Mistica arte. Lettere sulla politica
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Mistica arte. Lettere sulla politica

don Tonino Bello

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Mistica arte. Lettere sulla politica

don Tonino Bello

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La politica è anzitutto arte. Il che significa che chi la pratica deve essere un artista. Un uomo di genio. Una persona di fantasia. Disposta sempre meno alle costrizioni della logica di partito e sempre più all'invenzione creativa che gli viene chiesta dalla irripetibilità della persona. La politica è, poi, arte nobile perché legata al mistico rigore di alte idealità. Nobile, perché emergente di incoercibili esigenze di progresso, di pace, di libertà. La politica è, infine, arte difficile perché richiede, nei credenti in modo particolare, la presa di coscienza della autonomia della politica da ogni ipoteca confessionale e il riconoscimento della sua laicità e della sua mondanità.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788861533288

Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini*

Coraggio, Chiesa! Vai alla ricerca degli ultimi sul tuo
territorio. Il loro nome è: moltitudine!
Il rischio che corrono i grandi fatti della fede è duplice: o quello di avere i giorni contati, come certi avvenimenti che esauriscono la loro vitalità nell’arco della celebrazione, dopo di che boccheggiano e muoiono. O quello di essere sottoposti a una specie di artrosi deformante che si chiama “mitizzazione”.
Li si fa diventare, cioè, così ossessivamente quadro di riferimento per ogni sospiro ecclesiale, che si finisce per atrofizzare lo stimolo alla ricerca successiva, l’ansia di strade nuove, la fecondità della fantasia, l’invenzione per il futuro.
Il convegno di Loreto né vuole essere ridotto a vitello d’oro che si offre ai nostri inconfessati bisogni di idolatria; né vuole essere considerato chiuso e impagliato, quasi pendente, come certi souvenirs, dalle pareti della nostra memoria religiosa.
Lo slogan “verso Loreto e oltre”, che circolava prima del convegno, è molto significativo. Così pure mi è parso di buon auspicio che lo stesso convegno abbia avuto una fase preparatoria molto ridotta, quasi per volersi giocare tutta la forza propositiva sul versante successivo alla sua celebrazione.
Ora, quindi, tocca a noi.
Ora che le luci del proscenio sono spente, dobbiamo scendere sul terreno della concretezza, riconciliandoci con la quotidianità, compiendo scelte precise, prendendo orientamenti credibili.
Ora le parole devono tradursi in atteggiamenti di vita.
A Loreto c’è la santa Casa dove, secondo la tradizione, la Parola si è fatta carne. Ecco: il monito più forte che parte dal convegno è proprio questo. Dare corpo alle parole; rivestire di carne la verità; offrire allo Spirito Santo una struttura di vissuti perché il Signore torni a essere l’Emmanuele, cioè il Dio con noi! Quali segnali, allora, si accendono da Loreto per il futuro che incombe sul cammino della nostra Chiesa? Con un procedimento apparentemente riduttivo provo a enucleare alcuni punti nodali: una specie di decalogo propositivo, sul quale non solo richiamo la vostra attenzione, ma oso porre la questione di fiducia.

Legittimità del pluralismo

Per spiegare una cosa così grossa senza essere frainteso, mi occorrerebbe molto tempo.
Comunque, porto un’immagine.
Facciamo conto che il Vangelo sia un chiodo attaccato al muro, e che noi dobbiamo appendervi i nostri abiti. Ebbene, ci sono alcuni che pretendono di appendere i propri vestiti direttamente al chiodo. Per intendersi, sono quelli dell’integrismo. Ci sono altri che dicono: no, tra il chiodo e gli abiti ci deve stare l’attaccapanni, che può essere a più pioli.
I sostenitori del primo modo di vedere affermano che tra Vangelo e opzioni concrete, tra Parola e Storia, vi è identità, filo diretto, legame immediato, dipendenza univoca.
Gli altri, invece, sostengono che tra Vangelo e scelte quotidiane c’è la trafila delle cosiddette “mediazioni culturali”, che noi, banalizzando, abbiamo chiamato attaccapanni, e concludono: “Una medesima fede può condurre a impegni diversi”. Che poi, è una conclusione dell’Octogesima Adveniens (n. 50). Anzi, per essere più precisi dicono: la medesima fede può animare culture diverse; e da una medesima cultura possono derivare più scelte diverse.
Purtroppo, questa seconda visione non è ancora sufficientemente filtrata nella coscienza di tutta la Chiesa, neppure della nostra chiesa locale. Ma è questa la posizione chiara, inequivocabile, non solo del convegno di Loreto, ma di innumerevoli documenti del Magistero e, prima ancora, della Gaudium et Spes (n. 43).
Che cosa deriva da questa visione?
1. Che il messaggio cristiano “non può essere identificato con nessuna proposta mondana, con nessuna ideologia, e perciò che anche la Chiesa, creatura della Parola, non accetta di essere identificata con alcuna forma storica, gruppo di interessi o partito che sia. Il danno che ne deriva alla credibilità del messaggio da una simile identificazione è incalcolabile”.
Il costo pastorale dell’incauta identificazione della Chiesa con una parte politica, ai fini della evangelizzazione, alla lunga risulta sempre carissimo. Questo del pluralismo, amici miei, è un principio che non dobbiamo svendere. Se no, facciamo come certi sprovveduti che, per avere oggi l’utilità di un mobile moderno e luccicante, cedono in cambio pregiatissimi pezzi di antiquariato, per il cui baratto domani si pentiranno.
2. Questo non significa che tutti i programmi e tutte le scelte siano indifferenti per la fede cristiana. “Alcune di esse sono chiaramente incompatibili o per la loro matrice culturale o per le finalità e i contenuti che perseguono o per i metodi di azione che propongono soprattutto in relazione ai grandi valori quali: la vita umana, le libertà democratiche, i diritti e i doveri dell’uomo, il lavoro, la giustizia, la pace, lo sviluppo…” (Chiesa Italiana e prospettive nel paese, 37).
Come dire: ci sono degli attaccapanni che non sono legati al chiodo del Vangelo. Il cristiano, allora, nel confronto con i suoi fratelli nella fede, nell’ascolto pensoso di quanto il magistero della Chiesa suggerisce, e nel sacrario inviolabile della sua coscienza, deve costantemente chiedersi se le sue scelte concrete, risalendo per i gradini delle mediazioni culturali, si collegano col Vangelo.
3. Questo significa che l’unità dei credenti va ricercata a monte delle mediazioni storiche, culturali e politiche; va ricercata nell’essenziale (fede, vita sacramentale e di preghiera, carità…).
Non va necessariamente ricercata anche nelle scelte politiche o di partito. Se sia opportuno ricercare l’unità anche nelle scelte politiche appartiene al giudizio della storia, non a quello della fede. A ogni modo, il consenso politico non si può esigere nel nome della fede. Diversamente, si farebbe un uso ideologico e strumentale della fede stessa. In politica, quindi, i cristiani devono ottenere il consenso non nel nome di Gesù Cristo, ma nel nome del programma valido, della loro onestà, della loro capacità politica e professionale.
4. Chiaramente, questo non significa sconfessare il fatto che i credenti ricerchino l’unità anche sul versante di precise scelte politiche e di partito, o, per tornare all’immagine, che appendano i loro abiti su un preciso versante dell’attaccapanni. L’unità è sempre un valore. Anche quella dei cristiani in campo politico. Ma va chiesta non con argomentazioni desunte dalla Parola di Dio. Bensì con ragioni di avvedutezza umana. E mai con lo stile di chi si rifugia nel bunker o cerca protezione nel ghetto.

Riproposta della scelta religiosa

Una delle espressioni che negli ultimi venti anni si è andata affermando nella cultura cattolica italiana, ma che ancora non è stata compresa fino in fondo (al punto che ha subìto parecchi attacchi di riduzione e numerosi tentativi di sconfessione), è quella che suona così: “scelta religiosa”.
Che non è una comoda fuga mundi. Non è una forma di latitanza spiritualista. Non è la candida adesione a un Dio senza mondo, altrettanto pericolosa che l’adesione a un mondo senza Dio. Non è il sentimentale rifugio in un pietismo sterile, appartato dalle angosce reali e dal turbine dell’azione. Non è la scelta del disimpegno o della diserzione dalle barricate.
Scelta religiosa non è la scelta di un ambito dove essere presenti (coincidente, magari, con la sagrestia). Ma è la scelta di un modo di essere presenti.
Scelta religiosa non significa che la Chiesa non abbia nulla da dire o a che fare con tutto ciò che concerne il campo sociale, civile e politico. Significa, invece, che non tocca alla Chiesa elaborare in questi ambiti scelte dirette; bensì formare, con precisi strumenti di analisi e di studio, persone capaci di andare anche sulle frontiere esposte del sociale, del civile e del politico per testimoniare i valori cristiani.
Quando poi questi credenti (che hanno vissuto, per esempio, la militanza in un gruppo ecclesiale o in Azione Cattolica) decidono di vivere in presa diretta il loro impegno sociale, civile e politico, devono esporsi non in nome dell’A-zione Cattolica o del gruppo ecclesiale di appartenenza, ma impegnando esclusivamente le loro responsabilità personali e collegandosi variamente in libere aggregazioni.
Non c’è una politica cristiana, così come non c’è una matematica o una chimica cristiana. C’è un modo cristiano di fare politica. La politica ha una laicità che deve essere preservata da ipoteche confessionali. Ci sono – questo sì – dei cristiani che fanno politica. Sicché, più che la “politica della testimonianza”, secondo una formula felice di Aldo Moro, va incoraggiata la “testimonianza nella politica”.
Cari amici, tutta questa ricchezza è stata riproposta in termini audaci e forti nel convegno di Loreto. Rifinendo meglio il concetto di “scelta religiosa”, potremmo dire che essa si fa denunciando, rinunciando, annunciando.
La denuncia si esprime individuando, con analisi puntuali, le cause che provocano ingiustizia o sfruttamento o emarginazione; creando disturbo alla “quiete pubblica” e mettendo a nudo, di volta in volta, i bisogni coperti.
Tale denuncia, dove necessaria, “non potrà essere fermata da alcuna etichetta. Agli uomini politici va chiesta pulizia morale, una prassi di vita trasparente, scelte religiose e convincenti; la delega in bianco non può essere data a nessuno tanto più se si fregia del nome cristiano”.
La rinuncia si esprime rifuggendo dal potere. Rinunciando al gioco delle parti che si manifesta in torbidi ammanigliamenti di interesse. Rifiutando i tornaconti personali o di Chiesa, quando questi sono frutto di contraddizioni sulla verità e di calcoli astuti a danno del bene comune.
L’annuncio si esprime con la formazione delle coscienze all’esercizio del discernimento ispirato alla Parola di Dio. Si esprime allora aiutando cordialmente coloro che si impegnano sul fronte della politica. Senza demonizzazioni di moda. Facendo, anzi, capire che la politica è la forma più intelligente e crocifissa di servizio.
Se è lecita un’autocritica, dobbiamo dire che come Chiesa abbiamo denunciato molto, rinunciato poco, annunciato pochissimo.
È ora di invertire la collocazione di questi avverbi e di cominciare a denunciare di meno, a rinunciare di più e ad annunciare molti...

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