Parte quinta – Il zīj
Capitolo dodicesimo
L’idea di un libro monumentale, al contempo repertorio il più possibile completo delle stelle già scoperte e ancora da scoprire, calendario dei movimenti apparenti di Sole, Luna e altri pianeti, previsione dei fenomeni celesti, di eclissi e congiunzioni astrali, era venuta a Uluğ Bek già due o tre anni dopo il suo arrivo a Samarcanda. Alla morte dell’amico falconiere, in compagnia di Qāḍī Zāda aveva ripreso gli studi di astronomia che la sua posizione lo aveva costretto a trascurare. Grazie alla memoria straordinaria di cui era dotato, nella sua mente tutto aveva ritrovato posto con estrema facilità, e le nuove nozioni acquisite nella biblioteca di Samarcanda avrebbero potuto renderlo uno degli scienziati più importanti dell’epoca, se i suoi doveri di principe non gli avessero vietato di scrivere e di insegnare. In compenso, non gli impedivano di attingere ai suoi forzieri i mezzi per completare l’opera a cui il suo nome sarebbe rimasto legato per secoli.
Fin da allora si era messo in testa di realizzare un grande osservatorio. La priorità, per Uluğ Bek e Qāḍī Zāda, era formare astronomi in grado gli uni di diventare insegnanti a loro volta, gli altri di fornire un contributo al lungo lavoro di calcolo e osservazione. I candidati erano numerosissimi, molto più attratti dai vantaggi economici legati all’incarico e dalla vicinanza a un grande personaggio, che dal desiderio di prendere parte all’opera grandiosa di misurare l’universo.
Qāḍī Zāda era molto meno sorpreso di Uluğ Bek dalla mediocrità degli innumerevoli aspiranti. Durante gli anni passati in biblioteca, ai tempi di Tamerlano, ne aveva viste passare di compilazioni, copie, rifacimenti e altri arzigogoli saccheggiati senza costrutto dagli uomini del Grande Emiro, o spedite dai loro stessi autori. Se il teorema di al-Kashī non avesse fatto parte del lascito di al-Fanārī, forse nemmeno vi avrebbe prestato attenzione. Tremava al solo pensiero. Alla fine, due anni prima dell’arrivo a Samarcanda del Tolomeo dell’oasi, Qāḍī Zāda era riuscito a costituire due équipe, una di esperti insegnanti, l’altra composta da suoi vecchi studenti destinati all’osservatorio. Avrebbe sperato in qualcosa di meglio di quegli esecutori senza lustro, aveva sognato una nuova Casa della saggezza, quando tutti gli antichi saperi erano ancora da riscoprire, tradurre, completare e sottoporre a critica, quando ancora ci si meravigliava e si marciava allegramente sui sentieri della conoscenza. Ma quella era la Baghdad di sei secoli prima; Qāḍī Zāda sapeva bene che la storia degli uomini non sarebbe mai tornata all’epoca di un Islam giovane, assetato di ogni sapere.
In poche settimane l’arrivo di al-Kashī aveva sconvolto il tran tran della scuola d’astronomia del Registan. Per poco non aveva distrutto con le sue mani il piccolo osservatorio costruito sul tetto della madrasa. Avrebbe poi fabbricato da sé, insieme a forgiatori di rame, strumenti di un’esattezza mai uguagliata, piccoli e maneggevoli, sprovvisti di tutte le leziosaggini con cui si aveva l’abitudine di ornare sfere armillari e astrolabi vari. Infine, una volta sistemato tutto, dichiarò a Uluğ Bek – sotto sotto felice di lasciarsi bistrattare così – che un osservatorio era un luogo di lavoro, non meta di passeggiate dove fare i cicisbei con le belle signorine o dove lanciarsi in considerazioni pseudofilosofiche sui misteri del cosmo.
L’elaborazione del gran libro degli astri cominciò quando la collina dei follatori non aveva ancora ricevuto il primo colpo di piccone. Infatti, se le stelle si muovono piano nel loro cammino, la loro marcia non si arresta né attende l’approntamento di strumenti da parte di omuncoli con lo sguardo rivolto al cielo. Il progetto e gli obiettivi dell’opera immortale che un giorno si sarebbe chiamata Zīj-i Gurgānī, «Le tavole del principe», erano già stati definiti. Fondamentalmente era il calendario del cammino apparente degli astri intorno a una Terra centrale. Non avrebbe contenuto alcun tentativo di spiegazione né di giustificazione attraverso epicicli del ritardo di un certo pianeta rispetto a un percorso che si presumeva perfettamente circolare. Tanto meno ci si sarebbe lanciati in ipotesi quali la circonferenza della sfera celeste prevista da al-Kashī. Bisognava affidarsi esclusivamente a cose misurabili in termini di tempo e di distanza, attraverso l’osservazione e il calcolo. Qāḍī Zāda aveva a lungo insistito su quel metodo da lui preconizzato; l’aveva perfino messo nero su bianco. Conosceva troppo bene i suoi due amici e sodali in quella vasta impresa, al-Kashī sempre impaziente di bruciare le tappe, Uluğ Bek al contrario abituato a gingillarsi e a sognare perdendosi per vie traverse. Come un auriga con i suoi cavalli, stava attento a tenere l’uno a freno e a spronare l’altro, consapevole di essere lui stesso parte del tiro e che anche una sua eccessiva cautela nell’andatura poteva intralciare il cammino.
Quattro anni dopo, i lavori titanici per l’innalzamento dello scheletro dell’osservatorio erano completati. Ma il grosso restava ancora da fare, se si voleva finalmente cominciare a usarlo per le osservazioni. La terrazza venne trasformata in un gigantesco quadrante solare. Al centro esatto del cerchio perfetto formato dal tetto appiattito era stato incastonato un piccolo globo di cristallo. Da lì si diramava una moltitudine di solchi finemente scavati nella pavimentazione in marmo. Questa rosa dei venti si incrociava con le graduazioni di ore e minuti della meridiana. Al-Kashī, sempre lui, passava il tempo lassù, a quattro zampe, segnando a gesso il punto dove l’operaio doveva incidere le cifre che gli dettava. Al minimo arrotondamento, cominciava a urlare che lo volevano vedere morto e a maledire l’umanità intera. Ma gli volevano bene, là su quella terrazza, a quel rozzo personaggio così somigliante ai lavoratori da lui diretti con pugno di ferro.
La costruzione del sestante richiese ancora più attenzione. Il gigantesco arco di cerchio di ottanta cubiti di raggio era graduato in modo da raggiungere la precisione senza precedenti di cinque secondi d’arco. Lo avevano rinserrato tra due pareti che salivano dal basamento fino all’ultimo solaio, quello della terrazza. In realtà si trattava di due archi paralleli, due canaline separate da una stretta scala, larga poco più di un cubito. Altre due scale accompagnavano le canaline lungo i lati esterni. Gradi e minuti d’arco erano incisi su lastre di marmo leggermente incurvate, perché prendessero la forma delle due canaline. La graduazione partiva dagli ottanta gradi della base per raggiungere i diciannove gradi sulla cima. La rampa, profonda, vertiginosa, era costantemente immersa nella semioscurità, cosicché al buio risultava per contrasto più agevole leggere la macchiolina dorata che il Sole pennellava sulla scala graduata. Il sottile tratteggio di luce solare raggiungeva il sestante attraverso una piccola apertura scavata nel tetto, leggermente sopraelevato, che copriva la rampa.
Nei nove anni di lavori di costruzione dell’osservatorio, il numero di studenti e professori all’università di Samarcanda non smise mai di aumentare, in maggioranza mossi dall’intenzione di orientarsi in campo astronomico. Bisognò rigettarne molti, il rettore Qāḍī Zāda era inflessibile quanto alle competenze matematiche. Respingeva soprattutto chi si dilettava di predizioni e altri strampalati personaggi che adducevano teorie fumose sui movimenti celesti,...