parte quarta
Italiani o europei?
«L’Europa è uno specchio dell’Italia e l’Italia racchiude l’Europa. Per capire l’una bisogna guardare l’altra.»
Deanice
Ex sarta – Cesano Maderno (mb)
12. La mia Europa
Una specie di autobiografia
Per me, l’Europa è sempre stata casa. Con il sangue italiano, olandese e scozzese (e chissà cos’altro, andando indietro nel tempo), già da neonata giravo tra il Belgio, l’Inghilterra e la Francia per incontrare la famiglia sparsa nelle capitali europee. Non è un caso che le mie prime frasi siano state un confuso miscuglio di lingue comprensibile solo per me.
Tra i vari viaggi, andavo spesso a Bruxelles a trovare i nonni. Devo ammettere che ho da sempre avuto un debole per il mio nonno paterno, «Opa» («Nonno» in olandese), e lui per me – o almeno credo: ogni cosa che mi raccontava mi sembrava speciale. Era stato un avvocato di successo, tra i fondatori della Comunità europea del carbone e dell’acciaio a Parigi negli anni cinquanta fino a diventare direttore di un dipartimento legale nella Commissione europea. Era un appassionato di libri, di arte e di mobili antichi (oltre che di donne, ma questo è un capitolo che è meglio non aprire in famiglia). La vista dell’appartamento in cui viveva con mia nonna, al dodicesimo piano, dava sul Parc du Cinquantenaire ed era proprio davanti all’edificio della Commissione europea; affacciati al balcone, mio nonno indicava spesso a me e mio fratello l’ufficio dove un tempo lavorava: «Era più bello di ora» ci diceva «avevo una grande scrivania di legno, poltrone di pelle marrone chiaro e quelle lampade verdi da biblioteca. Con questi lavori di modernizzazione hanno rovinato tutto».
Il loro appartamento a me sembrava quasi un castello. Venendo da una casa in un centro storico italiano, con una camera da letto piccola e un po’ buia dove entravano solo il letto a castello per me e mio fratello e un armadio in comune, le loro stanze grandi e luminose, i loro multipli bagni addirittura con le vasche, i corridoi e gli atri ricolmi di statue e volti che mi fissavano dai quadri antichi, mi facevano sentire in un mondo diverso.
Seduti attorno a questo grande tavolo tondo di legno su delle poltrone in velluto color salmone, durante le cene nostro nonno ci raccontava delle sue avventure in tempi di guerra: dalla resistenza in Olanda alla prigionia in Germania, dalla sua fuga attraverso i fiumi per ritornare a casa alla sua felicità quando è tornata la pace ed è nata l’Europa unita. Quando eravamo più famiglie e cugini, ripeteva il racconto tre volte; in inglese per me, mio fratello e i miei cugini di Londra, in francese per i miei cugini parigini e in olandese per i cugini di Bruxelles. Le vacanze erano sempre un misto continuo di parole da lingue diverse, tra gli adulti, e di comunicazione a gesti tra noi bambini che non sempre avevamo una lingua in comune.
Dopo cena, io e mio nonno di solito ci mettevamo a guardare i suoi libri antichi, del Seicento e del Settecento, che teneva in una libreria gigantesca di legno scuro. I libri erano fragili: bisognava girare ogni pagina con grande delicatezza, ma erano pieni di post-it gialli con i suoi appunti; Opa se li era letti e studiati nei minimi dettagli. C’erano mappe che mostravano come l’Europa fosse cambiata nel tempo, e gli autori raccontavano gli accordi e le liti tra i vari re, le rivolte e la nascita di nuove forme di governo, fino ad arrivare alla democrazia. Mi sentivo così speciale e fortunata nello sfogliare le pagine che scricchiolavano, a prenderle tra le dita, veri pezzi di storia, seduta accanto a lui a vedere le sue mani rugose e a volte tremanti girare i fogli e a sentire la sua voce mentre cercava di trasmettermi la sua passione.
La mia Europa nasce da qua: da questa famiglia intrinsecamente europea, con culture e modi di fare diversi che dovevano trovare un compromesso e un modo di comunicare attorno al tavolo da pranzo e nei giochi; da questo nonno che mi ha trasmesso la sua passione per il nostro continente e per il progetto dell’Unione Europea, per quei valori di pace, quei diritti e quella democrazia per cui lui si era tanto battuto.
Ecco perché le mie radici hanno un legame così stretto con l’Europa e la sua unione, e perché ai miei occhi non c’è mai stata un’altra strada che vederla come un dato di fatto, una cosa scontata; e di avere la certezza che l’Italia ne avrebbe sempre fatto parte, come il basamento di un edificio, che non può essere rimosso.
È proprio per questo che negli anni è stata per me una sorpresa continua capire che per altri l’Europa potesse essere qualcosa di diverso, meno concreto e meno certo. Da bambina, la maggior parte dei miei amici la vedeva come una cosa lontana, che li incuriosiva ma non gli apparteneva. I primi giorni di ritorno a scuola mi facevano un sacco di domande sulle mie estati all’estero: «Hai incontrato i Backstreet Boys?», «Hai giocato con Minnie e Topolino?» come se andando a Londra o a Parigi fosse automatico incrociare i nostri idoli per strada. Vedevo i miei amichetti ammaliati da questo mondo estraneo, ed ero confusa (e lusingata) dal fatto che per loro le mie vacanze europee fossero in mezzo al mondo dei fumetti, dei cd e della tv – mondo che ovviamente anche io sognavo – e non in quello reale, con i miei zii e cugini, con le liti e le risate, il divertimento e la noia, come in ogni altra famiglia.
Poi, gli amici nella loro relazione con l’Europa si sono divisi in due grandi gruppi. Ci sono quelli che sono partiti all’estero per l’Erasmus o per lavoro e hanno d’un colpo scoperto questa dimensione europea: alcuni se ne sono innamorati, catturati dal senso di autonomia, di opportunità, di scoperta, e da un modo di lavorare e pensare diverso, tanto da iniziare a sentirsi più europei che italiani; altri, invece, si sono divertiti, sono cresciuti, ma hanno provato presto o tardi nostalgia dell’Italia, dei nostri valori e del nostro modo di vivere, e sono tornati qua più coscienti di prima dei motivi per i quali amano il nostro paese e di cosa bisogna cambiare.
Poi però c’è un secondo gruppo di amici per i quali ancora oggi l’Europa è qualcosa di evanescente: per alcuni è solo una destinazione di vacanze, una serie di capitali tra le quali spostarsi godendosi la libertà di movimento e la facilità che sia tutto in euro, ma non rappresenta molto di più di questo; per molti invece, nemmeno questo, le vacanze rimangono rigorosamente in Italia e, se proprio si parte, si fa il viaggio della vita alle Maldive o a Zanzibar, naturalmente assieme a una marea di altri italiani. Per via di un inglese che si limita spesso a «the cat is on the table», quest’ultima categoria di amici ha difficoltà a districarsi in questo continente multiculturale, a godersi la sua diversità e a farsi amici stranieri. Per loro la dimensione europea è qualcosa di distante, lontanissimo: ne sentono parlare in tv ma gli è difficile capire cosa è e come funziona, perché esiste e perché deve essere protetta. Restano comunque curiosi, mi chiedono com’è la vita fuori, come funzionano i servizi, come funziona la meritocrazia, come stanno i giovani. Anche per loro, che la conoscono o capiscono poco, l’Europa rimane ancora un termine di paragone e di riferimento.
Tramite i miei amici ho pian piano capito che la «mia» Europa è solo una delle miriadi di visioni possibili della nostra comunità di stati; e tra l’altro i miei amici rappresentano solo uno spicchio delle molteplici visioni esistenti.
Il senso di Europa cambia da una storia di vita all’altra e, durante il mio viaggio, ho potuto catturarne varie sfaccettature. Come le mille sfumature di italianità, ci sono infatti mille sfumature di come la gente percepisce (o no) anche questa identità europea. Nei prossimi capitoli ne racconterò qualcuna.
13. Europa significa casa
Un cappuccino a Trieste
È una mattina fredda di dicembre. Il vento soffia forte e un odore di mare e di barche attraversa le stradine di Trieste. Il cielo è limpido e all’angolo tra due vie trovo un bar con una terrazza al sole, riparata dall’aria gelida. Mi siedo, ordino un latte caldo con la schiuma e una brioche vuota – dopo aver imparato che «cornetto semplice» non vuol dire nulla al Nord Italia – e inizio a chiacchierare con una signora anziana seduta al tavolo accanto, anche lei da sola. Ha un look che non esito a definire «chic», con i capelli corti e biondi, gli occhiali da sole larghi e un cappotto elegante nero; mi racconta della città, del suo essere intrisa di un misto tra l’Italia e l’Est europeo, del clima che c’è tutto l’anno e del fatto che, rispetto ad altri giorni, mi è andata bene: «Di solito la Bora è molto più forte. Si vede lontano due miglia che non sei di qua e che non hai la pelle spessa».
Poco dopo arriva un amico della signora, lei gli sorride e ammicca: «Non ho ancora pagato la colazione, lo fai tu?». Lui la guarda con uno sguardo affettuoso e senza dire niente entra a saldare il conto. La signora mi spiega sussurrando che è un «amico speciale»: «Alla nostra età da ottantenni non si dice fidanzato ma insomma, ci teniamo compagnia. Lui è così gentile, mi offre sempre la colazione e poi andiamo a passeggiare a braccetto – così ci teniamo in forma».
Mentre mi racconta della sua love story arriva un ragazzo moro e dall’aria seria, più o meno della mia età, che si siede al tavolo accanto al nostro. Non fa neanche in tempo a sedersi che la signora gli dice: «Anche tu non sei di qua». Con lo sguardo confuso lui risponde che è in visita per un paio di giorni, poi si chiude il cappotto e apre il suo libro per farci capire che ha voglia di stare per conto suo. «Farsi due chiacchiere non ha mai ucciso nessuno» gli dice la signora divertita dalla sua timidezza, poi mi saluta con un sorriso caldo e riparte per la sua passeggiata con il moroso.
Così io mi giro verso questo ragazzo, che non aveva osato alzare lo sguardo finora per timore di ricevere altre domande dalla signora, e gli chiedo se vorrebbe far parte di questa mia ricerca sull’identità italiana: «Ma io mi sento europeo, non mi sento più italiano» mi risponde a sorpresa per cercare di tirarsi fuori, con l’effetto opposto di incuriosirmi ancora di più.
Olmo si presenta e infine cede alla mia richiesta. Seduto a sorseggiare il suo cappuccino, mi spiega che è arrivato la sera prima per una conferenza su Petrarca, «Ma sono originario di Urbino e vivo da vari anni in Inghilterra, dove sto conseguendo il mio dottorato in Italianistica». È chiaramente un introverso e inizia a parlarmi manifestando diffidenza. Con i capelli neri e ricci, gli occhiali, la carnagione chiara, le guance tonde e un cappottone di lana, è lo stereotipo di un dottorando che passa le sue giornate sommerso dai libri.
«Quando mi parli di identità italiana, a me viene in mente il niente. Il nulla più totale» mi dice senza nessuna esitazione. «Se pensi alla famiglia, allo stare in compagnia… è tutta una farsa. La verità è che le relazioni vere e profonde sono difficili da costruire in Italia e la solitudine è il miglior amico della maggior parte degli italiani. Poi ti dici che per lo meno siamo un paese accogliente… e invece no, guarda come abbiamo trattato i migranti – e meno male che siamo un paese cattolico, dove si dovrebbe aiutare il più debole. Dei veri ipocriti, ecco cosa siamo!» dice con uno sguardo duro. «Quindi neanche la solidarietà è più parte della nostra identità, è stata scardinata come tutto il resto. Cosa ci rimane?» mi chiede con un tono deluso, abbattuto.
Morde il suo cornetto ancora caldo e io ne approfitto per addentare il mio. Tutti e due con la bocca piena, ci facciamo il gesto di aspettare un attimo, ma Olmo manda giù in fretta il boccone e ricomincia a parlare. Io allora con la bocca ancora piena mi affretto a riprendere in mano penna e appunti, mentre lui continua a dirmi la sua, lasciandosi dietro ogni timidezza: «Io ho abbandonato l’idea dell’Italia, la speranza che migliori, o quella di tornare. Mi sono rimboccato le maniche e mi sono fatto una nuova casa, come centinaia di migliaia di giovani italiani: l’Europa. “Casa” per me deve essere un posto dove mi sento bene, dove sono libero di essere me stesso senza essere giudicato tutto il tempo. Dove mi vengono date opportunità e dove la gente crede in me, dove ho voglia di passare il mio tempo e magari crescere un giorno dei figli. L’Europa mi dà tutto questo. Qua, posso vivere e lavorare in paesi diversi, in ambienti multiculturali dove mi sento accomunato agli altri da un ideale di vita, di valori».
Gli chiedo di quali valori parla, visto che mi ha appena smontato i due valori arcitaliani di «famiglia» e «solidarietà». «Be’, è facile» mi risponde «valori come la democrazia, il rispetto civico, i diritti delle persone: questi sono i valori che guidano più o meno tutti i paesi europei, o almeno i valori a cui aspiriamo. È qua che troviamo tutto quello che l’Italia non ha saputo darci.» Sorride e ribadisce: «Quindi sì, io sono un fiero europeo… non mi sento più italiano, perché quando torno qua – in questo paese immobile, depresso e giudicante – non mi sento a casa mia».
Insomma, il nostro Belpaese non gli manca neanche un po’, o se gli manca di sicuro non abbastanza per compensare tutte le sue carenze. Olmo di sicuro non è il solo: tantissimi italiani all’estero si sentono ormai appartenere all’Europa più che all’Italia, a questa società vibrante e senza frontiere dove varie culture, cibi e stili di vita permettono a tutti di trovare un posto da chiamare «casa» e in cui la facilità di spostarsi da un paese all’altro apre continuamente nuovi orizzonti e opportunità, lasciando poco spazio alla noia – o almeno in apparenza è così.
Per tanti l’Europa vuole dire questo: unità, identità, «un ideale e una realtà da difendere a denti stretti» per usare le parole di Olmo: «Visto che l’alternativa, un paese di cui essere fieri e di cui vogliamo far parte, non esiste proprio per noi giovani italiani».
Certo, Olmo è un caso estremo rispetto alla media italiana, un euro-ottimista e un italo-pessimista. Ma la stragrande maggioranza delle persone con cui ho parlato – e, sì, tra esse anche molte che hanno votato per partiti antieuropeisti – condivideva questo suo desiderio di appartenere all’Europa, oltre che all’Italia. La gente mi parlava dell’Europa come di un sogno, un ideale, un’opportunità di apertura per sé e per i propri figli. I più pessimisti, mi dicevano ch...