Capitolo uno
Per un’antropologia della senilità:
rabbia, debolezza e Alzheimer a Varanasi (India)1
Lawrence Cohen
Abstract
Di rado la demenza è stata soggetta ad analisi che ne abbiano situato l’evidenza e la significatività all’interno di una disamina delle culture e delle classi sociali. Questo lavoro di campo realizzato con persone anziane e i loro famigliari in quattro quartieri di Varanasi,2 India, socialmente stratificati, intende evidenziare la necessità di un’Antropologia della Senilità. La centralità del “cervello caldo” – la rabbia come indicatore fondamentale di senilità invece che la memoria – verrà esplorata attraverso la sua costruzione differenziale fra classe e genere in questi quartieri. L’ascolto di una voce rabbiosa è esaminato in relazione ai saperi locali sulla debolezza, la follia e l’“avere sessant’anni” [sixtyshness], e a pratiche che mantengono la differenza intergenerazionale attraverso la costruzione di ciò che è qui definito un “corpo famigliare.”
Parole chiave: senilità, demenza, politiche intergenerazionali, parentela, genere.
1. Preludio: molteplici gerontologie
Nel 1988 alcuni antropologi da tutto il mondo vennero convocati a Zagabria per una conferenza internazionale: ci furono diverse sessioni dedicate alla vecchiaia. In una di esse, un antropologo indiano presentò un testo che speculava sulla lunga vita degli anziani di una popolazione che viveva su una collina nel Nord-Est dell’India. In seguito, la sessione si aprì alle domande dalla platea.
Un antropologo americano gli chiese quale tipologia di demenza fosse prevalente fra gli anziani. L’oratore sembrò non comprendere la formulazione della domanda. L’americano la ripeté, cambiando la parola chiave: “Demenza senile? Morbo di Alzheimer?” L’oratore, il quale aveva presentato un’attenta etnografia e aveva posto questioni di profondo interesse per l’antropologia indiana e per il campo emergente della gerontologia indiana, sembrò non avere familiarità con questi termini. Altri antropologi intervennero dal pubblico, perlopiù da Stati Uniti, Canada ed Europa Occidentale, sforzandosi di spiegare ciò che a molti di loro appariva ovvio. Termini attraversarono il palco finché un partecipante esuberante urlò “vecchi pazzi!”
L’attenzione del pubblico si spostò con rabbia verso il nuovo arrivato, e molti assicurarono che “vecchi pazzi” non era ciò che essi intendevano. Da gerontologi, essi per definizione non potevano essere “ageisti”,3 e si riferivano a specifici disturbi biologici. Gli sforzi per spiegare l’Alzheimer ripresero.
Ma io mi cominciai a chiedere, seduto nell’ultima fila a Zagabria e poi sulla strada per l’India per iniziare il mio lavoro di campo, se l’ansia intorno a questa sfida di estetica gerontologica non fosse d’importanza maggiore e se non si collegasse in qualche modo alla differenza apparente tra queste gerontologie – i globalizzanti Euro-Americani e gli Indiani locali - a proposito dell’ovvietà delle loro terminologie. L’oratore, chiamando in causa la traducibilità del linguaggio medico della demenza, sembrava aver spinto i suoi interlocutori su a un pendio scivoloso che culminava nell’ammissione (inizialmente recalcitrante) che questi termini medici evidenziavano il comportamento aberrante delle persone anziane, i vecchi pazzi.
Non era solo una metonimia fra il disturbo e gli anziani “difficili” che veniva allo stesso tempo offerta e respinta, ma l’inquadrarla come un imperativo morale: informarsi sulla sanità di mente delle persone anziane era essenziale e atteso. L’ovvietà dell’Alzheimer per la maggioranza dei partecipanti a Zagabria rifletteva una sua costruzione sociale e clinica negli Stati Uniti come una distinta, virulenta e non ambigua forma di patologia. Il contenuto normativo del discorso sull’Alzheimer – la sua attitudine ripetitiva e polemica e la sua costruzione oppositiva a una categoria di “invecchiamento normale” sempre più guidata dal mercato - è stata documentata nella crescente letteratura delle scienze sociali che si è occupata della diagnosi americana e del trattamento della demenza senile (Cohen 1992a; Gubrium 1986; Herskovits, Mitteness 1994; Johnson, Johnson 1983; Lyman 1989).
Contro questo particolare contenuto normativo la sessione di Zagabria offriva una costruzione contrastante ma egualmente normativa. “Quello che intendiamo,” gli disse un altro partecipante, “è senilità.” “Ah, senilità,” notò l’antropologo indiano e il pubblico si rilassò, il circolo ermeneutico finalmente si ruppe. “Ma vedete,” sorrise pazientemente, “non c’è senilità in questa popolazione.” La verità era ridondante per lui: il punto del suo intervento era stato descrivere una società tribale isolata in cui la tradizionale famiglia allargata indiana non era ancora stata tradita, e dove gli anziani erano perciò ben accuditi e non diventavano senili. Dal punto di vista della sua disciplina ciò che era centrale e di primaria importanza nella sua discussione sul comportamento e sulla salute delle persone anziane – il suo focus sulla famiglia allargata e i suoi effetti sul benessere – venivano ignorati a causa di una discussione esoterica e piuttosto irrilevante sulla terminologia medica.
L’antropologia indiana “mainstream” ha riprodotto l’asimmetria della sua progenitrice coloniale e della cugina neocoloniale: studia comunità rurali marginalizzate e comunità del Nord-Est dell’india etichettandole come “tribù.” L’Altro in considerazione ha conservato il suo status subordinato ed esoticizzato all’interno della narrazione antropologica. Tuttavia, nella cornice globale della conferenza di Zagabria, la tribù veniva a significare per l’oratore un segno di essenziale “indianicità:” la coesione e la gerontocrazia delle strutture tribali era da lui presa a modello come indice dell’utopia gerontologica di un’immaginaria India precoloniale. L’invocazione dell’oratore in favore della famiglia allargata come criterio esclusivo per stabilire il benessere degli anziani è una caratteristica importante della letteratura indiana post-indipendenza sulla vecchiaia (Cohen 1992b). La gerontologia indiana è costruita attorno alla narrazione dell’inevitabile declino della famiglia allargata, causata dalle forze gemelle di occidentalizzazione e modernizzazione. Lo status e la salute delle persone anziane stanno declinando di conseguenza; le soluzioni vanno cercate nelle tecnologie altamente sviluppate della gerontologia e dei geriatri occidentali. L’Occidente occupa un ruolo diviso in questa narrativa, sia come fonte del problema che come soluzione. Per l’oratore, “senilità” si contrapponeva alla “famiglia allargata,” dove la seconda era indice d’indianità e la prima, di conseguenza, di occidentalizzazione. Sembrava suggerire che fosse significativo parlare di corpi anziani senili solamente nel contesto di famiglie frammentate o inesistenti. Contro l’imperativo morale di parlare di patologia, l’oratore invocava un mondo in cui i cambiamenti comportamentali nella vecchiaia fossero un segno normativo di una Famiglia Cattiva. La confusione a Zagabria rifletteva la collisione di ciò che Kleinman e Kleinman (1991) hanno definito mondi morali: nella scienza interculturale della vecchiaia, ben più della “vecchiaia” può essere in gioco.
2. Ridefinire la senilità
Questo articolo, basato su un lavoro di campo nel periodo dal 1983 al 1990, esamina i modi in cui individui provenienti da quattro quartieri della città indiana di Varanasi percepiscono e spiegano i cambiamenti comportamentali e della personalità – cognitivi e affettivi – attraverso ciò che in modo vario definiscono come vecchiaia. L’articolo è parte di un progetto più ampio (Cohen 1992a) che – attraverso lo studio di come differenti tipi di attori in una città del Nord dell’India comprendono il comportarsi in modo “caldo” e “debole” nella vecchiaia – muove da una serie di domande di carattere più generale: in che modo l’età è una forma di differenza sociale? Qual è la relazione fra l’età come differenza e l’articolazione e il riconoscimento delle istituzioni sociali – famiglia, comunità, nazioni? In che modo è incorporata questa relazione?
L’intera ricerca è stata condotta principalmente in India, con ricerche di archivio e lavoro di campo comparativo con contesti istituzionali a Boston, Miami, Londra (1986-1987, 1994); la ricerca indiana ha compreso oltre due anni di lavoro di campo nei quartieri e nei contesti istituzionali a Varanasi nel periodo 1983-90, e sei mesi aggiuntivi di lavoro di campo in contesti istituzionali principalmente nelle città di Dehli, Dehradun, Calcutta, Bombay e Madras. I siti istituzionali hanno incluso ospedali e cliniche, scuole mediche, uffici medici, aziende farmaceutiche, uffici governativi locali e nazionali, uffici di polizia per le persone scomparse, ashram, fondazioni benefiche, case di riposo, fiere religiose e siti di pellegrinaggio. Per lo scopo sia della mia tesi sia degli anni di ricerca di campo messi insieme per realizzarla, l’articolo tratteggia i contorni di un’etnografia ma rinvia una descrizione più densa a un testo più lungo. La vignetta conclusiva, benché sia utilizzata per collegare l’etnografia di Varanasi a tematiche del contesto più cosmopolita di Calcutta, potrebbe essere letta inoltre come una chiave metodologica.
Varanasi è un centro religioso, commerciale e educativo nello stato indiano settentrionale di Uttar Pradesh: la popolazione della città e della regione metropolitana che la circonda si avvicina a un milione. I quattro quartieri oggetto di questo studio consistono in due quartieri di professionisti di classe medio-alta (Ravindrapuri e Nandanagar), uno “slum” abitato principalmente dai Camār, la comunità predominante di “intoccabili” della città (Nagwa Harijan Basti) e un’area più economicamente ed etnicamente eterogenea che è più vicina al cuore del complesso sacro della città (il Quadrato Bengali).
Varanasi ha beneficiato durante il periodo moderno dell’intensificazione del suo status paradigmatico di Hindu tirtha, ovvero...