Economia senza natura. La grande truffa
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Economia senza natura. La grande truffa

  1. 300 pagine
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Economia senza natura. La grande truffa

Informazioni su questo libro

Guardate quella casa costruita su una duna, a dieci metri dal mare. Ecco, quella è economia senza natura. Questo lungo articolo di fondo, divertito e divertente, grafitante, irriverente e arrabbiato, presenta nelle stesse parole dell'autore un'unica, semplice e potente tesi: "L'uomo fa parte della natura, e le regole che inventa sono alla fine soggette alle regole della natura". Se è vero infatti che la natura è arrivata prima dell'economia, è altrettanto vero che oggi il mondo è governato da economisti che si rifiutano di tener conto dell'ecologia, e che guardano con superiorità a qualsiasi soluzione amica dell'ambiente. Non capiscono però che l'economia deve essere un corollario dell'ecologia, e che potrà continuare a esistere solo se saprà essere un'economia della, e non senza, natura. Perché quest'ultima, presto o tardi, presenta sempre il conto.

Domande frequenti

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Informazioni

Capitolo 1

Nella natura o fuori dalla natura?

Alla fine degli anni Ottanta, alla Sapienza di Roma, al momento di fondare i dipartimenti, sorse la necessità di unire molti istituti affini. L’Istituto di Zoologia si fuse con quello di Antropologia, e sorse il Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo. Negli anni Settanta, nella trasmissione radiofonica “Alto gradimento”, il comico Bracardi (un genio) ogni tanto urlava: «L’uomo è un bestia!». Bestia vuol dire animale. Chi ne sapeva di più di biologia e filogenesi? Bracardi o i professori che, assieme, decisero il nome di quel dipartimento? Ovvio: Bracardi. Ho chiesto ai miei amici romani come mai il loro dipartimento si chiami così, e mi hanno risposto che gli antropologi non potevano tollerare di stare in un dipartimento in cui l’oggetto del loro studio (l’uomo) non fosse menzionato: si sarebbero sentiti sminuiti. Così gli zoologi, pur sapendo benissimo che l’uomo è una bestia, accettarono questo compromesso antiscientifico e distinsero l’uomo dagli altri animali.
Quel dipartimento, oggi, è all’avanguardia per gli studi sul lupo. Se l’attuale direttore, grande specialista di biologia dei lupi, ai tempi del battesimo del dipartimento fosse stato abbastanza potente, forse sarebbe riuscito a farlo chiamare Dipartimento di Biologia Animale e del Lupo. Ridicolo, no? E in effetti non ci sarebbe riuscito, perché gli sarebbe stato spiegato, con tanta pazienza, che il lupo è un animale e che quindi non si può dire che si studia una categoria di oggetti (gli animali) e poi aggiungere a quella categoria un oggetto che rientra nella stessa. È un pleonasmo, direbbe un maestro elementare. E posso trovare un milione di esempi da cui appare evidentissimo che Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo è un nome assurdo. Ogni accostamento di questo genere (“biologia vegetale e della mela”, “ambasciata d’Italia e di Basilicata” ecc., ne trovate finché volete) suscita ilarità, ma Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo non molta.
Siamo soli?
Carlo Linneo, nella seconda metà del Settecento, si rese conto che i nomi attribuiti agli organismi nelle varie lingue erano causa di grandissima confusione. Se qualcuno parlava di un organismo era possibile che qualcun altro non riuscisse a capire di quale organismo si trattasse, e se fosse pianta o animale. Non è cosa da poco: se devo preparare un infuso medicamentoso con un’erba, forse è bene che io lo faccia proprio con quell’erba. Se poi si tratta di funghi, commestibili o velenosi, dare informazioni corrette può rivelarsi questione di vita o di morte. Visto che i nomi erano diversi in ogni lingua e a volte in ogni varietà locale (i mitili, i muscoli, le cozze), gli organismi erano descritti con frasi che riportavano le loro caratteristiche più peculiari. Un modo un po’ macchinoso.
Linneo pensò allora di raccogliere tutte le informazioni su tutti gli organismi conosciuti (cominciò con le piante e poi passò agli animali) e ad ogni specie diede un nome fatto di due parole. Una, da scrivere in maiuscolo, si riferiva al genere, mentre l’altra, scritta minuscola, si riferiva alla specie. La nostra specie, per esempio, si chiama Homo sapiens. Homo è il genere, nel quale si collocano specie che discendono da un antenato comune non condiviso con altri gruppi di specie. Un genere può essere monospecifico, cioè può contenere una sola specie, oppure multispecifico.
Il nostro genere è monospecifico, ci siamo solo noi. Ma in passato il pianeta è stato abitato da almeno un’altra specie di Homo che è coesistita con la nostra: Homo neanderthalensis. Anzi, pare che noi caucasici conteniamo molti geni di neanderthalensis, e siamo quindi un pochino “bastardi”. Ovviamente, prima dell’evoluzione della nostra, il genere è stato rappresentato da altre specie: Homo abilis, Homo erectus e altre ancora, più o meno riconosciute dai paleoantropologi. Sono i nostri antenati che, per una sequenza anagenetica, si sono succeduti fino ad arrivare a noi.
Ovviamente tutti sanno cos’è una sequenza anagenetica, giusto? Per i pochissimi che ancora non lo sapessero: si tratta di una serie di specie che si susseguono nel tempo discendendo una dall’altra. Nella sequenza evolutiva, quindi, una specie si trasforma in un’altra, gradualmente. Forse non si riesce neppure a capire il momento preciso in cui la trasformazione è avvenuta, se si ha una sequenza di fossili molto completa. Ma se si confrontano esemplari abbastanza lontani nel tempo si vede che non si tratta della stessa specie. Non ci sono anelli di congiunzione, si passa gradualmente da una specie all’altra. Agli estremi, a lungo termine, la differenza è chiara, ma se si guardano fossili di età vicine non si riescono a cogliere tutte le differenze. Un processo differente, invece, è la cladogenesi. Come nel caso dell’anagenesi si formano nuove specie, ma la linea evolutiva non prevede che una specie si trasformi in un’altra. Con la cladogenesi, da una specie se ne hanno due, tre, o più. E queste coesistono andando ad aumentare la biodiversità.
Se l’evoluzione fosse stata un processo anagenetico, oggi ci sarebbe una sola specie. Invece ce ne sono milioni, il che significa che la cladogenesi è molto diffusa. Lo stesso genere, quindi, può essere rappresentato da più specie. Per esempio Homo sapiens e Homo neanderthalensis. Poi il povero Neanderthal si è estinto (magari lo abbiamo sterminato noi) e siamo rimasti soli.

La classificazione e l’evoluzione

La classificazione degli organismi mette assieme specie che discendono da antenati comuni. Ma sono sufficienti le specie a descrivere questi fenomeni di diversificazione? La vita ha avuto un’origine singola (è monofiletica), lo dimostra il fatto che tutti i viventi sono codificati da DNA. È altamente improbabile che i primi viventi fossero molto complicati; è più probabile invece che fossero semplici, e i fossili più antichi sono lì a testimoniarlo. Poi, con il procedere dell’evoluzione, sono aumentate le complicazioni. Gli organismi sono diventati sempre più complicati, ma non per questo “migliori”: è notevole che spesso definiamo gli organismi semplici in termini di minor grado di evoluzione, e viceversa quelli più complicati.
Se ci pensate, i batteri di oggi sono molto simili a quelli presenti al momento della nascita della vita, e sono loro a far funzionare il mondo (perché permettono il riciclo della materia e sono anche responsabili, in parte, della trasformazione della materia da non vivente a vivente); lo fanno da quattro miliardi di anni, senza che la loro architettura corporea sia cambiata molto. E se sono in circolazione da così tanto tempo, senza essere cambiati molto, non è forse perché sono perfetti? Gli esseri molto complicati si sono evoluti e si sono estinti, quelli più semplici sono sempre lì; forse i più evoluti sono proprio loro. I batteri sono come la Bibbia, che dura da tantissimo tempo, mentre noi siamo come Il codice da Vinci, che è già quasi dimenticato (ma che in un certo periodo ha venduto più copie di qualsiasi altro libro, battendo persino la Bibbia).
La prima specie che si formò, presumibilmente, diede origine a molte specie simili, con un processo cladogenetico. Se tutto si fosse fermato a quello stadio ci sarebbero tantissime specie tutte molto simili tra loro. Basta guardarsi attorno per capire che non è così: a un certo punto qualche specie deve avere acquisito caratteristiche molto diverse da quelle dei suoi progenitori ed essere diventata la capostipite di una linea evolutiva originale, per esempio di un gruppo di specie che sono sì simili al progenitore che ha deviato dalla norma, ma che sono più simili tra loro di quanto non lo siano con tutte quelle precedenti il progenitore; si può dire che queste specie appartengono a un nuovo genere. E i processi possono portare a divergenze sempre maggiori, con formazione di nuovi gruppi di specie.
La classificazione linneana prevede che le specie siano classificate in generi, che questi siano raggruppati all’interno di famiglie, che le famiglie siano classificate in ordini, gli ordini in classi, le classi in phyla e i phyla in regni. Noi siamo nel regno animale, e il nostro phylum è quello dei cordati; inoltre apparteniamo al subphylum dei vertebrati, la nostra classe è quella dei mammiferi e così via. In teoria, quindi, il modo in cui classifichiamo gli organismi dovrebbe rispettare la loro storia evolutiva. Non è cosa semplice, perché l’evoluzione è un processo molto complicato e ricostruirlo non sempre è possibile, visto che si tratta di un evento storico, non ripetibile sperimentalmente.

Le sinonimie

Forse è necessario fornire qualche ulteriore dettaglio. La chiave di volta del sistema di classificazione degli organismi è il principio di priorità. La stessa specie, infatti, potrebbe essere descritta con diversi nomi da persone diverse, anche nel sistema linneano. Il problema si risolve, appunto, con la legge della priorità: se alla stessa specie sono dati nomi differenti, quello valido (una volta riconosciuto che quei nomi si applicano alla stessa specie) è quello che è stato assegnato prima; i nomi più recenti diventano sinonimi del più antico e non si usano più. In effetti la formula con cui si nomina una specie prevede anche che si riporti il nome del descrittore della specie, detto autore, e l’anno di pubblicazione della descrizione. Autore e anno sono separati da una virgola. La nostra specie è Homo sapiens Linneo, 1758. Se notate, genere e specie sono scritti in corsivo, il genere si scrive maiuscolo, la specie minuscola. A volte l’autore e l’anno sono tra parentesi. Se lo sono, significa che quella specie è stata assegnata, nella descrizione originale, a un genere differente rispetto a quello attualmente riconosciuto come valido.

Gli altri due uomini

Quando abbiamo cominciato a confrontare i patrimoni genetici di specie diverse ci siamo accorti, come c’era da aspettarsi, che specie morfologicamente simili hanno genomi simili e che tanto più le specie sono morfologicamente differenti, tanto più sono differenti i loro patrimoni genetici. Un cane e un lupo sono più simili tra loro, geneticamente, di quanto non lo siano un lupo e un leone. Cane e lupo sono talmente simili geneticamente da poter essere assegnati allo stesso genere, e sono persino in grado di dare ibridi, se si accoppiano. Il leone può generare ibridi con la tigre, ma non con il lupo.
Ovviamente abbiamo cercato anche notizie genetiche su di noi, e ci siamo confrontati con i nostri simili, le scimmie antropomorfe. Il risultato è stato che l’uomo e le due specie di scimpanzè (Pan paniscus e Pan troglodytes, differenti tra loro di un misero 0,7 per cento) hanno il novantotto per cento di somiglianza genetica. Questo livello di somiglianza dovrebbe prevedere l’appartenenza a un gruppo filogeneticamente compatto, cioè allo stesso genere. E infatti noi e gli scimpanzè siamo talmente simili che Linneo chiamò Homo troglodytes lo scimpanzè, annotando che le due specie (sapiens e troglodytes) erano molto affini (paniscus sarebbe stato riconosciuto solo qualche tempo dopo). In seguito fu proposto il nome Pan per tracciare una linea di separazione tra noi e loro: ci sentiremmo troppo sminuiti a trovare due scimmioni nel nostro stesso genere. Ancora oggi, a duecento anni di distanza dalla nascita di Darwin, il pensiero di essere il risultato di un’evoluzione a partire da qualcosa di diverso da noi non ci piace affatto. Figuriamoci poi pensare di essere imparentati strettamente con delle scimmie. Noi ci sentiamo diversi. E in effetti lo siamo, come sono diverse tutte le specie rispetto a tutte le altre. Ma noi non solo ci sentiamo diversi, ci sentiamo anche speciali. Tanto speciali da pensare di essere discendenti diretti di Dio. Non è che ci siamo montati la testa?
I nomi sono importanti
Quando conosciamo qualcosa le affibbiamo un nome: se vediamo un animale per la prima volta e domandiamo di cosa si tratti, chi conosce la risposta pronuncia un nome, e noi, immediatamente, sentiamo di possedere conoscenza su quell’animale. Una leggenda dice che quando Cook arrivò in Australia e vide i canguri, chiese agli aborigeni come si chiamassero quegli animali stranissimi che non aveva mai visto prima. Pare che si rivolgesse in perfetto inglese agli aborigeni e che questi, ovviamente, non capissero una parola di quanto diceva. Kangaroo potrebbe voler dire: «Non sto capendo quello che dici, imbecille!», o qualcosa del genere. Il buon Cook (era davvero buono, a detta di altri aborigeni che poi se lo mangiarono) disse: «Ah! Kangaroo», e lo annotò nei suoi taccuini. Ora che sapeva come si chiamava, ne sapeva di più. Pare che la storia non sia vera, ma denota comunque un atteggiamento comune.
Ci capita spesso che una parola ci diventi familiare e che pensiamo di conoscerne il significato solo perché la conosciamo (ad esempio il prodotto interno lordo). Se chiedo ai miei studenti del primo anno come fa un litro di birra a trasformarsi in uno di pipì (come si forma e da quali processi deriva la pipì) si sorprendono della semplicità della domanda, perché la pipì è qualcosa di familiare, ma scoprono di non conoscere la risposta. Se chiedo perché respiriamo mi rispondono che lo facciamo per portare ossigeno nel nostro corpo, e se chiedo a che cosa serve l’ossigeno mi dicono che serve a respirare. E il cerchio è chiuso. Ovviamente non sanno di cosa stanno parlando (e queste carenze sono un esempio del ruolo della scienza nella costruzione di cultura nel nostro sistema scolastico), ma, dato che le parole suonano loro familiari, hanno l’impressione di saperlo.
Il nostro nome, la parola che ci definisce, è importantissimo: è la nostra identità e non siamo contenti se qualcuno ce la toglie; e ancora meno se ci assimila a scimmioni. È questo sentire che ha portato al Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo. È un sentire che accomuna tutti, colti e ignoranti, religiosi e atei. Prevedo che se qualche tipo molto originale dovesse chiedere di includere i due scimmioni nel nostro stesso genere, sarebbe ostacolato da fiere resistenze, magari da parte di personaggi vestiti con sontuosi abiti trapunti d’oro, e scarpette rosse: noi siamo diversi, anzi superiori.
È doveroso che io chieda scusa a questi signori: il Vaticano ha organizzato un convegno sull’evoluzione e ha deliberato che, come nella storia del sole che gira attorno alla Terra, anche l’origine dell’uomo dal fango è un’immagine biblica che non va presa alla lettera. Scimmione o fango non fa tanta differenza, dopotutto, e il messaggio biblico è comunque valido. Solo dei veri stolti possono continuare a spiegare la nostra origine prendendo alla lettera la narrazione biblica.

Noi e i batteri

Ho già detto che i batteri sono importantissimi per il funzionamento del mondo. Esiste una quantità finita di materia sul nostro pianeta e questo è un concetto fondamentale, oltre ad essere una delle chiavi di volta di questo libro. Anzi, esiste una quantità finita di materia nell’intero universo. Il concetto si impara a memoria, alle scuole medie, come fosse una poesia: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. I viventi non fanno eccezione: la materia vivente rimane tale per un po’ e poi muore; ma altra materia non vivente è trasformata in materia vivente (lavoro svolto dagli organismi fotosintetici, come le piante). Non tutta la materia non vivente può diventare vivente; di solito si ricicla sempre la stessa materia, che continuamente passa di stato. Da vivente a non vivente, e poi ancora a vivente, in una catena di trasformazioni che va avanti dall’origine della vita.
Perché la materia vivente, una volta morta, possa essere nuovamente utilizzata per ridiventare viva, deve essere decomposta. Questa funzione, la decomposizione, è espletata dai batteri e dai funghi. I batteri, inoltre, possono trasformare la materia non vivente in materia vivente attraverso processi di sintesi basati sull’energia luminosa (fotosintesi) o sull’energia chimica (chemiosintesi). Insomma, un ecosistema potrebbe funzionare benissimo solo con i batteri, in quanto i processi di base, decomposizione e produzione, sono gestiti proprio da loro. E se la vita è monofiletica (cioè se ha avuto un’origine singola) il primo vivente doveva essere in grado di espletare tutte le funzioni ecosistemiche, e quindi doveva essere un batterio o qualcosa di molto simile. Persino noi non potremmo funzionare senza i batteri. Abbiamo, ad esempio, dei simbionti nel nostro intestino, la famosa Escherichia coli, che permettono i processi di digestione. Se questi mancano, la nostra vita diventa miserabile e si accorcia in modo drastico. Non possiamo vivere senza batteri. Ma loro possono vivere senza di noi.

Salviamo i batteri!

A noi alcune specie piacciono molto, e le consideriamo carismatiche: delfini, balene e foche, oppure leoni, tigri, panda, elefanti e giraffe. Gli animali che vediamo di solito nei documentari sono molto popolari, per loro ci commuoviamo e ci piace pensare che siano buoni, che la natura sia in perfetta armonia ed equilibrio. Ma il mondo non è così, e comunque questi magnifici animali hanno un’importanza minima nel funzionamento degli ecosistemi. Questi ultimi, infatti, possono sopravvivere senza grossi problemi anche dopo la scomparsa di specie carismatiche rappresentate da individui molto grandi: gli ecosistemi hanno continuato a funzionare anche dopo la scomparsa dei dinosauri, e continueranno dopo la scomparsa di leoni, balene e panda ma non resisterebbero alla scomparsa dei batteri.
Noi usiamo gli antibiotici, e li usiamo per uccidere i batteri patogeni. Tutti al solo udire la parola batteri pensano a qualche malattia, ma, come abbiamo visto, i batteri decompositori e produttori sono alla base del funzionamento degli ecosistemi. Sono stati sostituiti da piante superiori in molti ambienti, e il loro ruolo di produttori primari potrebbe anche essere offuscato, ma i processi di decomposizione, senza di loro, dovrebbero essere garantiti esclusivamente dai funghi, e di sicuro una tale alterazione porterebbe a drastici cambiamenti. “Salviamo i batteri” dovrebbe essere uno slogan più pregnante di quanto non sia “salviamo i delfini”, ma non ci sono dubbi sul fatto che nessuno si commuoverebbe al pensiero dei poveri batteri decimati dalle sostanze chimiche che gettiamo in mare, magari dopo essere passate attraverso il nostro apparato digerente, circolatorio ed escretore. La pipì serve proprio a eliminare le scorie presenti nel sangue attraverso l’eliminazione dell’eccesso di acqua e, in quelle scorie, ci sono anche i medicinali che assumiamo.

I consumatori e le reti trofiche

Oltre a produttori e decompositori, negli ecosistemi ci sono anche i consumatori. I consumatori, lo dice la parola stessa, consumano i prodotti degli altri viventi e non sono indipendenti come i produttori. Hanno bisogno di altri viventi e sopravvivono a loro spese, consumandoli. Noi siamo consumatori: mangiamo produttori primari (frutta e verdura) o altri consumatori (altri animali). Di solito i consumatori sono divisi in due vaste categorie: gli erbivori, o consumatori primari, e i carnivori, o consumatori secondari. Le cose in realtà sono più complicate di così, le reti trofiche possono essere molto più intricate.
Un tempo si parlava di catene trofiche, raffigurate in modo lineare. I produttori primari facevano il loro mestiere,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Premessa
  3. Capitolo 1 Nella natura o fuori dalla natura?
  4. Capitolo 2 Il sesso
  5. Capitolo 3 L’uomo inventa l’economia
  6. Capitolo 4 I modelli economici
  7. Capitolo 5 La decrescita
  8. Capitolo 6 Scenari futuri
  9. Capitolo 7 Generazioni bruciate
  10. Capitolo 8 La valutazione della ricerca
  11. Capitolo 9 La laurea in Italia
  12. Capitolo 10 Violenza e astuzia
  13. Capitolo 11 La burocrazia al potere
  14. Capitolo 12 L’era dell’elettricità e delle comunicazioni
  15. Capitolo 13 Ecologia ed economia
  16. Capitolo 14 La storia insegna: memi e geni
  17. Capitolo 15 A lezione dalla natura
  18. Capitolo 16 Intanto… in Giappone
  19. Epilogo