
- 90 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Perché crediamo alle immagini fotografiche
Informazioni su questo libro
David Levi Strauss firma un saggio lucido e conciso che esplora la relazione tra verità e medium fotografico. Prendendo avvio dall'assunto secondo cui "basta vedere per credere", Levi Strauss esamina la figura di san Tommaso nei Vangeli, il rapporto tra fede e Sacra Sindone - per alcuni studiosi la prima immagine protofotografica della storia -, i contributi sul tema di critici e filosofi quali Walter Benjamin, John Berger e Roland Barthes.
Uno spazio importante è inoltre dedicato agli scritti di Vilém Flusser e alle sue "immagini tecniche", all'intreccio tra magia e tecnologia, mentre l'ultimo capitolo riflette sulla contemporaneità: in un mondo popolato da deepfake, in che modo è mutata oggi la relazione tra fede e fotografia? È ancora possibile credere alle immagini?
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Informazioni
Argomento
ArteCategoria
Teoria e critica dell'arteCapitolo 1
Vedere per credere
L’ordine simbolico è garantito nel momento in cui vi sono delle immagini, nelle quali è inevitabile credere poiché l’atto del credere è di per sé un’immagine; entrambi sono definiti dai medesimi processi e basati sui medesimi presupposti: memoria, vista e amore, o volontà.
Julia Kristeva1
Julia Kristeva1
Memoria, poiché ricordiamo soprattutto attraverso le immagini e crediamo a ciò che ricordiamo (non sempre a nostro vantaggio). Vista, poiché “finché non vediamo non crediamo”. E amore, poiché l’atto di credere e quello di amare germogliano dallo stesso seme.
Credere significa accettare qualcosa come verità. È il risultato di un deciso consenso dell’intelletto, ma per convincere l’intelletto è sempre necessario l’intervento della volontà.
L’origine del proverbio “vedere per credere” si perde nella notte dei tempi. Alla sua prima apparizione su carta stampata veniva già menzionato come un antico adagio. Come ha detto Cervantes, «un proverbio è una frase breve che si basa su un’esperienza lunga».
L’anno in cui il proverbio fece il suo esordio tra le pagine di un libro, in inglese, è generalmente fissato al 1609, in un manoscritto inedito di S. Harward (che ora si trova nella biblioteca del Trinity College a Cambridge) nel quale è riportato come “Seeing is leeving”.
Leeving significa amare. Il termine proviene dalla radice indoeuropea leubh, “amare” o “desiderare”: nell’inglese antico leof, oggi lief, sta per “caro”, “amato”. Credere vuol dire avere a cuore. Credere è amare.2
Émile Benveniste, nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), si focalizza sul termine latino crēdo (da crēdĕre) e sulle sue derivazioni, che espandono il significato di “credito” fino a includere quello di “credenza”, due parole con un antico legame. Benveniste si concentra anche sulla parola correlata kred: «In generale si considera *kred come una parola distinta che significa “forza magica”; *kred-dhē significherebbe quindi: “attribuire a qualcuno la *kred” (da cui risulterebbe la fiducia)».3 Per poi notare con sarcasmo che «non è molto semplice, ma non si può a priori pretendere che questa nozione corrisponda alle nostre rappresentazioni moderne».
Nella sua prefazione all’edizione americana del 2016 del Vocabolario di Benveniste, Giorgio Agamben fa riferimento a una nota scritta a mano dal grande linguista nella sua ultima lezione al Collège de France, che dice: «La lingua non ha soltanto un valore segnico (informativo), […] ma enunciativo (affermativo)». In altre parole (quelle di Agamben), la lingua «non si limita a fornire una serie di segni in luogo delle cose, ma annuncia e dà voce a ciò che è reale».4 È questa mossa verso una “fenomenologia del futuro” che ora, forse, può essere applicata alle immagini fotografiche.
Beati quelli che non hanno visto
Sebbene vedere e credere siano concetti che hanno una lunga storia in comune, una delle formulazioni più significative di tale sodalizio nella tradizione giudaico-cristiana si articola in termini opposti rispetto a quella che siamo abituati a conoscere. Quando Tommaso dubita che Cristo sia risorto, Gesù gli mostra le piaghe della crocifissione e solo allora Tommaso si convince. Ma Gesù lo ammonisce dicendo: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Giovanni, 20, 24-29).5 Esattamente il contrario di “vedere per credere”: implica infatti che il credere non debba dipendere dal vedere, e che credere basandosi sull’aver visto abbia un valore minore.
C’è chi riconosce in Tommaso l’emblema dello scetticismo, dell’incertezza e del dubbio postmoderni; il profeta di un futuro in cui non è più possibile credere a quello che vediamo. Tommaso ha dovuto vedere le piaghe, come in una sorta di azione terapeutica, per riconoscere il trauma. E quindi, in relazione a ciò, come possiamo non pensare alla lunga storia della documentazione del trauma in fotografia? A tutta quanta la fotografia di guerra, di catastrofi naturali, al fotogiornalismo e alla fotografia sociale? Alla necessità scientifica di vedere per credere, per riuscire a sentire il “dolore degli altri” (per usare le parole con cui Susan Sontag ha intitolato il suo ultimo libro),6 per capire il dolore del mondo (come ha scritto John Berger nell’introduzione al mio Politica della fotografia)?7
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Amo la parola credere. In generale, quando si dice “io so”, non si sa, si crede.
Marcel Duchamp8
Marcel Duchamp8
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Nel suo libro Il dito nella piaga. Le storie di Tommaso l’incredulo (2005), Glenn W. Most fa notare che quello che la maggior parte delle persone sa (o pensa di sapere) sulla storia di san Tommaso – ovvero che infilò il dito nella piaga del costato di Gesù – non è vero. O perlomeno non è ciò che dice la Bibbia: nei Vangeli questo episodio non compare, ma poiché è stato visto e rivisto in moltissime immagini è diventato una convinzione diffusa.
Nel ventesimo capitolo del Vangelo di Giovanni, Maria Maddalena è la prima ad arrivare al sepolcro di Gesù la mattina della resurrezione. Quando vede che il suo corpo non c’è più, corre subito da Simon Pietro e da Tommaso, definito soltanto «l’altro discepolo, quello che Gesù amava» (alcune letture interpretano “l’altro discepolo” come Giovanni). Quando Tommaso vede che Gesù non è più lì, allora «vide e credette». Quella stessa sera, Gesù giunge nel luogo dove sono riuniti i discepoli, ma Tommaso non è lì con loro. Più tardi gli altri riferiscono a Tommaso cosa hanno visto e sentito, e lui replica: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».
Otto giorni dopo Gesù torna nel luogo dove si raccolgono i discepoli e stavolta c’è anche Tommaso. Gesù si rivolge a lui: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Allora il discepolo esclama: «Mio Signore e mio Dio!». E Gesù: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».
Tommaso non mette né il dito né la mano nella piaga, perché per lui è sufficiente vederla e sentire parlare il Cristo risorto.
Il capitolo si conclude con questi versetti: «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
Questo è un nodo centrale della fede cristiana. Se non credi nella resurrezione, se non credi che Gesù sia risorto, non sei un cristiano. E ci devi credere perché hai fede, e non perché i tuoi sensi (fisici) te lo hanno testimoniato. La “buona novella” dei Vangeli è esattamente questa: Cristo è risorto. La posta in gioco dunque non potrebbe essere più alta di così. Come Paolo dice nella Prima lettera ai Corinzi, «ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (Corinzi, 15, 14).
Tutto ciò che può essere detto su dubbio e convinzione porta a Tommaso, il Gemello. Ta’oma, il suo nome in aramaico, significa proprio “gemello”, e a volte è accompagnato dall’epiteto greco Dídymos (Δίδυμοσ), che ha il significato sia di “dubbio” sia di “doppio”. Come ha detto Most, il ventesimo capitolo del Vangelo di Giovanni «si può leggere in realtà come un’indagine sulla natura umana e i limiti della credenza umana e del suo rapporto con la conoscenza fornita dai sensi».9 Tommaso è l’emblema di tale relazione e del tormento della fede. Come ha affermato Agostino, egli dubitava della possibilità di non dubitare.
L’originale greco del “vide e credette” – riportato da Giovanni a proposito di Tommaso all’inizio del ventesimo capitolo – è kài èiden kài epìsteusen (Gesù e i suoi discepoli parlavano soprattutto in aramaico, ma i Vangeli nella loro versione più antica furono scritti nel greco della koinè). Il verbo è pisteúō (πιστεύω), ossia fare affidamento su qualcuno o riporvi fede, credere in una persona o una cosa, dargli credito. La parola, declinata in varie forme, compare più di novanta volte nel Vangelo di Giovanni, ma solo venticinque in tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca).10
Anche se nei Vangeli Tommaso non compie mai l’azione fisica di toccare le piaghe di Gesù, questa immagine si è rivelata irresistibile per molti artisti. Dopo un excursus nella storia delle rappresentazioni di san Tommaso – dai rilievi di sarcofagi e dalle tavolette d’avorio del IV secolo alle stampe di Dürer, Schäufelein e Schongauer, fino ai dipinti e alle sculture di Caravaggio, Cima da Conegliano, Girolamo da Treviso, Mariotto di Nardo, Marco Pino, Rubens, Bernardo Strozzi e Verrocchio fra gli altri – Most scrive:
Tommaso chiede non solo di vedere Gesù ma anche di toccarlo. Queste immagini sacre mettevano i fruitori soltanto in condizione di vedere (e non di toccare) Tommaso mentre toccava Gesù; eppure tramite esse molti degli spettatori hanno creduto che lo avesse fatto veramente.11
L’immagine di Dio
L’“immagine di Dio” è da secoli oggetto di dibattito tra i teologi dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam. Proprio nel primo libro di Mosè Dio afferma: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Genesi, 1, 26). E il versetto 3 del quinto capitolo della Genesi riporta che il primo uomo, Adamo, «generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio». Martin Lutero scriveva che «l’uomo ha perso l’immagine di Dio quando è caduto nel peccato».12
I teologi cristiani del IV secolo usavano la parola “immagine” principalmente come termine cristologico. Cristo, il Figlio di Dio, era un’immagine di suo padre. Se questa “immagine” fosse o meno distinta dal suo archetipo, e pertanto subordinata, costituiva un notevole grattacapo per la Chiesa delle origini. La Lettera ai Colossesi descrive Gesù come l’immagine visibile del Dio invisibile, ma, anziché esserne subordinata, l’immagine di Cristo viene descritta come un’immagine eterna attraverso cui l’intero creato di Dio prende vita: «Per mezzo di lui sono state create tutte le cose» (Colossesi, 1, 16). Il Figlio è l’immagine attiva che rappresenta il mondo nella sua interezza, tutte le cose in cielo e in terra, visibili e invisibili.
Nell’affrontare la questione dell’immagine di Dio (Imago Dei) sant’Agostino si trovò di fronte a uno di quei casi in cui il platonismo e neoplatonismo della sua formazione entravano in conflitto con il suo credo cristiano. Secondo Platone le immagini sono derivative, delle copie, e perciò vanno considerate inferiori rispetto alle Forme vere, originali. Agostino pensava che l’umanità risiedesse nella mente dell’uomo, pertanto anche l’immagine di Dio doveva trovarsi lì, nella triade costituita da memoria, intelletto e volontà. Nel XX secolo Paul Ricœur afferma che l’immagine di Dio è in realtà il libero arbitrio.13
In “Ellipsis on Terror and the Specular Seduction”, Julia Kristeva osserva:
Secondo sant’Agostino, per quanto deformata o corrotta possa essere un’immagine, dal momento stesso in cui essa esiste funge da supporto alla ricerca trascendentale, anche – e forse ancor di più – se non è l’immagine di un oggetto riconoscibile. Averne coscienza gli permette di compiere il meraviglioso gesto di capovolgere le Scritture, laddove dicono: “Certo, l’uomo va e viene come un’ombra [= un’immagine]; certo, s’affanna per quel ch’è vanità; egli accumula ricchezze, senza sapere chi le raccoglierà” (Salmi, 39, 6). Versetti che sant’Agostino va a sostituire con i seguenti: “Benché l’uomo si inquieti invano, tuttavia cammina nell’immagine”.14
Il “camminare nell’immagine” ha sempre avuto un implicito significato politico e religioso. È dall’alba dei tempi che il conflitto tra questi due aspetti – la fede religiosa e il potere politico – si scatena attorno alle immagini, e continua a farlo ancora oggi.
La prima fotografia
Tra le tante teorie sulla Sindone di Torino la mia preferita è quella che cerca di dimostrare che in realtà si tratta di una fotografia: ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Descrizione
- Epigrafe
- Capitolo 1
- Capitolo 2
- Capitolo 3
- Capitolo 4
- Capitolo 5
- Piccola antologia di citazioni (Omaggio a Walter Benjamin e Susan Sontag)
- Note
- Bibliografia
- Ringraziamenti
- Gli e-book di Johan & Levi
- Copyright