Quando il povero non deve pensare
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Quando il povero non deve pensare

Dalla missione alla destituzione

Marco Bassani

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  1. 164 pagine
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Quando il povero non deve pensare

Dalla missione alla destituzione

Marco Bassani

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"Se non potete eliminare l'ingiustizia, raccontatela a tutti". A partire da questo invito di Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace 2003, l'autore racconta la sua esperienza missionaria vissuta in Brasile, interrotta per ragioni discutibili e che aprono a un confronto vero sul rapporto tra Chiesa ed evangelizzazione nei territori più poveri del nostro pianeta.Come può accettare l'ingiustizia chi è rimasto per quindici anni al fianco dei poveri, come don Marco, per dire e testimoniare che la Chiesa è loro vicina, che il Vangelo dice no alla prepotenza, alla passività e poi vedersi impedire la continuità del suo servizio missionario?Una vicenda che interroga su come la normale divergenza tra uomini di Chiesa nasconda talvolta un clericalismo accettato e praticato, che contraddice radicalmente il Vangelo che i sacerdoti annunciano.Leggere questo libro, oggi, ci aiuta anche ad approfondire l'intuizione profetica di papa Francesco, secondo la quale la vicenda della pedofilia tra i religiosi, al di là dell'evidente questione morale, ha portato a galla un ben più profondo e radicato problema: quello dell'autoritarismo nella Chiesa e del potere del clero.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788861537248

CI STAVI AMANDO PIÙ DI QUANTO NOI CI AMASSIMO

Ma tu conosci, Signore, ogni loro progetto di morte contro di me; non lasciare impunita la loro iniquità e non cancellare il loro peccato dalla tua presenza.
Inciampino alla tua presenza; al momento del tuo sdegno agisci contro di essi!
(Ger 18,23)
Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?
(Rom. 8,31)
Questo povero grida e il Signore lo ascolta.
(Sal 34,7)
Quando, nel 2010, fui trasferito dalla mia prima parrocchia brasiliana di Dom Pedro a Grajaù, durante i vari eventi di commiato alcuni membri delle Comunità Ecclesiali di Base mi salutarono con una frase: “Adesso capiamo che quando ci sgridavi tu ci stavi amando più di quanto noi ci amassimo”.
Questa frase mi ha segnato profondamente. La ripeto qui perché, in un certo senso, riassume la ragione del mio ostinato amore verso la gente del Brasile e verso la Chiesa in generale.
Sono i sentimenti che alimentano questo capitolo finale, ambientato fuori dal Brasile, da cui partii nel maggio del 2017.
Dopo di allora, tutto è accaduto rapidamente: riassumo i fatti, per proporre poi una riflessione finale.
Un fatto è l’inaccettabile condotta del vescovo brasiliano dom Rubival. Egli ha deciso ogni cosa all’insaputa dell’arcivescovo di Milano, suo diretto e necessario interlocutore. Il decreto della mia rimozione (agosto 2017) è stato reso noto da me personalmente a monsignor Mario Delpini che molto se ne stupì. “Carissimo don Marco, vengo a sapere per la prima volta delle decisioni prese da quanto tu mi scrivi. Ne sono molto sorpreso” – mi scrisse in una sua email.
Un altro fatto fu il rifiuto categorico di dom Rubival a ricevere il Consiglio pastorale della Parrocchia di Alto Brasil, che con insistenza gli chiedeva udienza. Tuttavia per quell’estate 2017 era già da tempo programmata una visita a Grajaú proprio di monsignor Delpini e così, invece che con il loro vescovo, i miei parrocchiani poterono parlare perlomeno con uno “venuto dall’altra parte del mondo”. L’incontro si tenne il 19 agosto 2017 ed è rimasto encomiabile nella memoria di tutto il Consiglio: almeno in questo caso si sentirono accolti e valorizzati da un pastore della Chiesa. I miei parrocchiani percepirono il desiderio di monsignor Delpini che io rientrassi in Italia per portare a Milano i frutti dell’esperienza brasiliana. Al tempo stesso, però, lui constatò di persona la necessità di una mia permanenza nella Diocesi di Grajaú, per la delicatezza e la singolarità del lavoro che stavamo svolgendo.
Qualche giorno dopo, inaspettatamente, anche dom Rubival ricevette il Consiglio pastorale. Purtroppo non vi fu dialogo né chiarimento, bensì la semplice, intransigente affermazione dell’insindacabile autorità del vescovo. A margine dell’incontro, peraltro, egli affermò di non avere difficoltà verso un mio ritorno in Diocesi: la decisione, disse, spettava solo e unicamente a monsignor Delpini. Il quale, solo pochi giorni prima, aveva ventilato la possibilità di farmi ritornare in Brasile.
Nel frattempo, a fine agosto, alcuni dei miei più stretti collaboratori brasiliani, ovvero Màrcia, Raniere e Rafael, l’avvocato della CPT, sfuggirono nella regione di Bem Feito a un tentativo d’imboscata condotto da un faccendiere e dal suo pistoleiro. I due, alcuni giorni prima, erano andati minacciando per l’ennesima volta i contadini locali, concludendo così le minacce: “Non serve a nulla la vostra resistenza tanto anche padre Marco non tornerà più a Grajaú”.
Come potevano questi personaggi loschi, totalmente estranei agli ambienti ecclesiali, sapere di me? Era evidente che altri interessi, altre dimensioni s’intrecciavano alla questione della mia permanenza in Brasile, inquinando la sua natura.
Monsignor Delpini intanto aveva ben altro a cui pensare: stava infatti succedendo al cardinal Angelo Scola alla testa della Diocesi di Milano. Ciò nonostante percepii il suo sforzo sincero di non abbandonarmi in balia degli eventi. Il 15 settembre mi ricevette, in un’udienza molto intensa e trasparente. Mi riferì tutto l’affetto e la saudade manifestata verso di me dal Consiglio pastorale di Alto Brasil, da lui incontrato poco prima. Aggiunse che dom Rubival non aveva espresso giudizi specifici su di me: alcuni preti gli avevano chiesto di non farmi ritornare nella Diocesi di Grajaú. Quali preti? Perché?
Monsignor Delpini non lo sapeva. Da un lato egli riconosceva necessario che io tornassi a lavorare con quella porzione del Popolo di Dio, dall’altro mostrò tutta la sua giusta preoccupazione per le nuove condizioni in cui mi sarei trovato: le calunnie venute allo scoperto, la non trasparente posizione del vescovo di Grajaú e infine le ormai chiare interferenze politico-mafiose soggiacenti all’intera vicenda.
A parole dom Rubival continuava a dichiarare che la decisione su un mio ritorno in Brasile spettava al solo monsignor Delpini, ma i fatti parlavano di altro. Nella realtà egli sfuggiva a ogni mio tentativo di chiarimento, evitando di rispondere ai miei ripetuti messaggi inviatigli per posta elettronica e per WhatsApp.
Infine la situazione si chiarì con una lettera da lui inviata il 15 ottobre 2017 all’arcivescovo di Milano. Dopo aver dichiarato che tutti i miei incarichi e i miei servizi erano stati affidati ad altri, il vescovo così concludeva: “Portanto, não há necessidade da presença, nem dos trabalhos do Padre Marcos Bassani na Diocese de Grajaú” (Pertanto, non abbiamo bisogno della presenza né del contributo pastorale di padre Marco Bassani nella Diocesi di Grajaú).
Fu lo stesso monsignor Delpini a comunicarmi il contenuto di questa missiva nel corso di un’udienza privata, vissuta da entrambi con grande commozione e tristezza.
Concludo con alcune riflessioni. Ho trascorso quindici anni in terra brasiliana cercando di dare fede, ma anche speranza alla gente: la Chiesa è dalla loro parte perché il Vangelo è dalla loro parte. Rassegnarsi di fronte alle ingiustizie, da qualunque parte provengano, è sbagliato.
Ora però una grave ingiustizia viene perpetrata, contro di loro prima ancora che contro di me. Un’intera comunità diocesana rimane vittima di una logica distorta e inaccettabile. All’inizio del 2018 fu presentata al vescovo dom Rubival una petizione con 1800 firme raccolte in tutta la Diocesi, ma fu da lui rifiutata come ogni altro tentativo precedente.
Che fare? Rassegnarsi, cedere, girarsi dall’altra parte? È evangelico un simile comportamento?
Lo chiedo a me, prima che a voi. Un prete deve obbedire al vescovo e io ho rinunciato a rientrare in Brasile per continuare la lotta in altro modo. In questo senso ho obbedito, anche se qui la questione è più complessa, perché nella mia posizione di prete fidei donum mi trovo ad avere non un solo vescovo a cui obbedire ma due, uno dei quali, per quel che mi è dato capire, ha ingannato l’altro.
Il caso supera però la mia semplice persona. Ad Alto Brasil e a Remanso da circa un anno e mezzo si è interrotto il grande movimento popolare che sostiene la ristrutturazione delle due Chiese; anche perché, non si sa come, dal conto corrente della parrocchia sono spariti circa 80 mila reais, una somma frutto non di donazioni dall’estero, ma unicamente dell’impegno e del sacrificio di tanta povera gente. A dom Pedro è stata chiusa la sede diocesana della Pastorale della terra. Coloro che hanno partecipato più direttamente al rinnovamento diocesano hanno dovuto abbandonare il loro impegno. Qualcuno (per me è il dolore più grande) è arrivato a lasciare la stessa Chiesa Cattolica.
In gioco c’è una visione di Chiesa e un modo di fare Chiesa. Abbiamo oggi un Papa che dichiara apertamente: “Voglio una Chiesa povera per i poveri”, e ancora: “Il discepolo missionario di Gesù deve andare verso tutte le periferie umane”. A noi però è stato proibito da un vescovo e una parte del suo clero di vivere queste dimensioni evangeliche nei confronti dei poveri e degli oppressi.
In gioco ci sono anche interessi economici e pressioni politiche, è ovvio. La Chiesa è non solo il Corpo di Cristo ma anche una società umana e da sempre deve convivere con queste interferenze materiali. Conoscerle è il primo modo per opporsi a esse: anche a questo scopo è nato il libro che state concludendo.
Se non potete eliminare l’ingiustizia, raccontatela a tutti. (Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace 2003)
Esistono poi interferenze per così dire interne: c’è la malapianta del clericalismo, per il quale ciò che un vescovo decide è inoppugnabile, anche quando contrasta con il Vangelo.
Fino a quando una situazione come quella che ho vissuto io, in prima persona, dovrà essere trattata come normale divergenza tra uomini di Chiesa e non, invece, come espressione del peggior clericalismo, che contraddice radicalmente il Vangelo che annunciamo?
Vi lascio questa domanda, che indica un compito, una missione, per me e per la Chiesa intera.
Concludo nel segno della fede, e della speranza. La Chiesa possiede gli anticorpi per reagire ai propri mali e ai propri errori: la grazia di Dio spezza le catene e rialza chi è caduto. Mi rivolgo qui anzitutto ai miei amici brasiliani. Senza speranza, cosa diventeremmo? Vedere luce dove gli altri vedono buio è il compito dei profeti. Tutti lo possiamo diventare, Dio ci chiama tutti a diventarlo, anche e soprattutto nell’ora della sofferenza.
Quel buio del male si può combattere: servono le armi, congiunte, della speranza e della giustizia. E se per affilare meglio quelle armi dovesse servire la persecuzione, ben venga anche la persecuzione.
Solo la Verità può renderci veramente liberi, tutti.
1. Dono della fede, termine entrato nel linguaggio ecclesiale a partire dal documento di papa Pio XII del 21 aprile 1957, che sancì la possibilità, anche per i sacerdoti diocesani, di vivere un’esperienza missionaria a servizio di una Chiesa del Sud del mondo. Questo servizio è regolato da un contratto tra le due diocesi interessate. Con il passare del tempo la Chiesa italiana ha ritenuto opportuno suggerire che tale esperienza si prolungasse non oltre i 12 anni, indicativamente, in modo che i missionari potessero poi riportare in patria i frutti della loro esperienza missionaria. Questa indicazione temporale non è tassativa e vincolante, ma soggetta a diverse variabili.
2. Comunidade Eclesial de Base. La comunità minima, su base territoriale, nata nel post Concilio a seguito della suddivisione delle gigantesche parrocchie brasiliane. Inizialmente le CEBs nacquero per ridurre le grandi distanze esistenti tra la Chiesa parrocchiale e i paesi più distanti. Ben presto, però, questa scelta pastorale si rivelò molto feconda per superare il centralismo della parrocchia tradizionale di stampo tridentino e per favorire il recupero della dimensione biblica della comunità dei credenti, sul modello degli Atti degli Apostoli.
Le tre dimensioni fondamentali di una CEB sono:
1) Centralità della Parola, meditata comunitariamente nei circoli biblici, secondo la metodologia della lettura popolare della Bibbia, basata sulla trilogia: vedere, giudicare, agire.
2) Ministerialità laicale diffusa: i vari compiti e responsabilità per il buon funzionamento della CEB sono assunti dai laici, organizzati nei vari consigli comunitari.
3) Interazione della CEB con la realtà socio-culturale del territorio in cui vive. Questa inserzione è marcata dalla consapevolezza/responsabilità dei cristiani verso il mondo, per trasformarlo in Regno di Dio.
3. Senza tetto. Nella realtà delle sterminate periferie brasiliane, il termine indica in senso lato i molti che, per le loro precarie condizioni economiche, non possiedono una casa propria e devono quindi vivere in alloggi angusti, insalubri e spesso sperimentare frequenti cambiamenti di abitazione. Tale piaga sociale ha mosso la nascita di vari movimenti organizzati con l’intento di fare pressione sulle autorità competenti in modo che sia riconosciuto il diritto ad avere una casa dignitosa.
4. Senza terra. Il termine indica quella vasta gamma di contadini che, pur vivendo del lavoro agricolo, non sono proprietari di alcun appezzamento. A causa delle scandalose dimensioni di milioni di ettari di terra improduttiva, negli anni Ottanta questi contadini diedero vita al Movimento Sem terra, che intende organizzare questi contadini, renderli edotti dei loro diritti umani e costituzionali, individuare le terre adatte per l’eventuale esproprio, forzare gli organi competenti, quando (ed è la maggioranza dei casi) si oppongono di fatto alle legittime richieste dei contadini. Negli anni Duemila, anche a causa dell’insediamento al potere del governo Lula, ingenuamente ritenuto un governo popolare, il movimento ha subito un grave ridimensionamento. Ciò nonostante continua ad essere il maggior movimento popolare ...

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