«Com’era bella Roma, allora!».
Quante volte ho sentito ripetere da mio padre queste stesse parole, e lui parlava di un bel po’ di anni prima. E chissà quante altre volte le avrà dette anche suo padre, mio nonno.
Ognuno ha il suo «allora», ognuno a modo suo rimpiange.
Ma la trasformazione di questa città sotto i miei occhi è stata enorme.
Quella che ho conosciuto io
Quella che ho conosciuto io da bambino e poi da adolescente non era certamente la Roma borghese-intellettuale di Moravia o Flaiano, né la Roma borgatara idealizzata da Pasolini, tanto meno quella dei salotti politici e ancor meno quella della dolce vita felliniana.
La mia Roma era una città piccola, un mondo all’antica, un po’ chiuso, perbenista e religioso, colto ma non troppo, oculato nelle spese, legato alle proprie abitudini, pieno di dignità e senso del decoro, orgoglioso del proprio modesto lignaggio, benestante ma non ricco, morigerato e timoroso del nuovo e delle mode, politicamente amorfo anche se tradizionalista nel voto – fedele in questo alle direttive papali.
A Roma io vivo da sempre. Però non ci sono nato.
Da buon romano (era appena scoppiata la guerra) sono andato a nascere in Svizzera, a Sorengo, vicino Lugano, ma a Roma mi ci hanno portato subito, in piena guerra, a pochi mesi dalla nascita.
Poi, una volta aperta la linea gotica nella primavera del 1945, siamo andati tutti (tranne mio padre, costretto a rimanere per prendersi cura dei suoi genitori) dalla nonna materna in un paesino nelle colline astigiane, Piea, dove siamo rimasti più di due anni frequentando, mia sorella Alessandra e io, la prima e la seconda elementare alla scuola del paese. Finché, finalmente, nell’autunno del 1947, abbiamo fatto ritorno nella capitale.
A questa Piea sono però tornato tutte le estati per le vacanze nella grande casa di nostra nonna (il «Castello») che mi è rimasta nel cuore.
Del mio primo periodo romano
Del mio primo periodo romano, precedente al trasferimento in Piemonte, non posso ricordare molto. Ero troppo piccolo. Mi rimangono poche immagini frammentarie collegate in qualche modo alla guerra, basate con tutta probabilità sui racconti dei genitori.
Alcune di queste immagini sono più autentiche, più vivide, come lampi, squarci che si aprono all’improvviso. Risento il suono lungo e lamentoso della sirena, sinistro preannuncio di bombardamento, e mi torna in mente un episodio che per Alessandra e me, bambini, che non potevamo capacitarci delle angosce di quei momenti, era stato motivo di divertimento: avevamo per giocattolo una trottola che, quando la facevamo girare, emetteva un sibilo prolungato e stridente. Oggi nessuno scambierebbe un tale suono per quello di una sirena, ma allora, nello stato di costante apprensione in cui tutti vivevano, è comprensibile che potesse trarre in inganno. E così è stato. Una volta che la facevamo girare, mammina (così chiamavamo nostra madre, e così erano chiamate tutte le mamme nella sua famiglia d’origine) si è precipitata in camera urlando di correre giù in cantina, al rifugio: e noi a ridere.
L’episodio, se per Alessandra e me è rimasto come un ricordo buffo, divertente, è sintomatico del clima di ansia di quei momenti. Credo che da quel giorno la nostra trottola sia stata fatta scomparire.
La sirena suonava di giorno, ma soprattutto la notte.
E così mi pare di rivivere qualcuna delle nostre precipitose fughe notturne in cantina, al buio o a lume di candela, insieme a tutti gli abitanti del palazzo imbacuccati alla bell’e meglio. Non ho nessun concreto ricordo di aerei o bombe, ma solo di quelle assonnate discese giù per le scale, portato in braccio e avvolto in qualche coperta.
Una traccia nebulosa mi resta
Una traccia nebulosa mi resta di bombardamenti a Rocca di Mezzo, dove una volta eravamo andati in villeggiatura nell’estate di non so quale anno, in piena guerra. Ma allora ero veramente troppo piccolo, e può essere che i miei incerti ricordi si siano rinforzati grazie ai racconti dei grandi. Per esempio: i miei raccontavano di una bomba che aveva sfracellato una povera mucca innocente e io, a detta loro, avevo commentato: «E tutto il latte si è versato!».
Sempre in tema di reminiscenze belliche, papà e mammina mi hanno detto, e questo mi pare addirittura di ricordarlo anch’io, che a tre anni cantavo una canzoncina da me inventata che diceva pressappoco così: «Massaccaccio minna morte del destino», da loro considerata totalmente priva di senso, una cosa infantile. Molti anni dopo mi è venuto in mente che quella mia canzoncina probabilmente orecchiava un inno fascista (l’Inno dei sommergibilisti) che in qualche modo dovevo aver ascoltato, un cui verso diceva: «Andar pel vasto mar, ridendo in faccia a Monna Morte ed al destino». Tutto però è confuso e incerto.
Dei tempi dell’occupazione nazista ricordo distintamente una volta in cui Alessandra e io stavamo andando, accompagnati da Viola, una delle due cameriere di nonna, a giocare a Castel Sant’Angelo. Qualcuno ci ferma. La strada è bloccata e, secondo quanto dicono i passanti spaventati, i tedeschi intendono far saltare ponte Umberto. Di corsa ci rifugiamo tutti in un portone di via Monte Brianzo, dove restiamo in silenzio ad aspettare. Ma non si sente nessuna esplosione (in fondo, sarò stato un po’ deluso) e il ponte è intatto.
Rivedo più tardi, e l’immagine ce l’ho ben nitida, l’arrivo degli americani, alti sulle loro jeep, che distribuiscono a piene mani chewing-gum (che da allora si è sempre chiamato «gomma americana»), tavolette di cioccolata, caramelle e pacchetti di sigarette. A noi bambini era proibito accettare alcunché: «Per dignità !».
Ma in sostanza di quel periodo romano antecedente la partenza per il Piemonte mi rimane ben poco. Un ricordo a parte sono i nonni paterni: nonno Saverio e nonna Antonia. È un ricordo frammentato, poco nitido, circoscritto, che cerco di ricostruire. Dei nonni materni allora non avevo nessuna cognizione. Niente sapevo del nonno Galeazzo morto in Svizzera nel 1944, lasciando in eredità al nostro nascituro fratello il peso di un nome imbarazzante, per quei tempi, politicamente. La nonna materna la conoscerò solo più tardi, quando andremo in Piemonte.
I nonni paterni abitavano in un grande appartamento
I nonni paterni abitavano in un grande appartamento misterioso, vecchio e scuro, comunicante col nostro, cui si accedeva da una porta affacciata su una scaletta scricchiolante. Ma li vedevamo raramente. Papà andava a trovarli tutti i giorni, mentre noi bambini eravamo poco accetti perché nonno, vecchio e molto malato, non sopportava rumori e confusione (credo che anche un po’ ci mettesse paura) e la nonna, malandata pure lei, si chiudeva nella sua privacy con le sue cameriere, Viola ed Ersilia, specie di vestali bigotte che ciabattavano nel buio e nel silenzio dell’antica casa.
Di nonno Saverio so colpevolmente poco, soltanto quel poco che ricordo dai racconti di papà . Nato nel 1858 da un membro della vecchia aristocrazia nera capitolina e dalla figlia dell’ambasciatore d’Austria in Vaticano, vale a dire figlia del rappresentante di una delle massime potenze politiche di allora presso la maggiore autorità spirituale di sempre, nonno Saverio apparteneva per nascita a un mondo arcaico, tradizionale. Nell’album di giovinetta di sua madre, mia bisnonna, austriaca sposata a un romano, in date diverse comparivano (così mi raccontava papà ) la firma del Maresciallo Radetzky e quella di Massimo D’Azeglio.
Molto religioso e fedele al Papato, nonno non doveva essere però di mente ristretta. Studi a Roma al Collegio Romano e poi a Venezia, laurea in Germania. Parlava perfettamente tedesco e francese, e forse anche l’inglese. Si dilettava di pittura e musica e suonava il clarino. Appassionato di fotografia, condivideva questa pionieristica passione con il conte Giuseppe (Gegè) Primoli, suo amico e vicino di casa. Viaggiava in Europa, soprattutto in Austria, dove andava a caccia, e soggiornava spesso a Vienna dove vivevano parenti del ramo materno e dove era ricevuto a Corte. Sportivo quanto si poteva essere allora: montava a cavallo e nuotava «a Tevere». Fra le tante sue varie occupazioni non disdegnava di dedicarsi alla cucina. Pare che fosse buon cuoco, e papà ricordava le marmellate da lui confezionate con i frutti degli alberi che coltivava nel giardino della sua casa di Perugia.
Andava a messa tutte le mattine molto presto. Apparteneva a varie confraternite religiose tra cui quella dei Sacconi, che assistevano i condannati a morte, i poveri, i malati e i carcerati e che nelle loro funzioni andavano scalzi e vestiti di sacco. Era generoso con tutti e ospitava e manteneva una sorella vedova. E non credo fosse un «codino» perché, sorprendentemente, apprezzava i sonetti di Gioachino Belli, persino laddove i versi del poeta potevano suonare non poco indecenti (soprattutto per quei tempi!), o anche fieramente critici nei confronti del Papato. Conservo un libro di sonetti con il suo ex libris, dove sono sottolineati alcuni versi e in cui sono apposte a matita lievi varianti nei non rari punti in cui la vena belliana si faceva troppo irriverente, se non schiettamente oscena: probabile indizio di una lettura ad alta voce di tali sonetti a uso della famiglia.
Rimasto orfano del padre – che, sopraffatto nel 1892 dal crollo della Banca Romana in cui aveva investito tutto quanto possedeva, aveva dovuto far fronte ai creditori vendendo beni e proprietà , compreso il palazzo di famiglia, morendone di crepacuore – nonno era riuscito, sicuramente con il soccorso di amici e parenti, a recuperare crediti e realizzare faticosamente quanto bastava per tornare in possesso del palazzo e di poco altro. Doveva quindi essere in gamba anche dal punto di vista economico-amministrativo, infatti, ormai quasi cinquantenne, riassestate le finanze e sistemati i conti, aveva potuto scegliersi una sposa (secondo i criteri di allora non più freschissima: aveva passato abbondantemente i trent’anni!) la cui famiglia, appartenente alla buona aristocrazia provinciale belga, di sicuro non l’avrebbe mai data in moglie a uno spiantato.
Con questa moglie «attempata» aveva però messo al mondo in cinque anni quattro figli sufficientemente sani e robusti.
Nella sua lunga vita (è morto a ottantotto anni) aveva visto di tutto: aveva conosciuto la piccola città del «papa re», aveva assistito alla presa di Roma da parte dei piemontesi e alla perdita del potere temporale del Papato, al crollo e allo sfaldamento dell’impero austro-ungarico cui inevitabilmente, figlio di madre viennese, si sentiva legato; e poi gli sconvolgimenti di Roma capitale con il nuovo assetto urbanistico, la speculazione edilizia, le demolizioni, la trasformazione del Tevere con i muraglioni che sebbene stravolgessero il volto della città , scongiuravano le periodiche inondazioni di cantine e piani terreni di case e palazzi (nonno ricordava la carrozza galleggiante in cortile e i cavalli fatti salire fin sul primo pianerottolo dello scalone).
Come se non bastasse, aveva vissuto due guerre mondiali, la prima delle quali vedeva schierate, l’una contro l’altra armate, Italia e Austria, sue due patrie. E poi il fascismo, il progresso: elettricità , automobili, telefono.
La nonna Antonia, catapultata da un paese lontano in una città che non avrebbe mai sentito sua, con una lingua che non avrebbe mai imparato a parlare correttamente, viveva all’ombra del marito in un mondo di ricordi del suo Belgio (dove ritornava in estate con figli e governanti), di devozioni e abitudini, un mondo i cui confini noi bambini oltrepassavamo raramente, immagino con fastidio da parte sua e, ricordo, con disagio da parte nostra. Di lei forse so ancora meno che del nonno, pur avendola un po’ meglio conosciuta perché è morta quando avevo quasi dieci anni.
Il nonno possedeva anche, in quel di Filacciano, una villa con giardino e terreno dove si ritirava spesso con la nonna, e a questa villa mio padre ha dedicato un suo divertentissimo album di schizzi e caricature: papà disegnava da dio.
Al piano sotto di noi abitava una vecchia zia, vedova, sorella del nonno: zia «Naziedda», poco aggraziato diminutivo di un nome, Ignazia, quasi altrettanto brutto. Di lei non ricordo nulla, tranne che si lamentava delle rumorose corse di noi bambini sopra la sua testa.
Non so come se la passassero
Non so come se la passassero nonno e nonna durante la guerra, ma sono stati indubbiamente tempi brutti perché anche da noi a Roma la fame si faceva sentire.
Io ne ho appena un ricordo indiretto. Sono certo di non averla veramente sofferta, più che certo, perché i nostr...