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Informazioni su questo libro
Tra regolazione e libero mercato, tra concorrenza e innovazione, esistono relazioni ed equilibri complessi e delicati. In queste dinamiche, determinanti per lo sviluppo della nostra società, il ruolo della Pubblica amministrazione e delle sue decisioni è centrale. Con Il segno più Alberto Heimler analizza le implicazioni economiche e le scelte politiche che sono alla base delle principali questioni aperte nell’economia italiana, da trasporti, infrastrutture, servizi e appalti pubblici a piattaforme digitali, vincoli comunitari e interventi antitrust, mostrando la strada che attraverso regolazione dei mercati, incentivi all’innovazione e promozione della concorrenza conduce a una concreta e diretta crescita economica del nostro Paese.
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Informazioni
capitolo 1
Imprese pubbliche, privatizzazioni e incentivi
Nel dibattito politico, la scelta tra pubblico e privato ha avuto (e ancora ha, purtroppo) una connotazione soprattutto ideologica. In particolare, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che il pubblico, potendo operare con tassi di profitto più bassi, al limite nulli, sia in grado di investire di più, di produrre maggiori quantità dei privati e di fissare prezzi più bassi.
Tutto ciò è basato sull’ipotesi che la scelta degli assetti proprietari non eserciti alcuna influenza sugli incentivi a produrre e a innovare: se questa ipotesi fosse vera, cosa affidare ai privati e cosa al pubblico sarebbe una questione meramente redistributiva e quindi effettivamente solo ideologica e politica. Gli economisti non avrebbero alcun ruolo da svolgere, se non quello di favorire sempre e inequivocabilmente la proprietà pubblica, per sua natura caratterizzata da costi del capitale più bassi e da una maggiore capacità di sostenere investimenti che diventano profittevoli solo nel più lungo termine.
In realtà, la scelta pubblico-privato è di primaria importanza per gli economisti e gli assetti proprietari incidono in maniera essenziale sulla qualità e la tipologia dell’offerta, oltre che sull’efficienza del processo produttivo. Janos Kornai ha individuato la scarsa rigidità del vincolo di bilancio (soft budget constraint) come l’elemento caratterizzante l’impresa pubblica.14 Sapendo che ogni perdita dell’impresa pubblica verrà in qualche modo ripianata dalle finanze dello Stato, il manager pubblico non persegue la minimizzazione dei costi (efficienza), ma il consenso politico e popolare. Di conseguenza, secondo Kornai, la gestione di un’impresa pubblica è inevitabilmente caratterizzata da sprechi e ridondanze. Inoltre, essendo scarsamente rilevanti per la carriera dei manager i profitti che l’impresa consegue, le innovazioni che l’impresa pubblica promuove e realizza saranno poche, di modesto impatto e, comunque, estremamente costose.
È interessante al riguardo osservare che in settant’anni di regime socialista in Unione Sovietica, l’unico prodotto russo che ha raggiunto una certa popolarità nel mondo è il mitragliatore Kalashnikov AK-47, ideato durante la Seconda guerra mondiale per garantire la sopravvivenza del Paese. Alle grandi trasformazioni dei nostri stili di vita nei quarantacinque anni successivi alla Seconda guerra mondiale (fino cioè al dissolvimento dell’Unione Sovietica nel 1990), dall’auto, alla telefonia cellulare, ai computer, alla moda, la Russia socialista non ha contribuito in alcun modo: non è un caso.
Nell’introduzione ricordavo che ogni anno nella Russia socialista scoppiavano nelle case duemila televisori. La ragione è molto semplice e ha un’origine sistemica. La scarsa qualità dei televisori dipendeva dall’assenza di concorrenza nel mercato dei televisori. Si trattava di una scelta esplicita. Obiettivo di Lenin era trasformare l’economia russa e renderla efficiente come se fosse una singola fabbrica, un singolo ufficio. Solo a prima vista si tratta di una buona idea. Essa traeva origine dalla semplice considerazione, a tutti evidente, che se in fabbrica le diverse funzioni fossero duplicate per creare concorrenza si creerebbe solo il caos. Pensate alla confusione che si creerebbe con due uffici marketing, due uffici pianificazione, due amministrazioni all’interno di una medesima organizzazione produttiva, per non dire cosa accadrebbe se fossero tre o più! A chi dovremmo dare retta? Il caos che ne deriverebbe bloccherebbe ogni nuova iniziativa e renderebbe difficile anche la gestione ordinaria. Peraltro sarebbe una inutile duplicazione di compiti e di responsabilità. Ogni fabbrica svolge una chiara funzione se ognuno sa precisamente come e cosa fare. La concorrenza tra diverse unità all’interno di una stessa fabbrica crea solo aggravi dei costi e non produce alcuna utilità.15
Questa osservazione non può essere estesa all’intera economia nazionale. Purtroppo Lenin sbagliava. Infatti nel sistema produttivo nazionale non è affatto stabilito quel che deve essere prodotto né come, non essendo noto a priori quello che i consumatori desiderano acquistare, né quanto, né quando, né dove. La ridondanza nel mercato, ossia le duplicazioni che inevitabilmente si creano in un’economia capitalista, è solo apparentemente inefficiente. Essa infatti è volta a favorire la differenziazione del prodotto e l’innovazione, consentendo così ai consumatori di acquistare ciò che vogliono, nel momento e nel luogo che loro scelgono e al prezzo più basso e, promuovendo un continuo flusso di innovazioni e novità.16
Una prima conclusione per cui la proprietà privata è preferibile a quella pubblica è che il rischio di fallimento tende a escludere gli sprechi gestionali, naturalmente quelli evitabili da un management diligente. La seconda è che eliminare la concorrenza per evitare gli sprechi e le ridondanze conduce a una riduzione della qualità, a una ridotta innovazione e a prezzi alla lunga più elevati. Lungi dal liberare risorse per altri scopi, l’eliminazione della concorrenza che la Russia socialista perseguiva al fine di mobilitare le risorse per gli investimenti e che talvolta viene evocata anche da noi, crea inefficienze e blocca il processo innovativo.
In questa prospettiva anche la politica industriale, quella volta a individuare i perdenti del confronto competitivo e scegliere invece i possibili vincitori di domani, non garantisce affatto il raggiungimento dell’obiettivo, ossia favorire la competitività futura del nostro apparato produttivo, per la semplice ragione che il futuro è sconosciuto e, soprattutto, che con la protezione e i sussidi si indeboliscono gli incentivi al perseguimento dell’eccellenza, non si aumentano! Ciò implica che lo Stato, invece che cercare di rincorrere direttamente il progresso tecnico, operazione praticamente impossibile, deve perseguire l’interesse pubblico, per esempio garantire ai cittadini una sanità più efficace, un ambiente meno inquinato, una giustizia più rapida e più equa, un’istruzione migliore e infrastrutture più moderne e sicure, obiettivi che per essere raggiunti richiedono investimenti, produzioni e servizi innovativi che indirettamente favoriscono lo sviluppo economico e industriale, creando e promuovendo le potenziali eccellenze. Per il resto il mercato e la concorrenza sono più che sufficienti.
1.1. l’industria a partecipazione statale in italia: l’esempio dell’iri
L’esperienza della fornitura pubblica non ha riguardato solo i paesi socialisti. Nel 1933 fu creato in Italia l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), che nasceva dall’emergenza per il superamento di “problemi gravi ma che il legislatore sperava fossero contingenti”.17 A seguito della crisi del 1929, per evitare il fallimento delle principali banche e delle industrie a esse collegate si rese necessario in Italia un intervento radicale volto a tutelare il risparmio depositato presso le banche e mantenere in vita imprese considerate strategiche per la crescita di lungo periodo dell’economia del Paese. Dopo che numerosi tentativi di rifinanziamento del solo settore bancario non dettero i risultati sperati, fu deciso di intervenire sugli assetti proprietari. L’Iri, oltre al Credito Italiano, la Banca di Roma e la Banca Commerciale, tre tra le principali banche del Paese, controllava la quasi totalità dell’industria degli armamenti, dell’industria siderurgica, del settore delle costruzioni navali e dell’industria della navigazione.
Per comprendere il ruolo dell’Iri nello sviluppo industriale italiano occorre innanzitutto ricordare che la crisi del 1929 traeva origine da una carenza di domanda aggregata, non da una scarsa capacità dell’offerta di adeguarsi alla domanda. Anzi, dal punto di vista dell’offerta, era chiaro cosa doveva essere fatto per modernizzare l’economia italiana (o quella di qualsiasi altro Paese): sviluppare le industrie dell’acciaio, della chimica e degli idrocarburi. Lo sviluppo industriale dell’epoca trovava nella disponibilità di semilavorati di base a prezzi contenuti il fulcro su cui innestarsi. Essendo lo sviluppo di queste industrie strettamente collegato alla realizzazione di infrastrutture pubbliche, soprattutto di trasporto, necessarie per la logistica degli input produttivi e dei prodotti finiti, mantenerne la proprietà pubblica favoriva il processo decisionale che per sua natura doveva comportare sinergie tra pubblico e privato difficilmente conseguibili altrimenti. L’Iri, nato nell’emergenza, evolve quindi nel segno dell’efficienza, da temporaneo diviene permanente e, soprattutto, strategico.
Oscar Sinigaglia, chiamato nel 1945 alla presidenza della Finsider, la holding dell’Iri specializzata nella produzione di acciaio, scriveva nel 1948: “Con la produzione nazionale di acciaio grezzo ora progettata, saranno coperte almeno le esigenze basilari di altre nostre importanti industrie; in particolare la cantieristica, la meccanica e l’elettrica che debbono poter contare su una siderurgia nazionale capace di fornire acciaio a prezzi modesti così che, a loro volta, esse possono esportare ai prezzi internazionali vigenti”.18 Occorre aggiungere che negli anni di queste affermazioni, non era possibile contare sulle importazioni per ottenere input produttivi di qualità a prezzi ragionevoli (soprattutto per le elevate tariffe all’importazione allora in vigore).
Nel corso del dopoguerra tuttavia la strategicità dell’Iri per lo sviluppo economico del Paese è andata perdendosi, sia perché il progresso tecnologico stava radicalmente trasformando le industrie attorno alle quali l’Istituto era nato, sia perché l’Iri era diventato il contenitore nel quale depositare ogni impresa in difficoltà, sia pure al di sopra di una certa dimensione. Di conseguenza l’Iri e più in generale le grandi holding pubbliche italiane (solo l’Eni e più tardi anche l’Enel erano (e sono) riuscite a mantenere una loro strategicità) erano diventate una sorta di assicurazione per i dipendenti delle grandi imprese, cui era garantito, anche in caso di difficoltà dell’impresa presso cui lavoravano, che avrebbero mantenuto l’impiego. Viceversa, e molto iniquamente, i dipendenti delle piccole imprese, nel caso in cui la loro impresa avesse dovuto chiudere, perdevano il lavoro e il reddito.
Col passare del tempo l’Iri era divenuto un ente erogatore di privilegi: salari elevati per i lavoratori e, in parte conseguenti, perdite crescenti per le imprese partecipate, peraltro regolarmente ripianate dallo Stato. L’operare del vincolo di bilancio debole, proposto da Kornai19 come modello interpretativo dell’operare delle imprese pubbliche, aveva a poco a poco distrutto l’Iri. Era pressoché inevitabile che ciò avvenisse, soprattutto come conseguenza degli obiettivi che si era posto l’Istituto a partire dagli anni Sessanta. Mentre nei primi decenni dalla sua creazione la funzione strategica dell’Iri, come espressa negli scritti di Oscar Sinigaglia, era la sua capacità di fornire profittevolmente input produttivi di qualità e a prezzi contenuti all’industria nazionale, Pietro Armani, vicepresidente dell’Iri, sostenne nel 1975 “il diritto del Parlamento e del Governo come interpreti legittimi delle esigenze della società di definire in concreto gli obiettivi che ne discendono anche per le aziende operanti nella sfera pubblica”,20 lasciando intendere che la profittabilità non era più un vincolo da rispettare. Ma non erano tesi nuove. Già in precedenza, alla fine degli anni Sessanta e in contrasto con le tesi rigoriste di Alberto Beneduce, l’allora presidente dell’Iri Giuseppe Petrilli aveva sostenuto che l’industria pubblica avesse come obiettivo la massimizzazione non dei profitti, ma del benessere sociale. In nome del benessere sociale si potevano cioè intraprendere attività non profittevoli (e che quindi conducevano all’emergere di perdite di esercizio per l’impresa), ma apparentemente benefiche per il Paese.
Il problema del benessere sociale è che non sempre è definito in maniera rigorosa, pertanto la sua declinazione può essere facilmente manipolata. Inoltre quasi mai il suo raggiungimento viene verificato ex post. Viceversa il profitto è, perlomeno dal punto di vista contabile, esattamente definito come la differenza fra ricavi e costi e, soprattutto, consente di essere quantificato periodicamente. Imporre a un’impresa di perseguire il benessere sociale significa consentirle di operare anche in perdita e, in pratica, di non essere soggetta ad alcun vincolo.
L’Iri era nata con l’obiettivo strategico di dotare l’economia italiana di input produttivi di qualità e a prezzi contenuti, soprattutto nella siderurgia: una strategia coerente con le traiettorie dello sviluppo economico del momento, che doveva favorire la crescita dell’industria meccanica e del settore dei trasporti e in prospettiva contribuire alla modernizzazione del Paese. Da questo punto di vista, la strategia dell’Italia degli anni Trenta e Quaranta era particolarmente innovativa, promuovendo lo sviluppo di industrie allora tecnologicamente all’avanguardia. Tuttavia col passare del tempo le produzioni delle industrie di base in cui l’Iri si era specializzato divenivano molto più agevoli da produrre anche per i Paesi in via di sviluppo. Come conseguenza, l’offerta mondiale di acciaio aumentava sensibilmente, mentre la domanda rimaneva stagnante, anzi fletteva già negli anni Settanta, dai 427 milioni di tonnellate del 1973 ai 302 milioni del 1982.21 Purtroppo negli altri settori industriali la crescita dell’Iri non traeva origine dal perseguimento di obiettivi strategici, ma dalla necessità di “salvare” interi settori dell’economia italiana, indipendentemente ...
Indice dei contenuti
- Il segno più
- Indice
- Prefazione di Giuliano Amato
- Premessa
- Introduzione
- Capitolo 1. Imprese pubbliche, privatizzazioni e incentivi
- Capitolo 2. La promozione della concorrenza e i servizi di pubblica utilità
- Capitolo 3. La concorrenza promossa a tavolino: le difficoltà della concorrenza per il mercato
- Capitolo 4. Regolazione dei mercati e incentivi all’innovazione e alla crescita
- Capitolo 5. Lo sviluppo delle piattaforme online e i mercati a due lati
- Capitolo 6. Come promuovere interventi pubblici nei mercati favorevoli all’innovazione e alla crescita
- Capitolo 7. La scelta degli assetti regolatori, le autorità indipendenti e le modalità di redazione delle leggi
- Capitolo 8. Gli interventi antitrust
- Capitolo 9. Appalti pubblici, vincoli comunitari e prassi applicative: quale spazio per la qualità e l’efficienza?
- Capitolo 10. Alcune riflessioni finali
- Postfazione