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Canne al vento
Informazioni su questo libro
Canne al vento è il romanzo più celebre di Grazia Deledda, scrittrice sarda e vincitrice del Premio Nobel per la letteratura. Nel libro si allude al tema profondo della fragilità umana e del dolore dell'esistenza; in questa direzione mobilita le riflessioni e le fantasie di un eroe protagonista, come un primitivo, un semplice, assai simile al pastore errante leopardiano. "Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne, pensaci bene. Al di sopra di noi c'è una forza che non possiamo vincere."
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
ClassiciIV
Un gran fuoco di lentischi, come lo aveva veduto Noemi fanciulla, ardeva nel cortile di Nostra Signora del Rimedio, illuminando i muri nerastri del Santuario e le capanne attorno.
Un ragazzo suonava la fisarmonica, ma la gente, ch’era appena uscita dalla novena e preparava la cena o già mangiava entro le capanne, non si decideva a cominciare il ballo.
Era presto ancora: sul cielo lucido del crepuscolo spuntavano le prime stelle, e dietro la torretta del belvedere l’occidente rosseggiava spegnendosi a poco a poco.
Una gran pace regnava su quel villaggio improvvisato, e le note della fisarmonica e le voci e le risate entro le capanne parevano lontane.
Qua e là davanti ai piccoli fuochi accesi lungo i muri si curvava la figura nera di qualche donna intenta a cucinare.
Gli uomini, venuti alla vigilia per portare le masserizie, eran già ripartiti coi loro carri e i loro cavalli: rimanevano le donne, i vecchi, i bambini e qualche adolescente, e tutti, sebbene convinti d’esser là per far penitenza, cercavano di divertirsi nel miglior modo possibile.
Le dame Pintor avevano a loro disposizione due capanne fra le piú antiche (tutti gli anni ne venivan fabbricate di nuove) dette appunto sas muristenes de sas damas, perché divenute quasi di loro proprietà in seguito a regali e donazioni fatte alla chiesa dalle loro ave fin dal tempo in cui gli arcivescovi di Pisa nelle loro visite pastorali alle diocesi sarde sbarcavano nel porto piú vicino e celebravano messe nel Santuario.
Ecco ancora, fra una capanna e l’altra, all’angolo del cortile, il sedile di pietra addossato al muro ove zia Pottoi aveva veduto donna Maria Cristina corteggiata come una Barona da tutte le vassalle che si recavano in pellegrinaggio alla chiesa.
Adesso donna Ester e donna Ruth sedevano umili e nere come due monache col fazzoletto bianco in testa e le mani sotto il grembiale, pensando a Noemi lontana, a Giacinto lontano.
La loro cena era stata frugale: una zuppa di latte che non gonfiava lo stomaco e lasciava il pensiero lucido e puro come quel gran cielo di primavera. Eppure, di tanto in tanto, donna Ester aveva come un brivido di rimorso, un pensiero segreto quasi colpevole. Giacintino... la lettera scritta di nascosto...
Accanto a loro, seduta per terra con le spalle al muro e le braccia intorno alle ginocchia, Grixenda rideva guardando il ragazzo che suonava la fisarmonica. Nella capanna attigua le parenti con cui ella era venuta alla festa cenavano sedute per terra attorno ad una bertula1 stesa come tovaglia, e mentre una di esse cullava un bambino che s’addormentava agitando le manine molli, l’altra chiamava la fanciulla.
— Grixenda, fiore, vieni, prendi almeno un pezzo di focaccia! Cosa dirà tua nonna? Che t’abbiamo lasciato morir di fame?
— Grixenda, non senti che ti chiamano? Obbedisci, — disse donna Ester.
— Ah, donna Ester mia! Non ho fame... che di ballare!
— Zuannantò! Vieni a mangiare! Non vedi che il tuo suono è come il vento? Fa scappar la gente.
— Aspetta che le otri siano piene e vedrai! — disse l’usuraia, uscendo sulla porticina a destra delle dame Pintor e pulendosi i denti con l’unghia.
Anche lei aveva finito di cenare e per non perder tempo si mise a filare al chiarore del fuoco.
Allora fra lei, le dame, la ragazza e le donne dentro cominciò la solita conversazione: come al paese durante tutto l’anno parlavano della festa, ora alla festa parlavano del paese.
— Io non so come avete fatto a lasciar la casa sola, comare Kallí; come? — disse una ragazza alta che portava sotto il grembiale un vaso di latte cagliato, dono del prete alle dame Pintor.
— Natòlia, cuoricino mio! Io non ho lasciato in casa i tesori che ha lasciato in casa il tuo padrone il Rettore!
— Corfu ‘e mazza a conca!2 E allora datemi la chiave. Vado e frugo, in casa vostra, eppoi scappo nelle grandi città!”
— Tu credi che nelle grandi città si stia bene? — domandò donna Ruth con voce grave, e donna Ester che aveva vuotato il vaso del latte e lo restituiva a Natòlia con dentro mezza pezza3 di mancia, si fece il segno della croce:
— Libera nos Domine.
Entrambe pensavano alla stessa cosa, alla fuga di Lia, all’arrivo di Giacinto, e con sorpresa sentirono Grixenda mormorare:
— Ma se quelli che stanno nelle grandi città vogliono venir qui!
La gente cominciava ad uscir nel cortile; sulle porticine apparivan le donne che si pulivan la bocca col grembiale e poi rincorrevano i bambini per prenderli e metterli a dormire.
Una delle parenti di Grixenda andò dal suonatore di fisarmonica e gli porse una focaccia piegata in quattro.
— E mangia, gioiello! Cosa dirà tua nonna? Che non ti do da mangiare?
Il ragazzo sporse il viso, strappò un boccone dalla focaccia e continuò a suonare.
Ma nessuno si decideva a cominciare il ballo tanto che Grixenda e Natòlia, irritate per l’indifferenza delle donne, dissero qualche insolenza.
— Si sa! Se non ci sono maschi non vi divertite!
— Ci fosse almeno Efix il servo di donna Ruth. Anche quello vi basterebbe!
— È vecchio come le pietre! Che me ne faccio di Efix? Meglio bello con un ramo di lentischio!
Ma d’un tratto il cane del prete, dopo aver abbaiato sul belvedere, corse giú urlando fuori del cortile e le donne smisero d’insolentirsi per andare a vedere. Due uomini salivano dallo stradone, e mentre uno stava seduto su un piccolo cammello, l’altro si piegava su una grande cavalletta le cui ali parevano mandassero giú e su i lunghi piedi del cavaliere. Il chiarore del fuoco, a misura che i due salivano, illuminava però le loro figure misteriose; e la prima era quella di Efix su un cavallo gobbo di bisacce e di guanciali, e l’altra quella di uno straniero la cui bicicletta scintillò rossa attraversando di volo il cortile.
Grixenda balzò in piedi appoggiandosi al muro tanto era turbata; anche la fisarmonica cessò di suonare.
— Donna Ester mia! Suo nipote.
Le dame s’alzarono tremando e donna Ester parlò con una voci...
Indice dei contenuti
- I
- II
- III
- IV
- VI
- VII
- VIII
- IX
- X
- XI
- XII
- XIII
- XIV
- XV
- XVI
- XVII