
co-evolve con la cultura
In altre parole, il futuro è una storia da scrivere. Cioè è una vicenda che si sviluppa dai fatti che appaiono nel presente: condizione ambigua che li vede – allo stesso tempo – incardinati nell’accaduto e liberati nel possibile. L’intelligenza umana che non cessa di creare e modificare e subire le nicchie eco-culturali della propria esistenza ne è parte integrante. Ed è necessario esplorare quello spazio culturale e ambientale che offre l’opportunità di generare mutazioni per via creativa o di costringere nell’abitudine per via di convenzioni e restrizioni dell’immaginazione. La battaglia dell’innovazione è anche quella della libertà di esplorare quello spazio che sta oltre i limiti del possibile, con la ricerca scientifica e artistica, per poi costruirlo con la tecnologia e abitarlo nelle forme più varie della vita quotidiana. Il sottile salto di interpretazione che serve a leggere l’evoluzione umana richiede di assorbire nello stesso discorso la dimensione tecnologica e quella narrativa.
Capitolo 11
Ecosistema
Jan fotografava le panchine. Vedeva una coppia di anziani seduti che salutano una signora col bastone. Click. Vedeva un ragazzo sul bordo della panca proteso verso la ragazza che a distanza di sicurezza lo guarda e, segretamente, lo valuta. Click. Vedeva la coppia giovane, l’uomo che legge, la donna di spalle. Click. Click. Click. Vedeva il raduno di persone attorno alla scacchiera nel parco per seguire la partita e immaginava. Non tanto le loro storie. Piuttosto cercava le ragioni che le spingevano ad andarsi a sedere su quelle panchine: cercava la forza segreta del luogo che attraeva quelle persone e le conduceva a spendere proprio lì alcuni momenti della loro vita, spesso piacevoli, sempre in qualche misura significativi. Per questo Jan fotografava le panchine. E osservando i passanti si era fatto l’idea che esistono tre tipi di attività che si svolgono nei luoghi pubblici della città: le attività obbligatorie, come gli spostamenti necessari per andare a scuola o al lavoro; le attività libere, come le passeggiate e altre forme di passatempo, sport, divertimento personale, che dipendono dal tempo e dalle condizioni del luogo; le attività sociali, che dipendono dalla presenza di altri nello spazio pubblico, come i bambini che giocano insieme nel parco o gli anziani che conversano o comunque gli incontri passivi e casuali. Più la gente passa il tempo fuori casa e più attività sociali svolge. Ma – e qui sta il punto – la qualità di quelle attività sociali dipende anche dal modo in cui sono costruiti e pensati i luoghi pubblici. Ed è così, studiando e sviluppando il valore della socialità per la felicità delle persone, che Jan Gehl è diventato l’architetto degli spazi pubblici e ha proiettato quel valore sui suoi progetti.
Quando la città di New York gli ha affidato il compito di ridisegnare Times Square in modo che potesse diventare una piazza capace di alimentare la socialità e il benessere degli abitanti e non fosse più soltanto dedicata al servizio delle attività necessarie, Jan Gehl ha portato ai newyorkesi i risultati della sua ricerca e le conoscenze del suo mestiere, ma soprattutto ha seminato i suoi valori e il suo spirito vitale nell’architettura di quella città. Contribuendo alla «seduzione del luogo», nelle parole di Joseph Rykwert.
Niente appare più attuale e al contempo strutturale della città. Come Lewis Mumford immaginava e scriveva nell’incipit della sua grande storia urbana le città erano mondi, talvolta seducenti, ma oggi il mondo sta diventando una città. Una trasformazione che Mumford definisce esplicitamente «evoluzione». E il senso di una città si scioglie nella ricerca di un senso per l’umanità.
La sfida del mondo attuale si ridefinisce nel quadro di un’ecologia che si occupa dell’ambiente con tutte le opere tecnologiche, artistiche, funzionali e narrative che gli umani vi hanno stratificato. «Il pensiero prende forma nella città; e a loro volta le forme urbane condizionano il pensiero» scrive Mumford in La cultura della città, del 1938. E la città diventa l’emblema, direbbe Paolo Granata, di un sorta di ecologia della tecnica. Scrive Mumford: «La funzione principale di una città è di trasformare il potere in strutture, l’energia in cultura, elementi inerti in simboli vivi dell’arte, e la riproduzione biologica in creatività sociale». Una città come medium, il sistema dei media come ambiente, la tecnologia come cultura e l’evoluzione come approccio alla dinamica di questa dimensione della realtà.
In effetti, se si cercano le conseguenze di un approccio evoluzionistico per interpretare la relazione tra l’umanità e la sua tecnologia, la città è l’esempio per eccellenza di nicchia eco-culturale. E in essa l’ambiente, la cultura e la tecnologia collaborano a scrivere la storia. «Le città sono come dei trasformatori elettrici» scrive lo storico Fernand Braudel (1977, p. 379): «esse aumentano le tensioni, precipitano gli scambi, rimescolano all’infinito la vita degli uomini. Sono nate dalla più antica, dalla più rivoluzionaria divisione del lavoro: campi da un lato, attività cosiddette urbane dall’altro». Viste così sembrano formazioni parassitarie: sfruttano il lavoro dei contadini per sviluppare attività meno faticose:
Ma queste città parassitarie sono anche l’intelligenza, il rischio, il progresso, la modernità verso cui si muove lentamente il mondo. Ad esse, i cibi più raffinati, le industrie di lusso, la moneta più agile, ben presto il capitalismo calcolatore e lucido. Allo Stato, sempre piuttosto greve, prestano la loro insostituibile vivacità. Sono gli acceleratori dell’intero tempo della storia. Il che non significa che esse non facciano soffrire gli uomini nel corso dei secoli; anche gli uomini che in esse vivono.
Braudel suggerisce una classificazione delle città: le città aperte, aggregazioni di case e strade, certo, ma non troppo distinte dalla campagna circostante; le città chiuse da mura e nettamente distinte dalla campagna che dominano e dalla quale a tratti si difendono; le città assurte a centro del potere di un principe o di uno Stato. Si tratta di un modello ricavato soprattutto dalla vicenda occidentale: Braudel fa notare come gli imperi asiatici non siano compatibili con lo sviluppo di città autonome e indipendenti come quelle medievali italiane e anseatiche dalle quali emerge lo sviluppo capitalistico; e osserva come in India il sistema delle caste si opponga costantemente alla libertà di iniziativa fondamentale per la crescita di una società civicamente coesa. Sicché forse si può dire che la globalizzazione è anche l’esportazione del modello occidentale della città nelle altre grandi civiltà, provando a partire dall’intuizione di Mumford: ma con maggiore convinzione si può ipotizzare che l’urbanizzazione, in questo senso, è la faccia eco-culturale della globalizzazione. Dove si accelera il tempo dell’evoluzione, e dove si incontrano i grandi problemi della contemporaneità.
La complessità del fenomeno urbano non è riducibile a poche righe. La città è un sistema vicino all’esperienza umana, forse più di altre dimensioni meno concrete, come quella dello Stato o quella del capitalismo. Ma proprio per questo – perché offre risposte di esperienza – la dimensione urbana spinge a porsi domande strategiche. Qual è il rapporto tra l’azione individuale e la struttura collettiva nella generazione delle mutazioni e nelle forme della selezione che portano avanti l’evoluzione? Quanto contano i fenomeni sociali – del tipo bottom-up – e quanto quelli politici – del tipo top-down – nella definizione dei percorsi storici di una popolazione? Perché alcune città fioriscono più di altre, nelle diverse epoche storiche? Questioni più facili da porre che da risolvere, ovviamente.
A differenza di un ecosistema naturale, una nicchia eco-culturale prevede l’azione umana. E questa pone domande specifiche. Chi o che cosa genera una nicchia eco-culturale? Di certo, una città non si costruisce da sola. Ci vogliono persone. E legami tra le persone. E logiche che spingono le persone a fare qualcosa. E tutto questo si sviluppa insieme, oppure non esiste una città. Sappiamo che il successo delle idee individuali, come quelle di Gehl, è il risultato di uno straordinario talento individuale. Ma ovviamente non solo. Il modello lineare dell’opera pensata dal grande innovatore e portata al mondo dalla sua bravura è da tempo superato. E persino il fenomeno delle archi-star, derivato dall’epoca un po’ passata dell’iper-comunicazione del capitalismo finanziario e consumista, non sembra tenere all’usura del tempo e alla prova delle crisi ricorrenti di quel sistema economico. D’altra parte è chiaro che il sistema dell’innovazione, in una nicchia eco-culturale come la città, non è mai soltanto fatto di meccanismi, logiche e incentivi: il contributo delle persone resta essenziale.
Come trovare il giusto equilibrio interpretativo? La questione è priva di soluzioni banali e unilaterali. Una grande conoscenza tecnica era ovviamente indispensabile all’architetto Jan Gehl – come a tutti i suoi grandi colleghi, del resto – per realizzare le sue opere. La sua visione del mondo era, appunto, indispensabile per definire un senso per il suo lavoro e condividerlo in modo tale che la popolazione potesse adottarlo. Ma i motivi per cui è stato scelto Gehl e non un altro suo collega sono altrettanto importanti, evidentemente, per arrivare al risultato finale: non si limitano alle qualità di Gehl, ma in un certo senso pre-esistono ad esse, riguardano le logiche di selezione che New York usa per scegliere un architetto al quale affidare un’opera tanto importante e sottolineano la logica collettiva della decisione innovativa. Che a sua volta si arricchisce di una dimensione comunitaria osservando i percorsi che hanno portato gli abitanti di New York ad adottare la proposta urbanistica di Gehl e che si sono sviluppati in un contesto complesso nel quale si incontrano economia e cultura, politica e amministrazione, esigenze pratiche e sensibilità estetiche, comportamenti abituali e aperture alla sperimentazione sociale. Insomma, appunto, l’innovazione emerge in un sistema complesso.
Mutazioni e ricombinazioni immaginate e sperimentate dall’arte visionaria di persone convinte di poter andare oltre i limiti dell’esistente si propongono alla logica della selezione economica o tecnologica, moltiplicandosi negli ambienti favorevoli e avvizzendo nei contesti poco fertili. A loro volta, contribuiscono a modificare gli ambienti che, di conseguenza, favoriscono o limitano ulteriori cambiamenti. La relazione tra cambiamenti e adattamenti è raramente lineare, più spesso i fenomeni interagiscono, avviano dinamiche ricorsive, saturano gli ambienti raggiungendo il limite del loro sviluppo. Non è insensato, in effetti, descrivere tutto questo come un insieme di argomenti per l’analisi degli “ecosistemi dell’innovazione”.
L’utilizzo, qualche anno fa piuttosto raro ma oggi generalizzato, di questa locuzione è forse la principale ammissione della rilevanza dell’approccio evoluzionistico allo sviluppo della tecnologia e soprattutto della indistinguibilità della evoluzione tecnologica da quella più complessiva degli umani. La tecnologia contribuisce pienamente alla costruzione delle nicchie eco-culturali nelle quali e con le quali si sviluppa l’evoluzione umana, e che generano conseguenze profondissime sull’evoluzione planetaria. Per il grande geografo del secolo scorso, Pierre Gourou, la cultura di un popolo è fondamentalmente la sua tecnologia, sicché per lui geografia, paesaggio, tecnologia, cultura, comunicazioni, fanno parte dello stesso insieme. Le condizioni in cui vive un popolo non sono mai soltanto “oggettivamente” geografiche, ma sono sempre anche tecnologiche e culturali: cioè fondate sulla capacità di generare idee, trasformazioni organizzative, adattamenti ai cambiamenti di contesto.
C’è qualcosa di specificamente importante in questa osservazione: la co-evoluzione dei fenomeni genetici, tecnologici, cerebrali, sociali, culturali, persino personali, in un certo senso, si accompagna in modo indissolubile al modo in cui vengono narrativamente tenuti insieme in un certo momento storico. È un passaggio chiave per l’interpretazione del contributo della tecnologia alla storia e, dunque, al futuro. Esiste chiaramente una pluralità delle durate del tempo dell’evoluzione umana: il punto è che, probabilmente, a sua volta, essa si accompagna a una pluralità di luoghi del senso che contribuiscono ad alimentare o a frenare la generazione di innovazioni e la diffusione di altri tratti della dinamica culturale. Le mutazioni nelle nicchie eco-culturali in effetti avvengono per via di esplorazione di tutte le possibili varianti: alcune sono casuali o imprevedibili, come certe scoperte scientifiche; altre sono intenzionali dunque in qualche misura guidate da sistemi di valori, da capacità organizzative, da flessibilità e creatività intellettuale e così via. Da questo punto di vista, dunque, i sistemi di generazione di senso hanno appunto la capacità di aprire – oppure di chiudere – gli occhi su nuove possibilità.
La sfida intellettuale posta da questo approccio sta nel fatto che occorre tener presente contemporaneamente l’insieme dei cambiamenti che avvengono nell’ecosistema e la trasformazione dell’ecosistema stesso, a livello ambientale e culturale. Chiunque si presenti con la soluzione in tasca rischia di apparire come l’ennesimo banalizzatore. La consapevolezza della doppia valenza delle innovazioni – che emergono in un ambiente più o meno favorevole e a loro volta modificano quell’ambiente nel quale sono emerse – in un contesto culturalmente aperto a “vedere” le possibilità innovative, pone in luce l’insieme delle discipline che per statuto si occupano di pensare l’ecosistema e di agire su di esso. Da questo punto di vista c’è una sorta di capacità sintetica nell’architettura, disciplina che sembra ispirare profondamente chi riflette sull’ecosistema dell’innovazione ben oltre i limiti abituali del mestiere dell’architetto. Forse non è un caso se Bill Gates, co-fondatore della Microsoft, quando lasciò la posizione di amministratore delegato, decise di assumere il ruolo di “responsabile dell’architettura del software”.
In questa concezione allargata e vagamente metaforica, l’architettura diventa una sorta di disciplina che studia e genera l’innovazione nella “tecnologia del contesto”, si trasforma nel mestiere di chi disegna la tecnologia abilitante, che può facilitare la vita quotidiana, fornendole un colore, un’energia, una forza generatrice oppure, nei casi peggiori, frenando lo sviluppo umano. Perché come – neppure troppo ingenuamente – disse Winston Churchill all’accademia di architettura britannica nel 1924 (prima del libro di Mumford, si direbbe): «Noi diamo forma ai nostri edifici; poi essi danno forma alla nostra vita». C’è, appunto, bisogno di una nuova consapevolezza intorno all’intreccio dei ruoli della persona, della comunità, della collettività, per poter cogliere il valore della storia che è, insieme, la durata delle condizioni strutturali, la dinamica delle sperimentazioni presenti, la prospettiva delle possibili modificazioni future.
Ne deriva un crescente senso della responsabilità connessa al mestiere dell’architetto – in senso sempre più largo, come portatore della cultura del progetto – e all’insieme delle attività che servono alla generazione di decisioni che costruiscono l’ecosistema e che definiscono l’urbanistica. Che assume su di sé, per esempio, il compito di pensare soluzioni che riducano il costo energetico della gestione degli edifici o dei quartieri, come insegna il lavoro degli architetti che operano ispirandosi ai principi della sostenibilità: l’adattamento al cambiamento climatico passa da qui. Che pensa alle piattaforme di trasporti più adatte alla necessità di connettere i luoghi e le persone in modo sostenibile ed efficiente e si prepara all’avvento delle città popolate dalle auto che si guidano da sole. E che più in generale si occupa delle soluzioni che alimentano la capacità della società di adattarsi al cambiamento attraverso l’innovazione.
Perché è evidente che esistono soluzioni urbanistiche che facilitano la ricchezza di un ecosistema dell’innovazione e altre situazioni che la frenano: il riuso di aree destinate un tempo ad attività industriali e ripensate per l’economia della conoscenza, gli spazi di co-working, gli acceleratori di startup, ma più in generale le università e le piazze, la qualità dei trasporti e dell’ambiente urbano sono decisivi per costruire un ecosistema dell’innovazione. E vanno pensati, finanziati, realizzati. Sicché la cultura del progetto diventa ogni giorno più centrale. E anche per questo a sua volta si trasforma, chiedendo una sempre maggiore visione d’insieme. In che direzione? Non è difficile dimostrare che per vivere appieno i cambiamenti storici che sottendono questi fatti, senza limitarsi a subirli, occorre in effetti imparare a distinguere tra le novità e le grandi innovazioni che cambiano il corso della storia: quindi conoscere, interpretare, coltivare una capacità di leggere olisticamente il senso di ciò che avviene. Approfondire. Criticare. E partecipare. La consapevolezza è un elemento essenziale di una vita attiva nel quadro del cambiamento. In sua assenza si rischia la condanna al ruolo di semplici spettatori.
Se tutto questo è vero, emerge una conseguenza interpretativa dell’approccio evoluzionistico alla storia della tecnologia: come non ha senso pensare all’evoluzione umana senza comprendere la tecnologia, così non ha senso pensare alla dimensione della tecnologia come a una realtà autonoma dall’umano. L’immagine di oggetti tecnologici che vanno fuori controllo e cominciano a dominare il destino dell’umanità – sulla quale non cessano di tornare la fantascienza oltre alla saggistica attuale – non tiene conto dell’intreccio intricato, profondo, creativo, progettuale, politico, filosofico, culturale, ecologico – e così via – che spiega una nicchia eco-culturale fondamentale come la città. E nella sua efficacia narrativa ha un effetto deresponsabilizzante, ideologicamente utile ma particolarmente rischioso. Può essere comodo per i “venditori” di narrative tecno-centriche, per proporre la soluzione tecnologica alla costruzione di “città intelligenti”: ma la responsabilità di chi fa i progetti, di chi prende le decisioni politiche, di chi vive in una città e può partecipare all’elaborazione delle idee che la definiscono, oltre a interpretare le opportunità che offre, non si può accantonare, nell’attesa della prossima versione della “smart city” che risolve i problemi lasciati dalla vecchia informatizzazione della burocrazia locale.
Da questo punto di vista, la città è anche una sfida interpretativa di crescente importanza per comprendere il senso delle nicchie eco-culturali in generale. Attualmente metà della popolazione mondiale vive in città, ma la città produce oltre l’80 per cento del PIL globale e il 70 per cento delle emissioni di gas serra. Per il 2030, il 60 per cento della popolazione mondiale vivrà nelle città, dice l’ONU. Questo ambiente è la piattaforma che accelera, o frena, l’innovazione: e lo può fare per via tecnologica, come sostengono appunto i cultori del concetto di “smart city”, oppure per via socio-culturale. Di certo è un ecosistema complesso nel quale si gioca la maggior parte delle questioni relative all’impronta ecologica dell’umanità. Ed è il luogo nel quale con maggiore immediatezza si vedono le conseguenze delle decisioni collettive. Mentre la superficie urbanizzata del pianeta ha superato l’area del territorio dedicata all’agricoltura, e mentre la tecnologia idroponica consente di progettare lo sviluppo dell’agricoltura anche in città, la popolazione mondiale continua a crescere e ad addensarsi geograficamente.
La città è un chiaro esempio di come la tecnologia e la vita umana evolvano insieme costruendo nicchie eco-culturali: ma è anche il luogo dal quale partono i fenomeni umani che più influenzano l’evoluzione nel suo complesso. Nel suo sviluppo è l’insieme che conta: sicché non vanno studiate sol...