Capitolo 1
La tecnologia che siamo
Tecnica, tecnologia, mediazione e altre etichette
Nel terzo episodio della prima stagione della serie britannica distopica Black Mirror ideata da Charlie Brooker, il protagonista – così come tutti i membri della società in cui vive – è dotato di un dispositivo che gli consente di rivedere, grazie all’innesto biomeccanico che connette occhio e cervello, episodi di vita vissuta nella prospettiva in prima persona. Grazie all’interiorizzazione di una tecnologia, Liam estende le proprie capacità percettive e cognitive. Nella celebre scena del film diretto da Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio, vediamo un monolito alieno ergersi tra una comunità di primati che, in un primo momento, si allarmano muovendosi compulsivamente attorno a esso, oscillando tra paura e curiosità. Poi lo annusano e lo tastano, sperando di comprenderne meglio l’eventuale pericolosità, ma l’enorme fascino che il solido esercita su di loro è troppo forte. Lo circondano estasiati, sembra vogliano possederlo a tutti i costi. A causa di questa esposizione, in seguito a una sorta di interazione alchemica, i primati giungeranno a una nuova forma di consapevolezza, tale per cui nulla del mondo circostante sarà più come prima.
La metafora che l’episodio e il film propongono può essere una buona rappresentazione dell’idea che sarà discussa e difesa in questo libro: la tecnologia non è semplicemente una presenza ingombrante che influisce sulla vita delle persone, ma può diventare in taluni casi una componente costitutiva della cognizione dell’Homo sapiens, come il cervello, il cuore e le mani. I nostri corpi sono biologicamente predisposti a interfacciarsi con l’ambiente circostante e, di conseguenza, con le tecnologie contenute in esso, tramite processi di relazione e retroazione. Queste due possibilità di interazione saranno presentate e discusse in seguito: la tecnologia come insieme di strumenti che estendono (talvolta riducono) la capacità della nostra cognizione (retroazione); e la tecnologia come ambiente originante che obbliga a riconsiderare la nostra stessa nozione di umanità (relazione).
Molto spesso nel linguaggio comune si parla di tecnica, tecnologia, media, dispositivi, strumenti e apparati senza dare troppo peso alle differenze tra questi vari termini che, al contrario, presso gli specialisti rivestono notevole importanza. Kevin Kelly, cofondatore della rivista “Wired USA” e una delle personalità più influenti nell’analisi dei processi tecnologici, per parlare della tecnologia conia un nuovo termine, il technium, che non solo include la cultura, le istituzioni e i concetti filosofici, ma soprattutto «comprende gli impulsi generativi delle nostre invenzioni che stimolano ulteriori produzioni di strumenti» (Kelly, 2011, p. 14). La necessità di creare un nuovo termine è giustificata dal fatto che non esiste una definizione pacificamente accettata di tecnologia, né tantomeno una teoria altrettanto ampia che ne descriva il funzionamento. Dello stesso avviso è Brian Arthur, quando nel cercare un principio che identifichi la tecnologia come processo universale, propone un parallelismo con l’evoluzione biologica, in cui ogni tecnologia sorge per combinazione con altre preesistenti, solo se sussistono nicchie di opportunità in grado di accoglierla (Arthur, 2011, pp. 147-167; cfr. anche Basalla, 1991, pp. 11-44).
Non intendo entrare nel merito delle suddette distinzioni, inoltre non credo che proporre un altro termine possa contribuire a una migliore comprensione del problema. Per questa ragione userò più o meno indistintamente i vocaboli sopra elencati a seconda delle circostanze e delle epistemologie di riferimento. Tra essi, però, un posto di rilievo lo avrà il termine mediazione, usato per indicare il processo tramite cui l’insieme delle conquiste tecnologiche ha progressivamente modificato la relazione ecologica che l’Homo sapiens ha stabilito con il suo ambiente. Generalmente queste conquiste si ottengono mediante due ordini di processi: il dominio di una forza naturale – come la gestione del fuoco o della forza nucleare – e l’invenzione di una specifica tecnica basata sulle conoscenze acquisite – come il cannocchiale, l’automobile o lo spazzolino da denti.
La mediazione pertanto è quel fenomeno che mettiamo in atto naturalmente in quanto esseri viventi e non si esaurisce nell’adeguamento alla natura, ma si fonda su un’interazione protesica tra organismi e mondo. Il termine protesico indica genericamente che il limite che separa gli individui dalle cose è mobile, se non addirittura eliminabile. Per condurre l’analisi in questione – che vuole essere un’analisi mediologica – mi rivolgerò a diversi ambiti del sapere, ma assumerò una prospettiva cognitivista per discriminare la tipologia di relazione protesica che le tecnologie mettono in atto. Nei seguenti paragrafi proverò a illustrare lo scenario di discussione anticipando i concetti chiave del volume.
Corpi cognitivi
Cosa si prova a essere un pipistrello? Non è ciò che si chiede il sempre tormentato Bruce Wayne, ma il titolo di un articolo che ha rivoluzionato la filosofia della mente. Il suo autore, Thomas Nagel (1974), in rottura con il contesto teorico suo contemporaneo, si poneva una domanda legittima alla quale le scienze cognitive non hanno potuto, né voluto in realtà, rispondere per decenni: cosa si prova a fare un certo tipo di esperienza?
La domanda ha avuto un enorme impatto nella comunità filosofica perché, negli anni in cui il cognitivismo si andava affermando come paradigma di ricerca privilegiato per la comprensione della cognizione umana, la metafora ispirata dall’intelligenza artificiale – per la quale la mente sta al software come il cervello sta all’hardware – dominava la scena. Il punto caratterizzante di questa impostazione era quello di concepire la mente come un’entità autosufficiente a cui non serve uno specifico sostrato fisico su cui “girare”, ma che, date le giuste condizioni funzionali, può realizzarsi su qualunque supporto. L’impianto teorico così edificato non ambiva a spiegare quindi il carattere qualitativo e fenomenologico dell’esperienza (il “cosa si prova”), ma soltanto l’architettura funzionale, logica e fisiologica del cervello, descrivibile scientificamente e in terza persona. Per apprezzare il punto, spesso si fa un esempio che compara la digestione con la coscienza: la descrizione dei processi che avvengono durante la digestione è sufficiente per produrre un modello interpretativo del fenomeno, ma la stessa descrizione, quando applicata alla mente umana, lascia fuori qualcosa.
Per capire quanto questo qualcosa sia irrinunciabile proviamo a rispondere alla domanda posta da Nagel. Potremmo dire che a essere un pipistrello si prova una specie di cecità oculare, bilanciata però da un sistema di ecolocalizzazione; potremmo immaginare di dormire a testa in giù e di mangiare insetti; e poi, ovviamente, potremmo immaginare di volare ecc. Questo breve viaggio introspettivo dentro la quotidianità del pipistrello dimostra due cose: la dettagliata conoscenza che la scienza ha del funzionamento della vita di un pipistrello e la totale inutilità di questa conoscenza per soddisfare i nostri processi di immedesimazione. Per quanto tutto ciò che abbiamo detto su cosa si prova a essere un pipistrello sia scientificamente descrivibile e conoscibile, noi non possiamo mai abbandonare il nostro punto di vista e assumere quello del pipistrello. Il punto di vista dà luogo alla particolare prospettiva incarnata che tutti noi assumiamo non solo perché abbiamo un grosso cervello, ma perché abbiamo un corpo fatto in un certo modo. Ecolocalizzare, dormire a testa in giù, mangiare insetti e volare sono cose che possiamo immaginare esclusivamente sottostando alle condizioni del nostro corpo, che è munito di occhi, fatto per stare con la testa in su, pesante e onnivoro. Sorprendentemente, alle scienze cognitive classiche non importava affatto sapere cosa si prova a essere un pipistrello (o un essere umano), perché la sensazione soggettiva che accompagnava i processi mentali era un effetto di scarso rilievo (anzi forse di disturbo) per la comprensione dei meccanismi logico-computazionali che sovrintendevano quella sensazione, l’unico oggetto di indagine di reale interesse.
Nagel quindi lancia la sfida al paradigma: se le scienze cognitive non sono in grado di spiegare il carattere soggettivo dell’esperienza, allora ci dev’essere qualcosa che non va nelle scienze cognitive. È molto interessante notare come la proposta di Nagel arrivi in un momento in cui davvero in pochi – nell’ambito delle filosofie anglosassoni – pensano di porre tale problema. Tanto è vero che anche il repertorio di termini che il filosofo americano usa per argomentare a favore della sua tesi è pressoché limitato al concetto di punto di vista: «Qualunque sia lo stato dei fatti su cosa si prova a essere un essere umano, un pipistrello o un marziano, questi sembrano essere fatti che incarnano [embody] un particolare punto di vista» (Nagel, 1974, p. 441, traduzione e corsivo miei). Subito dopo, Nagel chiarisce che lui non si sta riferendo al punto di vista di una persona in particolare, ma al fatto che certe caratteristiche fenomenologiche sono condivisibili tra esseri sufficientemente simili tra loro. Sul finire del saggio, il filosofo prova a convincerci che solo lo sviluppo di un nuovo metodo, quello che definisce una «fenomenologia oggettiva», potrebbe risolvere il compito di «descrivere, almeno in parte, il carattere soggettivo delle esperienze in una forma comprensibile agli esseri incapaci di fare quelle esperienze» (Nagel, 1974, p. 449, traduzione mia).
Un approccio fenomenologico alla cognizione umana, sviluppato in Germania e in Francia da Edmund Husserl, Martin Heidegger e Maurice Merleau-Ponty, era già da tempo disponibile su piazza, ma non contemplava le limitazioni del metodo scientifico, aspetto necessario all’impresa del paradigma cognitivista che voleva comunque imporsi anche al di là del dominio puramente speculativo. L’auspicio di Nagel – nonostante l’apparente incolmabile abisso che separa il soggettivo dall’oggettivo, la qualità dalla quantità – comincia a prendere forma dai primi anni Novanta del secolo scorso, poiché l’atteggiamento nei confronti della cognizione ha subito una forte rivisitazione epistemologica. Tale svolta filosofico-scientifica ha avuto come esito la concezione di una cognizione incarnata (embodied cognition), per la quale la mente non è concepibile filosoficamente senza un corpo che la completi costitutivamente. In altre parole la cognizione non può essere compresa a fondo se si lasciano da parte, nella dinamica dell’indagine speculativa e scientifica, le limitazioni e le possibilità forgiate dal corpo.
Mi affiderò dunque a questa integrazione concettuale per descrivere il rapporto tra corpi e tecnologia. Come vedremo, l’integrazione è un processo in atto che ha avuto numerose etichette (cfr. cap. 3), ma che molto probabilmente è stato in gran parte ispirato dall’opera del biologo, neuroscienziato e filosofo cileno Francisco Varela. A partire dalla visione filosofica di Maurice Merleau-Ponty, egli ha incessantemente promosso una naturalizzazione della fenomenologia (Varela, 1996; Petitot et al., 1999; Cappuccio, 2006; e cfr. Fugali, 2016) che risolvesse il grande problema delle scienze cognitive, cioè il problema mente-corpo. L’orientamento fenomenologico è oggi largamente utilizzato nel dibattito cognitivista (Gallagher e Zahavi, 2009) e non solo in relazione al pensiero di Merleau-Ponty, ma anche a quello di Martin Heidegger (Kiverstein e Wheeler, 2012). Anzi, la cognizione incarnata a vocazione fenomenologica si presenta come il paradigma di riferimento nelle scienze cognitive. Per accentuare provocatoriamente lo spostamento di attenzione dal cervello al corpo, possiamo invertire i termini della embodied cognition e riferirci ai nostri corpi come cognitive bodies: non è la mente a essere incorporata, sono i corpi dell’Homo sapiens, tra tutti quelli presenti in natura, a essere particolarmente cognitivi.
Ecologisti per necessità
La svolta incarnata porta con sé alcune implicazioni filosofiche che, nel corso del tempo, hanno generato vere e proprie diramazioni concettuali, fortemente affini al nucleo base che vede la corporeità al centro della spiegazione, ma che includono l’agentività e l’ambiente come elementi altrettanto rilevanti. Corpi che agiscono in un ambiente, dunque. Sempre di più, però, l’ambiente non è un adamitico giardino, anzi mostra infinite possibilità di alterazione dovute alla presenza di tecnologie. Per essere più precisi, a dire il vero, il rapporto tra ambiente e tecnologie non è di tipo gerarchico, ma paritario e interscambiabile: così come l’ambiente può essere tecnologicamente mediato, allo stesso modo i media possono essere ambientali. Per farci un’idea di questo scenario pensiamo alle nuvole... Hanno sempre fatto parte dell’ambiente come entità naturali, ma da qualche tempo le nuvole (clouds) sono anche ambienti artificiali che ospitano pezzetti della nostra vita. La nuvola si candida allora come rappresentante del complesso rapporto tra ambiente e tecnologie che è possibile sintetizzare con il termine ecomedia (Ecomedia): i processi di mediazione funzionano al meglio quando il medium – quella cosa che si chiama così perché sta nel mezzo tra noi e il nostro ambiente – in realtà sparisce, si fonde con noi o con lo spazio attorno a noi. Questa situazione di indistinguibilità è ben descritta da Ruggero Eugeni (2015a), tramite il riferimento al film Avatar: in esso vediamo una tecnologia trasfigurata in natura, ovvero una tecnologia perfettamente integrata tra corpi e ambiente circostante che non si manifesta per differenza dal mondo, ma è quello stesso mondo.
Per capire davvero come funziona la cognizione umana, non basta uscire dal buio pesto della scatola cranica e coinvolgere l’organismo, ma compiere un passo in più e considerare come altrettanto costitutivo l’ambiente ecomediale in cui tale organismo agisce, non solo nel senso ovvio in cui si può immaginare – per cui l’aria, la luce solare, l’acqua e il cibo siano condizioni essenziali per l’esistenza –, ma in un senso più direttamente esprimibile dall’assunto per cui l’esperienza è innanzitutto azione. Ora, che l’ambiente sia importante non lo nega nessuno, ma il grado di importanza che gli scienziati cognitivi sono disposti ad attribuirgli caratterizza le diverse anime presenti nella galassia degli orientamenti cognitivisti a vocazione incarnata. Nel dibattito contemporaneo questa diversità viene identificata dalle cosiddette 4E della cognizione. Oltre che embodied (incarnata), la cognizione può essere extended (estesa), embedded (integrata) ed enactive (enattiva). A parte la prima E, che abbiamo visto nel precedente paragrafo, le altre si distinguono precisamente per il grado di rilevanza che l’ambiente ecomediale riveste nel farsi della cognizione.
Partiamo dall’ultima delle E. Per l’enactive cognition (enattivismo) la cognizione si realizza tramite l’interazione di un cervello dotato di un corpo che agisce in un contesto ecologico, il quale costituisce la terza parte di un sistema: l’ambiente – e di conseguenza i media contenuti in esso – svolgono quindi un ruolo costitutivo per la cognizione. Per i sostenitori dell’embedded cognition, invece, l’ambiente svolge solo un ruolo causale o di supporto alla cognizione, che rimane confinata nel cervello e nel corpo. La distinzione può apparire triviale se non si apprezza il cuore della disputa. Per farlo bisogna considerare che embedded ed enactive cognition sono risposte – reazionaria la prima, radicalizzante la seconda – alla più pionieristica tra le filiazioni della svolta embodied: la cosiddetta extended cognition. La mente può estendersi fuori dal corpo a patto che un dispositivo tecnologico – poniamo, una calcolatrice – svolga una funzione che, se avvenisse nel cervello, non avremmo nessun problema a definire come cognitiva. Tratterò diffusamente le 4E nel terzo capitolo e proverò a spiegare perché, dopotutto, di quelle su piazza ce ne bastino solo due (ma non di meno) per dare conto del modo in cui avviene la mediazione tra corpi e tecnologie.
La caratteristica peculiare dell’Homo sapiens è di essere un animale specializzato in nulla (L’animale sprovvisto ma non sprovveduto), che deve quindi provvedere alla sua sopravvivenza intervenendo drasticamente sull’ambiente che lo circonda. La peculiarità di questo modo di operare, però, è che gli interventi attuati producono effetti di ritorno sulla sua fenomenologia, che mostrano caratteristiche uniche rispetto a qualunque altra specie vivente (Ihde e Malafouris, 2018). Come cercherò di dimostrare, non si tratta di un’affermazione antropocentrica, ma il convinto esito speculativo di un’analisi interdisciplinare che considera gli ecomedia non soltanto il prodotto dell’attività cognitiva, ma anche la sua causa.
Dopotutto, questa ipotesi ha una storia venerabile che cercherò di ricostruire, in maniera certamente parziale, nel secondo capitolo. Un posto di rilievo spetta a John Dewey, estetologo ed esponente di spicco del pragmatismo americano, ma l’aspetto fortemente interdisciplinare che caratterizza l’approccio di questo lavoro è ben rappresentato da un altro campo di indagine a cui farò riferimento: l’ecologia dei media. Questa impresa epistemologica ormai quasi secolare, la cui storia è stata raccontata per la prima volta al lettore italiano da Paolo Granata (2015), racchiude in sé le caratteristiche speculative necessarie ad afferrare e descrivere i concetti chiave. Prima di tutto, l’ecologia dei media non è un’area di studi unificata, ma conta al suo interno autori, metodi e scuole diversi tra loro. Sebbene la grande concentrazione di studiosi appartenenti a questo settore si sia trova...