1. PRIMA DELLA RIVOLUZIONE:
SOCIETÀ E POLITICA VERSO IL ’68
L’aspetto più amabile e fugace del ’68 è stato
un’accezione di libertà diversa da quella classica, secondo
cui la mia finisce nel punto in cui comincia la tua,
quasi dovessero inevitabilmente competere e tollerarsi a vicenda.
Allora le libertà sembravano camminare insieme, non libertà “di”, “da”,
“fin dove”, ma libertà “con”, vissute in una sintonia in parte immaginaria,
in parte reale.
Anna Bravo, A colpi di cuore
1. I pugni in tasca: giovani come “nuovo” soggetto sociale
Il ’68 sancisce l’ingresso sulla scena pubblica di una nuova identità collettiva: le/i giovani. A rischio di sembrare banali, bisogna partire da un’ovvietà: i giovani ci sono sempre stati, anagraficamente parlando. Che cosa accade, allora, di diverso? Quali elementi concorrono a determinare il passaggio della gioventù da segmento demografico a soggetto sociopolitico, da fase di passaggio a «momento magico che non si sarebbe mai più ripetuto, […] a una lotta contro il potere dei “vecchi”, intendendo per vecchi tutti quelli che avevano già compiuto trent’anni?» (De Luna 2009, p. 163)? Perché tanta parte della letteratura concorda nell’individuare in questo nuovo “noi” (Socrate 2018) l’architrave del ’68 globale?
Perché sarà questa nuova soggettività a produrre alcune delle più rilevanti fratture di quella stagione – antiautoritarismo, pacifismo, antimilitarismo, costruzione della politica a partire da sé, interiorità come nuovo discorso pubblico – destinate peraltro a modificare in maniera perdurante le forme della partecipazione. E lo farà identificandosi come soggetto collettivo generazionalmente contrapposto al mondo adulto.
È una questione, quella della gioventù, marcatamente simbolica, più che materiale. Certo, la rivolta segue una linea di frattura generazionale, ma non mancano le figure adulte nel ’68 e il dato poi non vale per il movimento operaio. È soprattutto su repertori simbolico-estetici che si gioca l’associazione ’68/gioventù. La teatralità della protesta, l’irrisione, l’irriverenza, quel po’ di narcisismo indispensabile per volere tutto e subito, l’urgenza d’essere sempre e comunque dentro le cose, le giornate senza sonno e le vite nomadi: è il puer aeternus, «il fanciullo mitico/magico, che abita i singoli e i movimenti e che si è conservato un angoletto nella testa di molti ex […]. Forse nessuna epoca è stata più propizia al puer. Nella cultura del xx secolo la giovinezza è un valore che si ama, si odia, si invidia, si imita, si vende sul mercato degli oggetti e delle idee» (Bravo 2008, pp. 177-178). L’età simbolica del ’68 è senza alcun dubbio quella viscerale, idealista, traboccante d’eros e thanatos dell’adolescenza. E infatti il tempo del ’68 è il tempo senza tempo dell’adolescenza e dell’innamoramento, eterno finché dura, che taglia col passato (“voglio essere orfano”, si scriveva sui muri) e trasfigura il futuro in una rivoluzione come processo e non come esito (la lotta continua). È una condizione giovanile che trascende ogni età anagrafica e che risiede in una viscerale domanda di senso e di un’altra vita, individuale e collettiva, così come nel terrore di ogni finitudine (De Luna 2009). Come vedremo, la questione del puer tornerà, anche con il suo carico di irrisolti, questioni non viste, soglie di adultità da attraversare: i corpi che invecchiano e quelli inabili alla vita da barricata, il lavoro, l’inevitabile rapporto con le istituzioni, l’incorporazione dello slancio nel sistema di valori capitalistico (dalla gioventù al giovanilismo come creazione di un mercato). Il narcisismo è un conto in sospeso e tocca pagarlo, volenti o nolenti.
Ma tornando al prima, al periodo che precede e prepara la frattura giovanile, siamo negli anni del miracolo economico e l’Italia è attraversata da cambiamenti vorticosi. Si migra dalle campagne alle città e dal Sud al Nord, «un esodo che ridisegnò i tratti più significativi [della società], il rapporto con la famiglia, le gerarchie sessuali, il rapporto uomo donna» (De Luna 1998, p. 108). Gli occupati in agricoltura passano dal 45% del 1951 al 30% del 1961 (Bravo 2008), prende forma il ceto medio impiegatizio e il nuovo sottoproletariato urbano di operai-massa iper sfruttati e sradicati: è il tramonto della civiltà contadina, la fine di quel “mondo dei vinti” che, diversamente, Pier Paolo Pasolini e Nuto Revelli identificheranno come svolta preparatoria di un nuovo tempo, che altri ancora chiameranno postmodernità. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono un periodo “bifronte” (Piccone Stella 1993), fatto di sollecitazioni e mutamenti, ma anche di resistenze al cambiamento. Si consolida la costruzione della vita giovanile non solo come fase, ma come identità, prima di tutto per via di due tendenze che allargano i «limiti anagrafici tradizionali: da un lato, per gli adolescenti borghesi, un abbassamento dell’età di inizio dei processi di autonomia familiare […]; ad esso si univa il contemporaneo avvio, con la scuola media unificata e obbligatoria, dell’innalzamento per gli adolescenti proletari dell’immissione come apprendista nel mercato del lavoro» (Parisella 1998, p. 21).
È l’Italia dell’americanizzazione di costumi e consumi, della pubblicità, del cinema e della televisione, ma anche delle “mani sulla città” delle speculazioni urbane e suburbane. Tra le/i giovani, oggetto del crescente interesse del mercato, serpeggiano malessere, insoddisfazione, una implicita critica ai sogni di vita piccolo-borghese e consumista, fatti di villeggiature di massa su coste cementificate e cucine scintillanti. Un malessere che non si traduce però in azione politica organizzata, ma più spesso in forme di ribellione erratiche verso la società dei padri e le sue regole. Sono gli anni, i Cinquanta, del teppismo, dei teddy boys, del mod e dello skin, dei blusons noirs: un arcipelago variamente caratterizzato a seconda dei contesti nazionali e territoriali, ma accomunato dal bisogno di rompere con schemi, aspettative, corsi di vita prestabiliti. Un sentire che si fa produzione estetica (ne è icona cinematografica Marlon Brando ne Il Selvaggio, del 1953), insistenza mediatica, speculazione giornalistica e intellettuale, in un gioco di contrapposizioni che rafforza i processi di autoidentificazione giovanile. Giovani perduti, allo sbando, da salvare, oggetto di crociate moraliste ma anche, più raramente, di qualche discorso adulto “aperto e solidale”, soprattutto da parte di intellettuali e letterate/i (Bravo 2008, p. 39). Giovani che diventano argomento polemico per eccellenza e «caricatura collettiva del sistema di agi e prestigiosità borghesi» (Croce 1990, pp. 12-13), in quanto cifra del mutamento (Mangano 1999).
2. Dove il personale diventa politico: ritratti di famiglia
E mia madre mi dice che arriva il fotografo a farci le fotografie. È una giornata di sole, d’estate. Ci lava, ci pulisce, ci veste di bianco e arriva questo fotografo. Mio padre vuole far fare una fotografia a mio fratello minore sulla motoretta. E io gli dicevo: “Ma voglio farla anch’io!”. “No, tu no, perché sei una bambina”. Me lo ricordo come adesso. Io ho detto: “Ma la voglio fare anch’io!”, mi sono impuntata. E non c’è stato modo. E mio fratello, che era più piccolo di me di due anni, non voleva salirci, perché era piccolino, aveva due anni. E si è messo a piangere. Mia madre per tutta sta scena era contrariata e dice: “Ma fai salire lei, la facciamo a tutti e due, no?”. “No, cosa c’entra una ragazzina con la moto!”. Una roba così, non è che mi ricordo le parole, ma il senso dell’esclusione, quello benissimo. Allora mia madre, che deve portare mio fratello più piccolo, sale anche lei. Lei con un muso [ride]… e ho ancora l...