Re di un'ora
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Re di un'ora

& altri testi inediti

Informazioni su questo libro

Con questa raccolta di testi inediti torna l'acclamata autrice di Il ballo e David Golder. Nel volume, in esclusiva in Italia, lo sconvolgente capitolo ritrovato di Suite francese, il romanzo che nel 2004 strappò la scrittrice dall'oblio dopo la morte ad Auschwitz. Racconti, appunti, bozze, critiche teatrali, il confronto-scontro fra teatro e cinema e lo spietato saggio su una delle figure centrali della sua opera, quella degli effimeri «re di una notte», gli alchimisti di Levante, capaci di trasformare ogni affare in oro e subito dopo in polvere.

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Informazioni

«Suite francese». Nuove traduzioni e testi inediti

Capitoli 4 e 25 di Temporale di giugno,

prima sezione di Suite francese

Edizione 2004*

Capitolo 4

I Maltête di Lione avevano lasciato in eredità ai Péricand non solo il loro patrimonio, ma anche una predisposizione alla tubercolosi. La malattia aveva stroncato prematuramente due sorelle di Adrien Péricand. Anche il reverendo Philippe ne era stato colpito qualche anno prima, ma due anni trascorsi in montagna sembravano averlo guarito nel momento stesso in cui veniva finalmente ordinato sacerdote. I polmoni restavano però deboli e, alla dichiarazione di guerra, fu riformato. Pur tuttavia, il suo aspetto era quello di un uomo robusto. Aveva un bel colorito, folte sopracciglia brune e un’aria da sano campagnolo. Era parroco in un paesino dell’Auvergne. Quando si era manifestata la vocazione, la signora Péricand lo aveva lasciato al Signore. In cambio si era augurata un po’ di gloria mondana e che egli fosse destinato a incarichi prestigiosi piuttosto che all’insegnamento del catechismo ai contadinelli del Puy-de-Dôme. In mancanza di ruoli importanti all’interno della Chiesa, avrebbe preferito per lui un chiostro piuttosto che quella povera parrocchia. «Che spreco», gli diceva con fermezza. «Sprechi i doni che il buon Dio ti ha dato». Ma si consolava pensando che il clima rigido gli conveniva. L’aria di alta montagna che aveva respirato per due anni in Svizzera sembrava essergli diventata necessaria. A Parigi ritrovava le strade, le percorreva a grandi passi agili e allungati che facevano sorridere i passanti, poiché l’abito talare non si addiceva a quell’andatura.
Fu così che quella mattina si fermò davanti a una casa grigia, entrò in un cortile che puzzava di cavolo: l’Opera dei Piccoli Redenti del XVI occupava un piccolo edificio costruito dietro un’alta palazzina di stile borghese. Come scriveva la signora Péricand nella lettera annuale indirizzata agli amici dell’opera (membro fondatore, 500 franchi l’anno; sostenitore, 100 franchi; socio, 20 franchi), i ragazzi vi vivevano nelle migliori condizioni materiali e morali possibili, facendo il loro apprendistato nei diversi mestieri, dedicandosi a una sana attività fisica: accanto alla casa era stato costruito un piccolo magazzino a vetri; lì si trovava un laboratorio di falegnameria e un banco da lavoro per calzolai. Attraverso le vetrate il reverendo Péricand vide le teste rotonde dei pupilli sollevarsial rumore dei suoi passi. In un’aiuola del giardino, fra la scalinata esterna e il magazzino, due ragazzi di quindici e sedici anni stavano lavorando agli ordini di un sorvegliante. Non indossavano l’uniforme. Non si era voluto perpetuare il ricordo dei riformatori che certuni di loro conoscevano già. Era vestiti con abiti confezionati da persone caritatevoli che utilizzavano poi per sé i resti del tessuto. Uno dei ragazzi portava un maglione verde mela che gli lasciava scoperti i lunghi polsi magri e pelosi. Rivoltavano la terra, strappavano le erbacce, rinvasavano le piantine di fiori con perfetta medesima disciplina e in silenzio. Salutarono padre Péricand che sorrise loro. Il volto del sacerdote era calmo, l’espressione severa e un po’ triste. Ma il sorriso aveva una grande dolcezza e un poco di timidezza insieme a un tenero rimprovero: «Io vi amo, perché voi non mi amate?», sembrava dire. I ragazzi lo guardavano e tacevano.
«Che bel clima», mormorò.
«Sì, signor curato», risposero con voci fredde e trattenute.
Philippe rivolse loro ancora qualche parola poi entrò nell’atrio. La casa era grigia e pulita, la stanza, in cui si trovava quasi spoglia. Due sedie impagliate ad arredarla; era il parlatorio dove si faceva visita ai pupilli, cosa tollerata ma non incoraggiata! Del resto erano quasi tutti orfani. Talvolta, a qualche vicina che aveva conosciuto i genitori morti, a qualche sorella maggiore sistemata in provincia che si ricordava di loro era concesso di andarli a trovare. Ma padre Péricand non aveva mai incontrato un essere umano in quel parlatorio.
L’ufficio del direttore dava sullo stesso pianerottolo. Il direttore era un omino pallido con le palpebre rosate, il naso aguzzo e fremente come un muso animale che fiuta il cibo. I pupilli lo chiamavano «il topo» o «il tapiro». Tese le braccia verso Philippe, le mani erano fredde e umide.
«Non so come ringraziarla della sua cortesia, signor curato! È veramente disposto a occuparsi dei nostri pupilli?».
I ragazzi dovevano essere sfollati il giorno dopo. Lui era stato chiamato d’urgenza nel Midi al capezzale della moglie ammalata...
«Il sorvegliante teme che sarà troppo per lui, e pensa di non farcela, da solo, con i nostri trenta ragazzi».
«Sembrano così docili», osservò Philippe.
«Ah! Sono dei bravi ragazzi. Noi li ammansiamo, teniamo a bada i più ribelli. Ma, non per vantarmi, sono io che mando avanti tutto qui. I sorveglianti sono fiacchi. Del resto, la guerra ci ha privati di questo, di quello...».
Fece una smorfia.
«Bravissimi se non li si allontana dalle loro abitudini, ma incapaci della più piccola iniziativa, gente che annegherebbe in un bicchier d’acqua. Insomma, non sapevo a che santo votarmi per condurre al meglio questo sfollamento, quando suo padre mi ha detto che lei passava di qui, che domani sarebbe ripartito per le sue montagne, e che non si sarebbe rifiutato di aiutarci».
«Lo farò molto volentieri. Come pensa di far partire questi ragazzi?».
«Abbiamo potuto procurarci due camion. Abbiamo benzina in quantità sufficiente. Lei sa che il luogo di destinazione è a una cinquantina di chilometri dalla sua parrocchia. Ciò non le allungherà troppo la strada».
«Sono libero fino a giovedì», disse Philippe. «Mi sostituisce un confratello».
«Oh! Il viaggio non durerà poi così tanto. Suo padre mi diceva che lei conosce la casa messaci a disposizione da una delle nostre benefattrici. È un grande edificio in mezzo ai boschi. La proprietaria lo ha ereditato l’anno scorso e tutto l’arredamento, che era molto bello, è stato venduto poco prima della guerra. I ragazzi potranno accamparsi nel parco. Con questa bella stagione per loro sarà una gioia! All’inizio della guerra hanno trascorso in questo modo tre mesi in un altro castello, nel Corrèze, offertoci gentilmente da un’altra di queste dame benefiche. Là non c’era nessun riscaldamento. Al mattino bisognava rompere il ghiaccio nelle brocche. I ragazzi non si sono mai comportati meglio. Non è più tempo di comodità», disse il direttore, «né degli agi della pace».
Philippe guardò l’ora.
«Mi farebbe l’onore di pranzare con me, signor curato?».
Philippe rifiutò. Era arrivato a Parigi la mattina stessa, aveva viaggiato tutta la notte. Temeva un qualche colpo di testa da parte di Hubert ed era venuto a prenderlo, ma la famiglia partiva quel giorno stesso per la Nièvre. Philippe contava di assistere alla partenza: non sarebbe stato di troppo il dare una mano, pensò sorridendo.
«Vado ad annunciare ai ragazzi che lei mi sostituirà», disse il direttore. «Forse vorrà rivolgere loro due parole per stabilire un primo contatto con quei giovani. Contavo di farlo io stesso, di innalzarli alla consapevolezza delle guerre attraversate dalla patria, ma parto alle quattro e...».
«Gli parlerò io», disse padre Péricand.
Abbassò lo sguardo, si posò sulle labbra la punta delle dita congiunte. Un’espressione di severità e di tristezza fece capolino sul suo volto, entrambe dirette contro sé stesso, contro il suo intimo cuore. Egli non amava quegli infelici. Li avvicinava con dolcezza, con tutta la buona volontà di cui era capace, ma in loro presenza provava solo freddezza e ripugnanza, nessun impulso d’amore, nulla di quel palpito divino che i peccatori più miserabili ispirano quando implorano la grazia. C’era più umiltà nelle fanfaronate di un ateo, di un bestemmiatore incallito che nelle parole o negli sguardi di quei giovani. La loro apparente docilità era spaventosa. Nonostante il battesimo, nonostante i sacramenti della comunione e della confessione, nessun raggio di salvezza scendeva su di loro. Figli delle tenebre, non possedevano neppure sufficiente forza spirituale per elevarsi fino a desiderare la luce; non la avvertivano, non la bramavano, non la rimpiangevano. Padre Péricand pensò con tenerezza ai suoi bravi bimbi del catechismo. Oh! Non si faceva troppe illusioni nemmeno sul loro conto. Sapeva già che in quelle giovani anime il male aveva radici profonde, robustissime, ma a tratti quali sbocci di tenerezza, quanta grazia innocente, quali scosse di pietà e di orrore quando lui parlava del martirio di Cristo. Aveva fretta di ritrovarli. Pensò alla cerimonia delle prime comunioni fissata per la domenica successiva.
Nel frattempo seguiva il direttore nella sala dove erano stati riuniti i pupilli. Le imposte erano state chiuse. Nell’oscurità non vide un gradino, incespicò e, per non cadere, dovette aggrapparsi al braccio del direttore. Guardò i ragazzi, aspettando, sperando in uno scoppio di risa soffocato. A volte, un ridicolo incidente del genere basta a rompere il ghiaccio fra maestri e allievi. Ma no! Nessuno di loro fiatò. Volti pallidi, labbra serrate, occhi bassi, stavano in piedi a semicerchio, la schiena contro la parete, i più giovani in prima fila. Questi avevano dagli undici ai quindici anni. Erano quasi tutti bassi per la loro età, e gracili. Dietro si trovavano gli adolescenti dai quindici ai diciassette anni. Alcuni avevano la fronte bassa, grosse mani da assassini. Di nuovo, non appena si trovò alla loro presenza, padre Péricand provò uno strano sentimento di avversione, e quasi di paura. Doveva superarlo a ogni costo. Avanzò verso di loro, e quelli indietreggiarono impercettibilmente come se volessero sprofondare nel muro.
«Ragazzi miei, a partire da domani e fino al termine del nostro viaggio sostituirò il signor direttore», disse. «Già sapete che state per lasciare Parigi. Solo Dio conosce la sorte riservata ai nostri soldati, alla nostra cara Patria, e Lui solo, nella sua infinita saggezza, conosce la sorte riservata a ciascuno di noi nei giorni a venire. Ahimè, è infinitamente probabile che tutti noi soffriremo nel nostro intimo, perché le disgrazie pubbliche sono fatte di una moltitudine di disgrazie private, ed è il solo caso in cui, poveri ingrati e ciechi che altro non siamo, diveniamo consapevoli della solidarietà che ci lega, noi membri di uno stesso corpo. Quello che vorrei da voi è un atto di fiducia in Dio. Con le labbra ripetiamo: “Sia fatta la tua volontà”, intanto che dentro di noi gridiamo: “Sia fatta la mia volontà, o Signore”. Eppure, perché mai cerchiamo Dio? Perché speriamo nella felicità: l’uomo è fatto in modo da desiderare la felicità, e questa felicità, Dio può darcela subito, senza aspettare la morte e la Risurrezione, se noi accettiamo la Sua volontà, se facciamo nostra quella stessa volontà. Miei cari ragazzi, affidatevi a Dio. Rivolgetevi a Lui come a un padre, mettete la vostra vita nelle Sue mani inviolabili e la pace divina scenderà su di voi».
Attese un istante, li guardò.
«Ora diremo insieme una breve preghiera».
Trenta voci acute, indifferenti, recitarono il Padrenostro, trenta volti magri stavano intorno al sacerdote; le fronti si chinarono con un movimento brusco, meccanico quando egli fece sopra di loro il segno della croce. Solo un ragazzino dalla bocca larga e corrucciata volse lo sguardo verso la finestra e il raggio di sole che filtrava tra le imposte chiuse illuminò una guancia delicata, ricoperta di lentiggini, un nasino contratto.
Nessuno di loro si mosse, né rispose. Al fischio del sorvegliante si misero in fila e uscirono dalla sala.

Capitolo 25

Quando si ritrovò sulla strada con i ragazzi, che portavano ciascuno una coperta e un tascapane e lo seguivano strascicando i piedi nella polvere, padre Péricand si era diretto verso l’interno del paese, allontanandosi dalla Loira piena di pericoli e procedendo verso i boschi, ma la truppa si era già accampata e il prete pensò che i soldati sarebbero stati presto avvistati dagli aerei e il pericolo era altrettanto grande lì nel bosco che lungo il fiume. Così, abbandonando la statale, si incamminò lungo una stradina sassosa, quasi un sentiero, fidandosi del proprio istinto per farsi portare a una qualche dimora isolata, come quando, in montagna, guidava il suo gruppo di sciatori verso un rifugio sperduto nella nebbia o nella tormenta di neve. Questa, invece, era una magnifica giornata di giugno, così luminosa e calda che i ragazzi ne erano inebriati. Silenziosi fino a quel momento, e buoni, troppo buoni, ora si spintonavano, gridavano, e a padre Péricand arrivavano risate e brani soffocati di canzoni. Tese l’orecchio, colse un ritornello osceno sussurrato alle sue spalle, come in un bisbiglio a fior di labbra. Propose loro di cantare in coro una marcia. Fu lui a iniziare scandendo vigorosamente le parole, ma solo qualche voce lo seguì. Pochi istanti dopo tutti tacquero. Così anche lui si mise a camminare in silenzio, domandandosi quali oscuri desideri, quali sogni quell’improvvisa libertà risvegliasse in quei poveri ragazzi. Uno dei piccoli si fermò di colpo e gridò: «Una lucertola, oh! Una lucertola! Guardate!». Fra due pietre al sole apparivano e sparivano agili code, spuntavano testoline piatte; gole palpitanti si sollevavano e riabbassavano, pulsando rapide e sgomente. I ragazzi guardavano stregati. Qualcuno si era perfino inginocchiato sul sentiero. Il prete pazientò per alcuni secondi, poi diede il comando di riprendere il cammino. Docili, i ragazzi si rimisero in piedi, ma nello stesso istante le loro dita scagliarono dei sassi con una tale abilità, e una rapidità così sorprendente che due lucertole, le più belle, le più grandi, di un grigio delicato quasi azzurro, furono uccise sul colpo.
«Perché lo avete fatto?», esclamò il prete risentito.
Nessuno rispose.
«Perché? È da vili!».
«Ma sono come le vipere, mordono», disse un ragazzo dalla faccia smorta, smarrita e un lungo naso a punta.
«Che sciocchezza! Le lucertole sono inoffensive».
«Ah! Non lo sapevamo, signor curato», replicò quello con una voce da delinquente e una finta innocenza che non ingannarono il prete.
Ma questi pensò che non fosse né il luogo né il momento di rimproverarli; si limitò a chinare brevemente il capo come fosse soddisfatto della risposta, aggiungendo però:
«Adesso lo sapete».
Li fece mettere in fila. Fino a quel momento li aveva lasciati camminare nell’ordine che piaceva loro, ma all’improvviso era stato attraversato dal pensiero che qualcuno di loro avrebbe potuto decidere di scappare. Gli obbedirono con fare così impeccabile, così meccanico, abituati com’erano ai comandi del fischietto, a mettersi in fila, alla docilità, al silenzio obbligato che gli si strinse il cuore. Percorse con lo sguardo quei visi divenuti improvvisamente pallidi, spenti, chiusi come può esserlo una casa dalla porta sprangata, l’anima ripiegata in sé stessa, o assente o morta. E disse:
«Dobbiamo sbrigarci se vogliamo trovare un rifugio per la notte, ma non appena saprò dove dormiremo e non appena avremo cenato (perché tra un po’ comincerete ad aver fame!) potremo accendere un falò e restare fuori finché vorrete».
Camminò in mezzo a loro, parlando dei suoi ragazzi dell’Auvergne, dello sci, delle gare in montagna, sforzandosi di interessarli, di avvicinarli a lui. Sforzo vano. Sembrava che non lo ascoltassero; capì che le parole che venivano rivolte loro, incoraggiamenti, rimproveri, insegnamenti, non avrebbero mai potuto penetrarli, perché vi opponevano un’anima chiusa, murata, sorda e muta.
«Se solo potessi tenerli con me più a lungo», pensò. Ma nel suo cuore sapeva di non desiderarlo. Non desiderava che una cosa: sbarazzarsi di loro al più presto, sgravarsi di quella responsabilità e del disagio che gli procuravano. La legge d’amore che fino a quel momento aveva ritenuto quasi facile, tanto era grande in lui la grazia di Dio, pensava egli con umiltà, ecco che ora non riusciva ad assecondarla, «proprio quando, forse per la prima volta da parte mia, sarebbe uno sforzo meritorio, un vero e proprio sacrificio. Come sono debole!». Chiamò a sé uno dei più piccoli che restava continuamente indietro.
«Sei stanco? Ti fanno male le scarpe?».
Sì, aveva indovinato: le scarpe del ragazzino erano troppo strette e lo facevano soffrire. Lo prese per mano per aiutarlo a camminare, gli parlò con dolcezza e, siccome camminava male, con le spalle e la schiena curve, gli strinse leggermente il collo tra due dita per obbligarlo a raddrizzarsi. Il ragazzino non si ribellò. Anzi, con gli occhi rivolti altrove, il viso indifferente, appoggiò il collo alla mano e quella pressione tacita, insistente, quella strana, quell’equivoca carezza, o meglio quell’attesa di una carezza, fecero salire il sangue al volto di padre Péricand. Allora alzò il mento del bambino e cercò di fissarlo negli occhi, ma, sotto le palpebre abbassate, quegli occhi erano invisibili.
Affrettò il passo, sforzandosi di concentrarsi, come faceva sempre nei momenti di tristezza, in un’orazione interiore; non era una vera e propria preghiera. Spesso non erano neppure parole usate nel linguaggio umano. Era una specie di contemplazione ineffabile dalla quale usciva impregnato di gioia e di pace. Ma oggi entrambe gli sfuggivano. La pietà che provava era guastata da un pizzico di inquietudine e di amarezza. A quelle povere creature mancava evidentemente la grazia: la Sua grazia. Avrebbe voluto farla scendere su di loro, inondare di fede e d’amore quegli aridi cuori. Certo, bastava un sospiro del Cristo crocifisso, un battito d’ali di uno dei suoi angeli perché il miracolo si compisse, ma lui, Philippe Péricand, n...

Indice dei contenuti

  1. L’officina teorica di Irène Némirovsky
  2. Nota ai testi
  3. Re di un’ora
  4. Recensioni & altri scritti
  5. «Suite francese». Nuove traduzioni e testi inediti
  6. Nota biografica
  7. Adattamenti
  8. Bibliografia essenziale
  9. Note
  10. Indice