Immagini VS Parole
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Immagini VS Parole

Scrivere e progettare il messaggio pubblicitario

Davide Bertozzi

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  1. 192 pagine
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Scrivere e progettare il messaggio pubblicitario

Davide Bertozzi

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Informazioni sul libro

Un altro libro di scrittura creativa? Non proprio, Immagini VS Parole è un manuale di scrittura pubblicitaria. Una vera palestra dove mettersi alla prova e allenare il pensiero laterale. Perché la creatività non è una lampadina che si accende o si spegne

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2021
ISBN
9788836004034
Argomento
Business

Quando scriviamo, inevitabilmente, disegniamo. Solo che non ce ne rendiamo conto.

Due strumenti antichi che non passano mai di moda

L’inizio del viaggio

VADO SUBITO AL PUNTO: le parole sono immagini, e le immagini sono parole. Questo libro potrebbe anche finire qui, con un grazie, un arrivederci e i ringraziamenti.
Tutto quello che trovate nelle prossime pagine è un approfondimento di questa affermazione apparentemente azzardata e molto, molto generica.
Tra immagini e parole c’è un antico rapporto di coppia, burrascoso e simbiotico come quello tra art director e copywriter, la vecchia coppia creativa; qualcuno dice che sia morta, altri dicono che non sia più una coppia ma una cosa a tre, o a quattro, dove altre figure professionali intervengono con una certa rilevanza. Ora, non è importante capire se le persone che mettono mano al processo creativo siano due o venti, quello che davvero conta è il modo in cui si dispongono immagini e parole: come si soppesa il loro ruolo all’interno di un messaggio pubblicitario e come, insieme, creino un’anomalia comunicativa, qualcosa che lampeggia e vibra alla stessa frequenza con cui vibrano le corde emotive del pubblico.
È una questione di significato e di significante. E credetemi, è un lungo viaggio attraverso i mari burrascosi della comunicazione, dove immagini e parole si tamponano, si sovrappongono e, di tanto in tanto, si scambiano di ruolo. È un viaggio bellissimo e senza fine, perché le epoche e le tecnologie rimescolano continuamente le carte in tavola, inserendo nuovi attrezzi del mestiere che rafforzano quelli più antichi e indispensabili; immagini e parole, appunto.

Un’immagine vale più di mille parole, sicuri?

Se volete spezzare il cuore di un copywriter usate pure questo luogo comune che, esattamente come tutti (o quasi) i luoghi comuni, è un’inutile scappatoia dalla realtà.
Tecnicamente, le immagini non valgono affatto più delle parole perché le parole stesse sono immagini. Mi spiego.
Il fatto che esistano tante font è un chiaro indizio che c’è qualcosa di visivo nella scrittura: alcune sono più adatte alla lettura su formati digitali e altre a quelli cartacei, o talvolta alcune risultano più delicate (ideali per messaggi soft) e altre più incisive e appariscenti (ottime per comunicazioni vivaci); ma possono anche essere sobrie, leggere, eleganti, sottili eccetera, dipende dal contesto.
Sempre riguardo le font, pensiamo anche ai loro pesi: dai classici regular, italic e bold, alle alternative thin, book, heavy e ultra. Perché tutte queste distinzioni? Semplice: perché le parole sono immagini, e viceversa. Una parola in italic comunica qualcosa di completamente differente da una in bold. I loghi di Formula 1 e MotoGP, scritti in italic, trasmettono l’idea di movimento e velocità. Le parole sono immagini, dicevo.
Senza dimenticarci poi dei grassetti, che fungono da segnali visivi, luci che richiamano l’attenzione. Sono sempre parole, riempite con un po’ di inchiostro in più; quindi parole trattate graficamente. Ma andiamo più a fondo.
Pensiamo alla delicatezza di una scritta piccola piccola, magari un “mi manchi” in un foglietto di carta, o all’impeto di una frase scritta in grande, magari in stampatello, come “TI ODIO”. La prima è quasi un sussurro, la seconda, un tuono. La proporzione tra le dimensioni dei testi e quelle del layout è decisiva per la codifica del significato. Un testo che occupa tutto lo spazio disponibile risulta forte, urlato. Un testo di modeste dimensioni rimane più delicato e cortese. Per esempio, in un biglietto da visita la dimensione del nome è rilevante: se scrivo “Davide Bertozzi, copywriter”, in piccolo, al centro, è una cosa, se scrivo le stesse parole riempendo tutto il layout del biglietto, è tutt’altro, un urlo.
Figura 1.1Il biglietto da visita in due diverse versioni: una urla, l’altra presenta.
Il fatto è che quando scriviamo, inevitabilmente, disegniamo. Solo che non ce ne rendiamo conto. Ma vi dirò di più: il modo in cui scriviamo-disegniamo dice molto di chi siamo veramente e delle nostre intenzioni. Penso alla calligrafia ignobile di alcuni medici, quella che pare una linea unica con sottili ondulazioni e qualche puntino qua e là. Trasmette malavoglia, disinteresse, noncuranza, noia.
Pure la decisione di scrivere un titolo in grande, di evidenziarlo, posizionarlo in un punto particolare del foglio è una scelta visiva che distingue immediatamente una particolare sezione di testo (il titolo, appunto). Proprio come le didascalie, piccole, a volte in italic, presentate così affinché il lettore ne riconosca l’identità. Le scelte di forma e stile, dunque, comunicano sempre qualcosa.
La giustificazione e l’orientamento del testo possono inoltre agevolare o complicare la lettura, e possono pure spaventare il pubblico se non curate a dovere. Spetta a noi scrivere-disegnare nel modo corretto per ogni occasione, ogni medium e ogni destinatario. Ma di tutte queste cose, font, grassetti, giustificazioni (e tanto altro) parleremo meglio nelle prossime pagine, spiegando caso per caso come cambia il senso della comunicazione in base a come presentiamo i contenuti.
Parleremo anche di direzione, perché la comunicazione ha sempre una direzione, sempre, e anche di scrittura essenziale, ovvero l’attività di pulire, tagliere e gettare via tutto il superfluo per ottenere un concetto semplice e brevissimo; un concetto basico che non dia scampo a errate interpretazioni, il punto di partenza perfetto per intraprendere un progetto creativo.
Sarà un viaggio bellissimo.

Il messaggio pubblicitario

Le parole possono essere usate per molti scopi: salutare, raccontare, stuzzicare, ferire, incolpare, incantare, ricevere applausi, convincere e ovviamente vendere. Ci sono metodi, tecniche e strumenti per riuscire in quest’ultimo intento, e sono richieste, come in ogni mestiere, tenacia e perseveranza. Trucchetti no, quelli proprio non esistono; di solito chi promette trucchi e scorciatoie non conosce davvero il mestiere o non lo prende abbastanza sul serio o, peggio ancora, sta cercando di ingannarvi. Accade eccome. I risultati veri si ottengono con l’onestà e la fatica, e noi comunicatori, copywriter, art director, direttori creativi, marketer, abbiamo il compito di convincere le persone ad acquistare prodotti e servizi che risolvono problemi, rispondono a bisogni, rendono felici, e gli strumenti che abbiamo a disposizione sono immagini e parole. Poi certo, ci sono i dati analitici, le ricerche, le tecnologie, l’intelligenza artificiale, discipline collaterali e altre diavolerie. Ma quando ci presentiamo al nostro pubblico, tramite qualunque medium, siamo sempre lì con le sole immagini e parole. Il modo in cui le disponiamo, con l’intento di stimolare un bisogno nella mente del consumatore, e il modo in cui cerchiamo di avvicinare le persone alla marca definiscono il messaggio pubblicitario.
Può bastare anche solo una frase, un’immagine, qualcosa che racconta quello che un prodotto può fare o il miglioramento, la sicurezza e la tranquillità che un servizio può apportare alle nostre vite; a volte basta un buon packaging e un corretto posizionamento sugli scaffali, o magari la scritta “100% bio”, o una copertina, un hashtag, o uno sconto, perché no. Ma per vendere e rivendere, per conquistare e coinvolgere il pubblico, diventa indispensabile lavorare sull’intero tessuto del brand: l’identità, la reputazione, gli immaginari e gli ideali da trasmettere. È un lavoro a più livelli dove più figure professionali collaborano per il ricamo di un messaggio ambizioso: “scegli me”.
Immagini e parole, insieme a suoni, animazioni, racconti, dati e quant’altro, costruiscono un unico grande messaggio che si può declinare in più canali, cartacei e digitali. Un messaggio carico di significato, di narrazione e di tutti gli elementi che definiscono la marca. Quest’ultima è il garante, un simbolo che definisce chi siamo in base a quello che scegliamo. Una marca è la credibilità da cui nascono le campagne pubblicitarie. È il dietro le quinte che garantisce la riuscita dello spettacolo.
Una marcaè la credibilità da cui nascono le campagne pubblicitarie.
Uno spot TV ha bisogno di una credibilità alle spalle esattamente come ne hanno bisogno uno spot radio, un manifesto o una campagna sui social network. Ogni messaggio necessita di una marca non solo per esistere, ma anche per avere una ragione di vita.
Tengo a precisare questo tema perché nei prossimi capitoli ci concentreremo su come scegliere e disporre gli elementi della comunicazione con l’obiettivo di convincere il pubblico a sceglierci; ecco, è bene ricordare da subito che tutta la nostra creatività, tutta la nostra maestria nello scrivere e progettare non serve a nulla se poi non ci sono reputazione, credibilità, etica, sicurezza, conoscenza, se dietro un annuncio non c’è qualcuno pronto a metterci la faccia e a spiegare perché fa quello che fa.
Quando ci sono questi presupposti, il messaggio pubblicitario ha tutte le carte in regola per raggiungere l’obiettivo per cui è nato. E possiamo iniziare, ora, a innescare il nostro processo creativo.

I pubblicitari sono cacciatori di anomalie.

Il messaggio creativo è quello che funziona

Siamo qui per vendere, non per far divertire

NON SIAMO TUTTI SIMPATICI. A qualcuno le battute proprio non riescono. Talvolta possono pure sembrare inappropriate, forzate, inutili. C’è questo luogo comune che la creatività debba per forza far sobbalzare il pubblico sulla sedia o innescare un immediato effetto wow! O, perché no, far proprio sbellicare dalle risate. Molti definiscono “creativa” una soluzione che scatena un’emozione positiva, solitamente una risata o un sorriso, qualcosa di felice insomma. Questo pensiero, condiviso da tanti, è in realtà un limite. La creatività è molto di più. È un processo, un’anomalia visiva, un concetto che va oltre quello che si vede o si legge; e magari non fa ridere ma stimola sentimenti avversi, come il disgusto, il dispiacere, la rabbia, la compassione, la vicinanza, l’amore, l’affinità con qualcosa o qualcuno.
E poi c’è l’identità della marca. Un’azienda che ha sempre comunicato con tono solenne e istituzionale può pubblicare messaggi creativi senza ricorrere a toni incoerenti o scherzosi. Il tono di voce divertente e sopra le righe di Ceres e Taffo ha fatto credere a tanti che quello fosse il modo giusto di scrivere la comunicazione social. E invece quello è il metodo giusto per Ceres e per Taffo, perché lo hanno scelto e adottato prima di altri. Chi li ha copiati ha perso pezzi di identità, e quelli, credetemi, sono difficilissimi da ritrovare e incollare.
Lavorare in pubblicità significa costruire narrazioni coerenti e promesse coinvolgenti.
Lavorare in pubblicità significa costruire narrazioni coerenti e promesse coinvolgenti. L’ironia non è l’unica chiave. A volte funziona, a volte no. E come in molte situazioni della vita, c’è più di un modo. È il modo in cui diciamo le cose che ci differenzia e ci rende unici: possiamo essere seriosi, disperati, supplichevoli, sarcastici, colloquiali, onirici, amichevoli. C’è più di un modo, e ognuno ha il suo.
Quello che accomuna le diverse strade creative è sempre la chiarezza del messaggio.
Quando siamo esaurienti e precisi diventa più semplice riuscire nei nostri intenti commerciali. Diventa più semplice, soprattutto, raccontare la nostra anoma...

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