Cervello senza limiti
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Cervello senza limiti

La prima inchiesta italiana sul potenziamento cerebrale

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cervello senza limiti

La prima inchiesta italiana sul potenziamento cerebrale

Informazioni su questo libro

Studenti e professori universitari, ma anche manager, piloti, chirurghi; negli ultimi anni l'uso dei nootropici, i farmaci in grado di migliorare le capacità cognitive (e permettere di sostenere i ritmi imposti da un mondo sempre più competitivo), ha subito un impressionante aumento, al punto che negli Stati Uniti il Ritalin è diventato un vero e proprio blockbuster da oltre tre milioni di ricette al mese. C'è chi condanna l'uso di queste sostanze, chi avverte sui pericoli e chi invece sostiene che la società dovrebbe accettarne i benefici, purché sostenuti da ricerche in grado di dimostrarne la sicurezza. Johann Rossi Mason firma la prima inchiesta giornalistica italiana sul potenziamento cerebrale, tra storie, aneddoti e tanta ricerca scientifica.

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Informazioni

Capitolo 1

Una bella mente

Il mito del 10 per cento

Negli anni Ottanta girava un esempio preistorico di fake news o, se vogliamo, una falsa credenza che sarebbe stata sfatata da ricerche successive. Si pensava che noi usassimo solo tra il 10 e il 20 per cento del nostro cervello. La cosa, nonostante fossi poco più che decenne, mi ossessionava, così come il concetto di infinito; sono sempre stata una ragazzina dall’intelligenza poco convenzionale. Non riuscivo ad accettare l’idea di sottoutilizzare delle risorse e mi arrovellavo, sebbene le mie competenze in materia fossero inesistenti, divorando ogni articolo sull’argomento che veniva pubblicato nelle pagine del “Reader’s Digest” sotto alla sua copertina bordeaux.
Figlia desiderata, fui sin da subito oggetto delle attenzioni di una madre piuttosto avanti in termini di strategie educative. Nonostante fossero i primi anni Settanta, mia mamma fece di me una sorta di esperimento di potenziamento inconsapevole. Trascorreva con me la maggior parte del suo tempo e seminava interessi, curiosità e conoscenze. Non lesinava sui libri, spesso inadatti a una bambinetta piuttosto avida; a quattro anni leggevo e scrivevo, cosa che successivamente determinò la mia condanna: troppo avanti per tutti, trascorsi gli anni fino al liceo ad annoiarmi mortalmente e a stremare i miei insegnanti con domande, sfide intellettuali e spesso comportamentali. Mi aveva reso una ragazzina sicura di sé e questo faceva sì che fossi molto sicura delle mie capacità. Schiappa in matematica ma con un discreto talento nella scrittura, fin da piccola leggevo qualsiasi cosa: adoravo Primo Levi, mi beavo con Leopardi; più avanti rimasi affascinata dal diritto, materia nella quale collezionavo voti invidiabili.
Lei mi ha sempre spinto gentilmente, assecondando le mie curiosità. Pur non avendo grandi risorse economiche, non mi ha mai negato un libro; ricordo una libreria enorme, dove i testi erano disposti su più file, una davanti all’altra, fino a non poterli più contenere. La lettura è da sempre la mia passione e la mia ricchezza. Per me il simbolo della vacanza è una borsa che contiene una ventina di libri, pronta per essere portata in campagna. Quando sono in viaggio ho ormai abdicato alla comodità degli e-book.
Ricordo perfettamente una scena: avevo due o tre anni ed ero con mia madre nel corridoio della nostra casa, su un grande e orribile tappeto di lana rosso e nero dove erano sparsi i 33 giri della collezione di musica classica. Lei li metteva sul giradischi e mi interrogava, io riconoscevo autori e talvolta anche i dettagli delle opere, i numeri delle sinfonie. Faceva sembrare tutto un gioco. Intanto, i miei giovani neuroni crescevano come i rami di quelle che sarebbero diventate solide querce. Forse soltanto oggi, scrivendo queste righe, mi rendo conto del lavoro straordinario che ha fatto con me nel corso degli anni, gettando le basi per lo sviluppo di alcune capacità cognitive che hanno contribuito alle mie doti di sintesi, di collegamento e di organizzazione.

Alex

Alex è il nome di fantasia di un neolaureato di Harvard alle prese con il lancio di una start up su internet. La vita del giovane è convulsa di impegni: ricerche, compiti, confraternita, volontariato, il lancio dell’azienda. È quasi impossibile fare tutto. Per provarci serve un aiuto, e quello di Alex si chiama Adderall, il farmaco a base di quattro sali di anfetamina per il disturbo da deficit di attenzione che assume regolarmente. Per assicurarsene una fornitura costante gli è bastato ripetere al medico i sintomi del fratello, realmente affetto dal disturbo noto con l’acronimo ADHD. È un inganno, lui lo sa, ma è anche l’assicurazione, o meglio, l’investimento, per un futuro di successo. L’Adderall rende possibile scrivere dodici relazioni a semestre e rimanere lucido a studiare fino alle tre del mattino. Il mal di testa del giorno dopo è sopportabile, un piccolo obolo da pagare all’efficienza.
Il mix di sali di anfetamine lo aiuta, come molte persone adrenaliniche e ad alto funzionamento cognitivo, a superare i propri limiti fisici, per esempio la stanchezza. Alza l’asticella della fisiologia un po’ più in alto. Alex assume 50 mg di Adderall ogni pomeriggio, dose che gli garantisce una concentrazione pari a quella che avrebbe dopo un sonno di otto-dieci ore. Nello stesso anno ha convinto il suo medico a prescrivergli anche 30 mg di un farmaco a lento rilascio da aggiungere alla prescrizione quotidiana.
Alle sette e mezzo di ogni lunedì assume la compressa a rilascio immediato assieme a una grande tazza di caffè, che lo accompagnerà per tutta la mattina. Mangia poco, infatti è molto magro, nevrile, come molti individui che macinano energia mentale, in parte a causa dell’effetto anoressante del farmaco. Mangia per forza, per mettere “benzina nella macchina”; sarebbe infatti un clamoroso autogol se il corpo cedesse alla debolezza proprio quando la mente ha messo il turbo.
Le persone come Alex sono altamente focalizzate, hanno piani, obiettivi e strategie. Usare l’Adderall non è semplice, non è una scorciatoia. Consente ad Alex di scrivere una relazione per tutta la notte, correggerla e poi inviarla al docente alle otto del mattino, il tutto grazie alla forma di farmaco a lento rilascio che ha preso nel pomeriggio.
Nelle più ambite e selettive università americane, quelle che formano la classe dirigente e l’élite statunitense, la prima lezione che si apprende è che arrivare secondi non è un’opzione. Il tempo poi è drammaticamente poco. Le università portano la competitività all’estremo, chi resiste dimostra di avere i numeri; è una strategia che si basa sulla selezione naturale. L’Adderall è per quelli che chiedono a sé stessi sempre di più e ambiscono ad essere tra i migliori. «Diciamo che permette di fare tutto e al meglio», spiega Alex alla giornalista del “New Yorker” che lo ha intervistato1. C’è anche chi assume il farmaco tentando di recuperare in una settimana ciò che non ha fatto in un trimestre. «Sfigati, non è così che funziona», commenta il ragazzo, «sono gli stessi che mischiano più farmaci per ottenere un effetto ancora maggiore e poi finiscono all’ospedale a causa degli effetti collaterali dati dalle interazioni».
Ma chi sono gli “utilizzatori sani” di Adderall, Ritalin e altri medicinali con proprietà attivanti del sistema nervoso centrale e, in particolare, del cervello?
Sbaglia chi pensa che i nootropici siano richiesti soltanto da studenti ambiziosi o docenti alla ricerca del Nobel. A questa schiera infatti vanno aggiunti tutti quegli adulti che temono di perdere colpi sotto la minaccia costante di ragazzi che oltre a neuroni freschi vantano competenze e stili di pensiero veloci, plasmati come sono da reti neurali, videogiochi e smartphone, dispositivi che sin dalla culla li hanno resi capaci di nuove forme di pensiero, creatività e immaginazione. Molti di questi sono adulti nati nel millennio precedente, appartenenti a un mercato del lavoro incerto e mutabile, che li rende più aggressivi, determinati e talvolta disperati. Così si avvicinano ai farmaci anche cinquantenni spaventati di perdere terreno. Si racconta che il professor Anjan Chatterjee, uno dei massimi esperti dell’argomento, abbia visitato una famosa avvocatessa di Philadelphia, terrorizzata perché non ricordava alcuni nomi e lo implorava di prescriverle qualcosa per la memoria. Non aveva altri problemi sul lavoro, né ulteriori sintomi, ma per chi lavora ad altissimi livelli un deficit anche minimo non è semplicemente ammissibile, e ancor meno prendere atto che il tempo passa per tutti. Sono i professionisti che si occupano dei casi di cui parlano i telegiornali di tutto il mondo, di cause come quelle di O. J. Simpson (l’ex giocatore di football americano accusato di aver ucciso la moglie) o di Oscar Pistorius (l’atleta disabile che ha sparato alla fidanzata), soggetti che sviluppano un’estrema severità condita da palate di senso del dovere. Questo spiega perché i soggetti in fila per una prescrizione siano proprio i baby boomers, la generazione nata tra il 1945 e il 1964, periodo del boom demografico nordamericano. Sono quelli che “sanno” di poter superare la boa degli ottant’anni e non vogliono invecchiare prima del tempo (e, probabilmente, nemmeno dopo).
Siamo quindi approdati nella neuro-società o nella neuro-era? È un dato di fatto: essere lucidi, attenti e produttivi è diventato desiderabile, forse dopo aver constatato che esperienza e saggezza non sono considerate un valore.
Non vogliamo necessariamente diventare più intelligenti (vedremo più avanti perché, in fondo, questo non è un obiettivo raggiungibile), ma sentirci adeguati e migliorare un più generale senso di benessere che deriva anche dal sentirci soddisfatti di noi stessi. Il libro che avete tra le mani riunisce tutte le conoscenze sull’argomento noto come “potenziamento cognitivo”.

Lo studio di “Nature”

È un freddo gennaio del 2007, di quelli gelidi in cui ghiaccia anche il fiume Cam, su cui gli studenti amano fare canottaggio. Siamo a Cambridge, cento chilometri a nord-est di Londra, nella sede di una delle più prestigiose università del mondo. La dottoressa Barbara Sahakian e Sharon Morein-Zamir chiedono ai propri colleghi di rispondere a un questionario sull’uso di farmaci che si presume possano migliorare concentrazione e attenzione. Le due accademiche forse non si rendono conto di come questa iniziativa darà il via a una lunga serie di commenti e articoli. In qualche modo, rappresenta anche il punto di partenza del libro che state leggendo, che ha richiesto alcuni anni di ricerche, letture e studi. I risultati vengono ripubblicati da “Nature”, che a sua volta lancia un sondaggio informale, raccogliendo i commenti di oltre millequattrocento persone in sessanta Paesi. Le domande riguardano tre molecole: il metilfenidato, noto tra gli studenti perché migliora la concentrazione e permette quindi lunghe sessioni di studio; il modafinil, farmaco per trattare la narcolessia e la sonnolenza da apnea notturna utilizzato fuori indicazione (off-label) per rimanere svegli e attenti anche dopo ore di impegno; e un betabloccante, il propranololo, generalmente usato nelle aritmie cardiache e noto per i suoi effetti anti-ansia, viene adoperato da chi vuole combattere i sintomi fisici da paura degli esami e dai conferenzieri che devono affrontare ampie platee.
I risultati del sondaggio sono al quanto sorprendenti: una persona su cinque ammette di aver fatto uso di almeno una molecola per stimolare attenzione e memoria o trovare la calma in situazioni di stress acuto. A seguito della pubblicazione di questi primi dati, Nora Volkow, allora direttore del National Institute on Drug Abuse (NIDA), ne ha quantificato l’uso maggiore nella fascia di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni. Con una preferenza smaccata per il metilfenidato, utilizzato dal 62 per cento del campione, seguito dal modafinil, assunto dal 44 per cento; solo terzo il betabloccante usato per sedare gli effetti fisici dell’ansia. Obiettivo numero uno, riferiscono gli intervistati, è aumentare la concentrazione e combattere la fatica per studiare e lavorare. E per ottenere i benefici si è disposti a sopportare anche qualche effetto collaterale come mal di testa, ansia, insonnia, nervosismo; effetti comunque transitori e reversibili non appena si sospende l’assunzione dei farmaci. Ma quelli che hanno risposto al sondaggio di “Nature” ammettono pubblicamente di ricorrere all’aiutino? No, esiste ancora (e sono passati più di dieci anni) una resistenza culturale ad accettare l’uso di farmaci a questo scopo. Infatti, un terzo degli utilizzatori se li procura in rete (non senza qualche rischio, ne parleremo più diffusamente) oppure ricorre a medici compiacenti e al mercato nero (florido nelle università anglosassoni).
Una parte del questionario è dedicata alle opinioni in merito al fenomeno: il 96 per cento è d’accordo che i farmaci siano utilizzati in soggetti con disturbi neuro-psichiatrici. Il 45 per cento afferma di non avere nulla in contrario all’idea che possano essere usati da persone sane, con un 86 per cento che pone limiti al loro utilizzo soltanto nel caso di ragazzi di età inferiore a sedici anni, in modo da non interferire con lo sviluppo cerebrale, che comunque si completa dopo i ventidue.
Nel sondaggio di “Nature” la maggior parte di quelli che hanno risposto al questionario, ben il 69 per cento, ritiene che l’uso di farmaci per il potenziamento cognitivo dovrebbe essere consentito anche in soggetti sani per ragioni non mediche, e che lievi effetti collaterali siano un rischio accettabile. Certo, parliamo di un pubblico selezionato, che fa parte di una élite accademica, e di intellettuali con un atteggiamento aperto su alcuni argomenti. Ma ci si domanda: se vengono somministrati anche ai bambini e si sono dimostrati sicuri negli studi necessari alla loro immissione in commercio, perché alle dosi corrette e indicate non dovrebbero essere adatti anche a soggetti adulti, purché informati delle indicazioni e degli effetti collaterali? Sulla questione il dibattito etico è ancora vivace.
Sempre in tema di sondaggi, nel 2014 il sito inglese per studenti “The Tab” ha cercato di quantificare il fenomeno modafinil, scoprendo che uno studente su cinque lo ha provato per migliorare i risultati accademici e studiare per più ore. Gli studenti di Oxford si collocano al primo posto tra gli utilizzatori, 26 per cento, seguiti da quelli delle Università di Newcastle e Leeds. L’indagine ha analizzato anche le facoltà in cui i farmaci sono più diffusi: il 23 per cento dei futuri architetti, seguiti dal 23 per cento degli studenti di matematica e legge, mentre a medicina li ha provati soltanto il 12 per cento del campione. Il 42 per cento degli utilizzatori ha provato più di una sostanza. Il 9 per cento ritiene che sia una scorrettezza, ma senza che questo costituisca un deterrente efficace2.
Per molti anni dell’uso di farmaci cognitivi nei sani si è parlato senza reali riferimenti scientifici, ma nel 2014 e nel 2015 arrivano due revisioni sistematiche che mirano a verificarne la reale efficacia e sicurezza. Quella del 2015 conclude che il modafinil migliora la capacità di apprendimento, specialmente nelle sessioni prolungate e complesse, e influenza capacità di decisione e pensiero flessibile. Anche se, viene specificato, non si tratterebbe di effetti eclatanti. Nella stessa classe di farmaci si trova anche l’Adrafinil, un precursore che nel fegato viene convertito in modafinil grazie ad alcuni enzimi. Tuttavia, risulta meno efficace e presenta qualche effetto collaterale in più come ansia, rash cutanei, dolore; per questi motivi viene progressivamente abbandonato sia nella pratica clinica sia nell’uso accademico. L’ultimo nato in ordine di tempo si chiama Armodafinil ed è sviluppato da Cephalon. È un farmaco più “pulito”, efficace e costoso: sostituisce il modafinil, a cui è scaduto il brevetto (oggi in Italia è prodotto da Teva), e che si tramuta nelle versioni generiche Modalert e Modvigil. Per tutti comunque è sempre necessaria una ricetta medica. Chi non ce l’ha deve organizzarsi con la rete e fare i conti con le relative insicurezze di cosa contenga veramente quello che viene acquistato (argomento di cui parleremo diffusamente nell’ottavo capitolo).
Legale e senza obbligo di ricetta è invece il Fladrafinil, che fa sempre parte delle molecole eugeroiche, letteralmente: “farmaci che aumentano la vigilanza e la veglia”. Nelle sue indicazioni è espressamente scritto che l’uso deve essere a breve termine. Più potente di Adrafinil ma meno di modafinil, blocca la ricaptazione di dopamina e norepinefrina nello spazio tra le sinapsi (il punto in cui i neuroni si toccano per comunicare tra loro), aumentandone la quantità e la disponibilità.
Anno Domini 2018: parla di “allarme” il sito italiano “Brainfactor”, che riporta i dati del Global Drug Survey, studio condotto su oltre centomila persone dai ricercatori del Dipartimento di Psichiatria dell’Università della California (San Francisco) in collaborazione con l’Università del Queensland in Australia e l’UCL (University College of London). Dopo la prima pubblicazione sulla rivista “International Journal of Drug Policy”, l’indagine viene commentata addirittura su “Nature”:
Ora che al fenomeno è stato dato un nome (si parla di PCE, acronimo di Pharmacological Cognitive Enhancement, cioè potenziamento cognitivo farmacologico) sembra essere l’Europa a detenere il primato del maggiore incremento dell’uso di stimolanti a effetto brain-boosting, con punte nel Regno Unito, passato dal 5 per cento registrato nel 2015 al 23 per cento rilevato quest’anno, seguito a ruota dalla Francia, attualmente al 16 per cento, contro il 3 per cento di tre anni fa. Gli Stati Uniti restano comunque ancora al comando in termi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prefazione
  5. Capitolo 1. Una bella mente
  6. Capitolo 2. Ogni epoca ha la sua sostanza
  7. Capitolo 3. Rifare il look all’umore e cancellare la paura
  8. Capitolo 4. Memoria e ricordi traumatici
  9. Capitolo 5. Longevi e lucidi
  10. Capitolo 6. Chiamali, se vuoi, nootropici
  11. Capitolo 7. Stili di vita
  12. Capitolo 8. Efficacia sì, ma anche sicurezza
  13. Capitolo 9. Neuroetica: miglioramento e potenziamento non sono parolacce
  14. Capitolo 10. Il futuro
  15. Ringraziamenti