Scienza senza maiuscola
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Scienza senza maiuscola

L'etica della ricerca per una cittadinanza scientifica

Daniela Ovadia, Fabio Turone

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  1. 208 pagine
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Scienza senza maiuscola

L'etica della ricerca per una cittadinanza scientifica

Daniela Ovadia, Fabio Turone

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A cosa serve parlare di "scienza senza maiuscola", e perché farlo proprio ora? Per Daniela Ovadia e Fabio Turone, giornalisti scientifici esperti di etica della ricerca, è il momento giusto, perché negli ultimi anni la produzione scientifica e la competizione per i fondi sono aumentate a dismisura, mentre i meccanismi di controllo interni al sistema hanno mostrato la corda. Il libro è costruito attorno ai principi che ispirano le buone prassi scientifiche: onestà, valore, affidabilità, giustizia, principio di beneficenza, rispetto, fair play, confronto tra pari, lealtà, decoro professionale, trasparenza, obbedienza alla legge, confidenzialità. Un libro ricco di storie che esplora una disciplina, quella dell'etica della ricerca scientifica, attraverso la cronaca di "uomini (e donne) che sbagliano" più che attraverso la teoria. Ne emerge un ritratto della scienza come opera essenziale ma intrinsecamente umana e, come tale, soggetta a tutti gli errori e a tutte le distorsioni di ogni umana attività, bisognosa di strumenti di autocontrollo più efficaci e di un'attenta vigilanza esterna, per fare al meglio possibile l'interesse dei cittadini e della democrazia. E in fin dei conti della scienza stessa.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788875789756

Capitolo 1

Onestà

I più attendibili, i più disinteressati. Per il grande pubblico gli scienziati sono persone oneste in cui riporre fiducia. Lo dimostra, per esempio, il Veracity Index1, un indice di affidabilità delle professioni che l’istituto privato di ricerca Ipsos MORI calcola ogni anno interpellando i cittadini britannici.
Anche nel 2020, funestato dalla pandemia di Covid-19, gli scienziati (definizione onnicomprensiva per chiunque si dedichi a studiare approfonditamente qualcosa) totalizzano un incredibile 82 per cento di consensi, battuti solo dai medici, che raccolgono la fiducia di più di nove intervistati su dieci, anche se nel momento in cui scriviamo non hanno ancora trovato il modo di tirarci fuori dal pantano in cui ci troviamo. Una fiducia che sembra inossidabile, visto che i dati sono stati raccolti anche durante la crisi, e che sembra superare indenne pure il fatto che alcuni scienziati alquanto esposti dal punto di vista mediatico non abbiano fatto esattamente bella figura.
In realtà, la questione è più sottile di quanto possa sembrare in apparenza. Nel 2015 l’istituto di ricerca sociologica statunitense Pew Research Center ha condotto un’ulteriore indagine per mettere a confronto quello che pensano gli scienziati su alcune questioni come la sicurezza degli organismi geneticamente modificati (OGM), o il cambiamento climatico, con quello che pensano i cittadini2. Hanno così scoperto che – anche se per la quasi totalità degli esperti gli OGM sono sicuri per la salute e il cambiamento climatico è dovuto alle azioni dell’uomo – la percentuale di cittadini che ha un’opinione congrua con quella della scienza è decisamente più bassa (pari solo al 37 per cento per gli OGM e al 50 per cento per il cambiamento climatico). La conclusione è che abbiamo fiducia in una scienza astratta, nella bontà e onestà della Scienza con la maiuscola, quell’attività ideale sostenuta dalla curiosità e che spinge l’uomo al progresso, ma crediamo molto meno alla scienza con la minuscola, all’umana attività che produce teorie e risultati, che cambia idea, che talvolta sbaglia. E soprattutto, abbiamo dubbi sul modo in cui opera e sulle sue reali motivazioni.
Un sano scetticismo
Un atteggiamento di questo tipo ha senza dubbio effetti negativi sulla società, ci fa fare scelte irrazionali e rallenta l’adozione di nuove tecnologie potenzialmente utili: se ne preoccupano gli scienziati stessi, i comunicatori della scienza, che hanno l’ingrato compito di fare da mediatori tra la scienza e il grande pubblico, e persino i governi che investono tempo e denaro per aumentare la fiducia dei cittadini nella scienza.
A noi, però, piace guardare all’aspetto positivo di quanto sta accadendo: una certa quota di scetticismo consapevole nei confronti della scienza è un sano antidoto alla tendenza a venerarla come portatrice di verità certe e immutabili, il che sarebbe una contraddizione in termini. Una eccessiva mitizzazione della figura dello scienziato (visto come una sorta di angelo, di missionario o, peggio, di profeta) rischia di trasformare la più laica delle attività umane in una sorta di religione, a cui credere a priori, tradendola così nella sua essenza più profonda, che è quella di nutrirsi di dubbi e domande. Lo facciamo consapevoli del fatto che la scienza non è mai stata perfetta: la sua storia è piena di casi in cui la fiducia nell’onestà degli scienziati è stata mal riposta, oppure in cui i risultati sono stati ottenuti in modi che oggi non esiteremmo a definire disonesti.
Il fine giustifica i danni collaterali
La convinzione che la Scienza (la maiuscola non è casuale, perché parliamo qui di una attività ideale che non ha riscontri nella realtà) sia opera buona in sé e che le malversazioni siano in fondo una rara deviazione dalla norma ha radici antiche. Siamo tutti figli del filosofo Francis Bacon che, nel 1620, nella sua opera Novum Organum, sostiene che la ricerca scientifica è svolta a beneficio dell’umanità. È da questo assunto che derivano due principi etici spesso presenti sia in chi fa scienza sia in chi la osserva dall’esterno: il consequenzialismo e l’utilitarismo, dove il primo afferma che un’azione è buona o cattiva sulla base del risultato che ottiene, mentre il secondo identifica, ancor prima di partire in un’impresa conoscitiva, qual è il risultato benefico che si vuole ottenere.
Benché vi siano riferimenti al consequenzialismo già in Epicuro, si considera che questo approccio etico sia stato teorizzato in modo compiuto dal filosofo inglese Jeremy Bentham nel XVIII secolo. In realtà Bentham era poco interessato alla scienza: a lui importava soprattutto aiutare i politici a fare scelte che aumentassero la felicità collettiva, quale fine ultimo di ogni società. Fu il suo allievo John Stuart Mill che cercò di calare questo principio utopico nel reale: una società non può valutare la bontà di ogni singola azione, caso per caso, come si dovrebbe fare con un approccio consequenzialista, perché sarebbe un compito troppo gravoso che finirebbe col paralizzarci. Sono necessarie leggi generali che consentano di ottenere un beneficio per la maggior parte della popolazione sul lungo periodo anche se, in singoli casi, questo potrebbe non accadere.
Semplificando all’estremo un dibattito etico molto complesso (e ci perdonino i filosofi che ci stanno leggendo) potremmo dire che, in una visione utilitarista della scienza, non importa se nel percorso di sviluppo di una nuova scoperta vi sono alcune azioni con conseguenze nefaste e si fanno delle vittime collaterali purché l’esito finale sia benefico per la maggioranza dell’umanità.
Solo se guardiamo alla scienza con gli occhi di un utilitarista possiamo capire come è stato possibile condurre, fino a tempi molto recenti, esperimenti che la maggior parte di noi, anche senza particolare competenza in materia, definirebbe fuor di dubbio come non etici e questo anche se hanno portato ad alcune delle scoperte più importanti del mondo moderno.
In medicina, per esempio, i casi abbondano. Possiamo partire dal padre della vaccinazione, il medico inglese Edward Jenner, che nel 1796 inocula in James Phipps, un bambino di otto anni figlio del suo giardiniere, il siero ottenuto dalle pustole del vaiolo delle vacche prima di esporlo al ben più pericoloso vaiolo dell’uomo. Jenner aveva osservato che i mungitori, che venivano contagiati dal vaiolo delle vacche durante la loro attività professionale, si ammalavano di vaiolo umano in modo molto blando e, soprattutto, non ne morivano. Per dimostrarlo, però, aveva bisogno di un esperimento, che eseguì sull’ovviamente ignaro piccolo Phipps.
Sebbene le discussioni sull’etica della sperimentazione umana e sul consenso informato, di cui parleremo più avanti, fossero di là da venire, non poteva sfuggire a un medico esperto come Jenner l’entità del rischio a cui sottoponeva la sua giovane cavia umana nel caso in cui la sua ipotesi si fosse dimostrata fallace. I potenziali benefici per la collettività, però, sembrarono a Jenner tanto grandi da giustificare il gesto e, soprattutto, il fatto di mentire al bambino (e al padre dello stesso) sulle reali implicazioni della sperimentazione. Gli andò bene: James Phipps è passato alla storia insieme a Edward Jenner, e le pratiche di immunizzazione contro agenti infettivi si chiamano ancora oggi vaccinazioni, anche se non utilizziamo più il siero ottenuto dalle pustole delle vacche.
Anche un altro padre della scienza, il francese Louis Pasteur, quasi un secolo dopo, il 6 luglio 1885, inoculò il siero antirabbico in un giovane paziente, Joseph Meister, morso da un cane infetto. Lo fece dopo aver testato il vaccino su 50 cani ma mai sull’uomo. E non lo fece una volta sola: il bambino ricevette ben 13 iniezioni in 11 giorni prima di sconfiggere l’infezione. Pasteur, però, non era un medico: già all’epoca si muoveva al di fuori della legge e non avrebbe mai potuto prescrivere alcunché, né tantomeno somministrare farmaci (benché fosse assistito da un medico nella procedura)3. Anche in questo caso prevalse nello scienziato l’idea che il potenziale rischio per il singolo (in questo caso attenuato dal fatto che il ragazzino era già spacciato) fosse trascurabile a fronte del grande miglioramento per la collettività.
Possiamo dire che Jenner e Pasteur erano scienziati disonesti e irresponsabili, e andavano quindi sanzionati? Che ci perdonino i grandi padri della scienza, ma alla luce dei principi moderni che governano l’etica della ricerca ci tocca dire certamente di sì, anche se si possono usare a loro difesa diverse attenuanti utilitaristiche.
Il declino della scienza
Ci sono però casi di scienziati che hanno agito in modo disonesto per scelta consapevole e senza nobili motivazioni utilitaristiche. Già nel 1830 il matematico, ingegnere e filosofo britannico Charles Babbage, al quale dobbiamo il primo computer meccanico, scriveva nel suo saggio Riflessioni sul declino della Scienza in Inghilterra e su alcune delle sue cause della diffusione delle frodi scientifiche4. Dobbiamo a lui la prima classificazione delle malversazioni e disonestà della scienza, ancora oggi utilizzata per individuare i furbetti che cercano di aggirare i rigori del metodo scientifico e farsi belli di scoperte non basate su ricerche rigorose. Babbage denunciava l’imbroglio e la mistificazione, ovvero gli studi portati avanti sulla base di ipotesi consapevolmente false o fraudolente; i ragionamenti basati su osservazioni mai effettuate (ovvero su dati inventati); l’esclusione dei risultati discordanti dall’ipotesi iniziale e quindi in grado di smentirla; e infine il ricorso a pochi valori concordanti, estratti in modo selettivo da un insieme più ampio, per forzare le conclusioni nel senso desiderato (quello che lui stesso chiama «cooking», ovvero il “cucinare” l’esito di uno studio a proprio piacimento). L’esempio che Babbage utilizzò per esemplificare la frode scientifica riguarda proprio uno scienziato italiano ed è stato raccontato dal docente di chimica bolognese Marco Taddia sulla rivista “Scienza in rete”: «Si tratta della presunta scoperta di un nuovo mollusco a opera di Giuseppe Gioeni (1747-1822), avvenuta sul litorale di Catania (1783) e che, meno di vent’anni dopo, si rivelò un imbroglio. Gioeni aveva rinvenuto alcune concrezioni minerali presenti nello stomaco della Bulla lignaria e le aveva attribuite ai resti di un nuovo genere di mollusco di cui immaginò forma, movimenti e abitudini»5.
Vi sono casi storici di frode che hanno influenzato interi settori della scienza per decenni.
Charles Dawson, un archeologo e paleontologo britannico, nato nel 1864, diventò famoso alla fine del XIX secolo per una serie di scoperte fossili, divenne membro della prestigiosa Società geologica britannica e il British Museum gli conferì un titolo onorario per il suo contributo all’arricchimento delle collezioni. La sua scoperta più famosa è datata 1912.
In quell’anno Dawson affermò di aver trovato frammenti di cranio e di mascella fossile che attribuì a una nuova specie, niente meno che l’anello mancante tra l’uomo e gli altri primati.
L’Uomo di Piltdown (così fu chiamato) ha avuto un impatto importante sulla paleontologia, ben al di là della morte di Dawson, avvenuta nel 1915. Il reperto confondeva gli esperti e non quadrava del tutto con le successive scoperte, ma l’autorità di Dawson era tale che solo nel 1949 Kenneth Oakley, professore di antropologia all’Università di Oxford, riuscì a dimostrare, usando nuove tecniche di datazione, che il cranio aveva solo 500 anni e non 500.000 come asserito dal suo scopritore. Lo stesso Oakley, però, pensò a un errore di datazione. Ci volle l’intervento di un altro professore di Oxford, Joseph Weiner, nel 1953, per riprendere in mano la questione e giungere alla conclusione definitiva che si trattava di un’abile frode: le ossa erano state lavorate per farle sembrare più antiche. Successive indagini hanno rivelato che almeno 38 dei reperti di Charles Dawson erano falsi. Sono serviti quarant’anni per smantellarne l’autorità, tale da influenzare per quasi un secolo un intero settore della scienza.
Ciò che è tuo è mio
Senza arrivare alle vere e proprie frodi, ci sono altri comportamenti che oggi vengono considerati disonesti in un ricercatore serio, per esempio l’appropriazione di risultati altrui. Detto così suona come una colpa grave e facile da riconoscere ma ci sono scienziati famosi e rispettati che se ne sono macchiati alla luce del sole. È il caso, per esempio, dei Nobel Francis Crick e James Watson, premiati per la scoperta della struttura a doppia elica del DNA, frutto in realtà di un’intuizione della loro collega cristallografa Rosalind Franklin, che per prima riuscì a fotografare la molecola usando la diffrazione a raggi X. Non solo la Franklin non fu mai menzionata nelle loro pubblicazioni, ma morì nel 1958, a soli trentotto anni, quattro anni prima che i due scienziati fossero premiati col massimo riconoscimento (il che sembrò loro una buona scusa per sorvolare sul suo contributo).
Per fortuna non tutti gli scienziati sono come Watson e Crick. Nel 1858, per esempio, Charles Darwin e Alfred Wallace giunsero alle stesse conclusioni riguardo all’evoluzione per selezione naturale e la loro teoria venne presentata a firma di entrambi alla Linnean Society di Londra. A sostegno delle sue tesi Darwin aveva raccolto una mole di dati – la maggior parte dei quali nel famoso viaggio compiuto, come naturalista, sul brigantino HMS Beagle tra il 1831 e il 1836 – molto più ampia e solida rispetto a Wallace, e grazie a essi l’anno successivo diede alle stampe L’origine delle specie. Se Darwin aveva atteso così tanto prima di pubblicare la sua idea era perché era ben consapevole della natura dirompente della teoria dell’evoluzione in un mondo prevalentemente convinto della teoria creazionista.
Quel che è meno noto è che il geologo scozzese Charles Lyell aveva spinto Darwin a pubblicare dopo aver letto un lavoro scientifico di Alfred Wallace, esploratore, geografo, antropologo e biologo britannico, che era giunto alle stesse conclusioni in modo indipendente. Darwin, dopo aver pubblicato quella che diventerà la sua opera più famosa, diventò amico di Wallace, al quale riconobbe di avere contribuito allo sviluppo del suo pensiero.
Regole, norme e leggi
Quando le persone pensano all’etica della ricerca, il tema che vogliamo trattare in questo libro, pensano a un insieme di regole chiare, che consentono di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato e, in particolare, che permettono di bollare con sicurezza come non scienza (o scienza con la minuscola) ciò che non ha diritto di essere chiamato Scienza (con la maiuscola). La realtà è più sfumata e i contorni non sono sempre chiari: se per etica consideriamo l’insieme dei valori che ispirano l’agire umano e le norme che lo regolano (ciò che più propriamente dovremmo chiamare deontologia), possiamo tranquillamente affermare con Babbage che si tratta di un concetto tutt’altro che scontato. Non sempre le norme etiche possono essere dedotte col buonsenso: vi è un’infinità di casi in cui bisogna applicare dei distinguo, e persino valutare i singoli casi come unici e particolari, pur preservando le regole generali che la comunità scientifica si è data negli ultimi settant’anni circa, da quando è parso chiaro che fidarsi dell’onestà degli scienziati è bene, ma non fidarsi (e controllare) è meglio.
La maggior parte dei consessi sociali si dota di norme e leggi che governano i comportamenti dei suoi membri. Le norme etiche tendono a essere più ampie e informali delle leggi, e questo talvolta crea dei problemi, come vedremo in seguito. In molti contesti la legge consolida le norme etiche, for...

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